Le teorie non sono fatte che per morire nella guerra del tempo: sono delle unità più o meno forti che bisogna impegnare al momento giusto della lotta…; le teorie devono essere sostituite, perché le loro vittorie decisive, più ancora delle loro sconfitte parziali, determinano la loro usura

 (Guy Debord, da In girum imus nocte et consumimur igni).

 

Questa citazione di Debord, tratta da uno dei suoi film sperimentali più noti, è il punto di partenza per una riflessione sulla vita attiva di Gianfranco Faina (1935-1981), che provo a condurre partendo dagli esiti finali per risalire a ritroso fino al tempo della sua formazione politico-intellettuale, piutto­sto che dal suo più noto percorso[1] che dal Pci lo porta all’operaismo e poi attraverso vari passaggi fino all’anarchismo finale. Questa modalità può esser utile per rintracciare qualche elemento essenziale di continuità, pur nel costante mutare delle posizioni che Faina ha assunto e delle teorie che ha sostenuto nel corso della sua militanza, e qualche altrettanto rimarchevole ele­mento di originalità della sua ricerca critica. Posso anticipare in premessa qualche conclusione: la continuità sta, come è già stato osservato, nell’imperativo etico che ha connotato fino alle estreme conseguenze il suo agire politico, dal tempo della militanza nella sezione del Pci “Giuseppe Spata­ro” e nella Segreteria della Fgci genovese fino all’attività nei comitati e circoli sorti attorno al Ses­santotto e infine negli ultimi anni di militanza armata e di galera; mentre l’originalità e anche l’ano­malia, rispetto alle tante altre e ricche traiettorie di vita e di militanza eretica on the wild side che hanno caratterizzato la grande stagione del movimento in Italia negli anni Sessanta e Settanta del se­colo scorso, consistono nell’aver costantemente scelto di sottoporre al vaglio dei fatti, e in defini­tiva della scienza (e delle evoluzioni tecnologiche e anche sociologiche), la teoria della rivoluzione so­ciale, sottraendosi in questo modo a qualsiasi forma di cristallizzazione ideologica, inclusa quella anarchica. Detto questo, mi riprometto di restituire Faina al suo tempo, senza erigere un monumento alla sua figura né rivendicarne forzosamente l’attualità; quello che interessa in definitiva è riscoprire le sue tracce e seguirle per coglierne l’esemplarità, anche oltre il contesto genovese in cui Faina ha prevalentemente operato. La premessa non sarebbe tuttavia completa se non citassi anche il fatto che della figura e dell’attività di Gianfranco Faina si sono occupati, per indagarne i risvolti giudizia­ri, oltre che gli organi inquirenti e le autorità di polizia, anche alcuni autorevoli esponenti del Partito comunista genovese, a distanza di meno di vent’anni dalla sua militanza in quel partito e, significa­tivamente, senza che la stessa venga minimamente citata: in un opuscolo diffuso a Genova nel 1979, poco dopo l’uccisione dell’operaio Guido Rossa da parte delle Brigate Rosse, alla voce Ritard­i ed inefficienze nell’azione della Magistratura e dei corpi di polizia si invitano gli organi in­quirenti ad occuparsi della sua “inquietante” posizione.[2]

1. Gianfranco Faina muore a Vignola (Pontremoli) l’11 febbraio 1981 all’età di 46 anni. È stato lì trasferito morente dall’Ospedale Tumori di Milano, poche settimane dopo la scarcerazione dallo “speciale” di Palmi a seguito di tardiva concessione della libertà provvisoria per le sue ormai com­promesse condizioni di salute. È in carcere dal giugno 1979 come militante di Azione Rivoluziona­ria, gruppo armato clandestino alla cui costituzione nel 1977, con Vito Messana e Salvatore Cinieri, ha dato un impulso determinante. Azione Rivoluzionaria, cui hanno aderito circa un centinaio di compagni, si è caratterizzata nella sua breve esistenza, rispetto alle altre formazioni armate di profi­lo nazionale come le Brigate Rosse, i NAP e Prima Linea, per una struttura basata su piccoli gruppi di affinità, in luogo di colonne o squadre, e per la matrice anarco-comunista dei suoi componenti. Le azioni armate, in genere dimostrative ma talvolta anche cruente, si sono particolarmente concen­trate sui mass media (vedi il ferimento del giornalista de «l’Unità» Ferrero e l’azione contro le Edi­zioni Paoline rivendicata da Azione Rivoluzionaria Femminista), oppure sono state orientate dal tema del­la “riparazione sociale”: vedi il ferimento del medico del carcere di Pisa Alberto Mammoli, che non aveva ritenuto di dover curare l’anarchico Franco Serantini, morto nel 1972 in carcere dopo un pe­staggio subito successivamente all’arresto;[3] oppure l’attentato all’IPCA di Ciriè, un colorifi­cio tori­nese “fabbrica” di centinaia di morti per cancro alla vescica.[4] Nel 1980 lo stesso Faina assie­me ad altri militanti dichiara, nel corso del processo per il sequestro a scopo di autofinanziamento dell’armatore livornese Tito Neri, l’autoscioglimento dell’organizzazione a seguito «della constata­zione dell’inadeguatezza degli strumenti e dei mezzi» per praticare contenuti e obiettivi teorici dei quali comunque non si riconosce il superamento o la sconfitta. Prima di partecipare alla fondazione di AR, Gianfranco Faina ha fatto parte per alcuni mesi (fino al mese di ottobre del 1975) delle Bri­gate Rosse, più precisamente ha partecipato alla fase di costituzione inizialmente movimentista e trasversale della loro colonna genovese. Di fatto Faina, quale figura di spicco del movimento, ha contribuito a introdurre le Brigate Rosse a Genova, considerato che anche dopo il sequestro del giu­dice Mario Sossi (aprile 1974), che come ormai noto era stato organizzato e gestito “da fuori”, l’organizzazione nel capoluogo ligure era sostanzialmente assente, ad eccezione di una rete anche significativa di contatti e relazioni “irregolari”; solo successivamente, con l’ingresso nell’organizza­zione di militanti provenienti da altri gruppi – in particolare dalle piccole formazioni marxiste/leni­niste e da Lotta Continua –, l’organizzazione assumerà una configurazione omogenea alle altre co­lonne del Nord Italia, con militanti e radicamento locali, e intraprenderà un percorso progressiva­mente terrorista e omicidiario. Faina, assieme ad alcuni del gruppo che a lui fanno riferimento, è en­trato nelle Brigate Rosse nella spontanea e anche ingenua convinzione di poter replicare “in grande” una situazione gappista e di poterla governare, in continuità con l’appoggio dato qualche tempo pri­ma al cosiddetto gruppo “22 ottobre”,[5] subito dopo gli arresti e ancor più nelle fasi processuali, e nono­stante la forte e inequivocabile connotazione leninista e financo stalinista dell’organizzazione, te­nendo ben presente che Faina già da diversi anni aveva maturato un distacco radicale dal lenini­smo. Prima di allora Faina era stato in contatto con la struttura illegale di Potere Operaio poco pri­ma del­lo scioglimento; successivamente con quella dell’Autonomia operaia e poi ancora con Senza Tre­gua. Fino a quel momento si è trattato, tuttavia, di esperienze a supporto ed esplicitazione delle fina­lità dell’azione politica, il cui orizzonte è comunque considerato centrale. La svolta lottarmati­sta di Faina matura tra il 1974 e il 1975, quando si esaurisce l’esperienza del nuovo movimento di Balbi, al termine delle varie occupazioni susseguitesi tra il dicembre 1972 e il 1974. È di quello stesso pe­riodo l’attività svolta, assieme ad altri compagni, con il Collettivo Editoriale Genova. Fai­na, che è all’epoca professore incaricato di Storia dei Partiti Politici a Genova, vi pubblica alcuni ti­toli,[6] tra i quali il volume collettaneo Gauchisme, marxismo e rivoluzione co­munista (aprile 1975), su cui mi soffermo, che già in copertina («La coscienza che viene dall’ester­no è la forma più reifica­ta, estraniata, della coscienza repressiva») annuncia il contenuto anti-lenini­sta e il carattere liberta­rio e anarchista del comunismo concepito da Faina e dagli altri autori. In que­sta opera (curata, oltre che da Gianfranco Faina, anche da Roberto Sinigaglia, Luigi Grasso, Riccar­do Degl’Innocenti, Emilio Quadrelli e da Mimma Castellucci, quest’ultima non citata tra gli autori nella pubblicazione) si assume, nell’analisi delle vicende secolari del movimento operaio e proleta­rio, il punto di vista gauchiste, così come questo si è costituito a partire dal Maggio francese: è il Maggio francese, emergenza improvvisa della rivoluzione moderna (non “l’eterna rivolta dei giova­ni” ma la “moder­na gioventù della rivolta”), che impone, con la rimessa in discussione delle coordi­nate interpretative della realtà esistente, la riconsiderazione della storiografia ufficiale e dell’orto­dossia marxista, a partire dalle esperienze minoritarie e dimenticate, o volutamente ignorate, del gauchisme storico: Gorter, Pannekoek, il KAPD, la critica del sindacato e del partito e i consigli operai. Queste espe­rienze sono tuttavia rappresentate come il fermento critico che ha accompagnato l’ascesa e la scon­fitta del movimento operaio e delle sue ideologie, e quindi ci si guarda bene dal ri­proporle, in quan­to il loro recupero costituirebbe una ennesima fissazione ideologica, essendo l’essenza del gauchi­sme il “pensarsi come unità di critica, teoria e pratica” che abolisce e demistifi­ca in permanenza tut­te le ideologie, oltre che il manifestarsi in appoggio a qualsiasi lotta sconvolga la logica corrente e l’area del prevedibile, del programmabile e del recuperabile da parte del potere. Prendendo spunto dalle riflessioni di Jacques Camatte,[7] si sostiene che il ciclo della classe operaia è terminato, in quanto i suoi obbiettivi sono stati realizzati e perché essa non è più su scala mondiale un soggetto determinante.

2. Ma è nella soggettività radicale all’opera nella critica della vita quotidiana la vera essenza della rivoluzione sociale, come sostiene Raoul Vaneigem nel Saper vivere. Trattato ad uso delle giovani generazioni[8] e in Terrorismo e rivoluzione, appendice allo stesso Saper vivere, ampiamente citato nel testo. E, a partire da questa, è l’ansia della liberazione a irrompere e ritornare, con l’evocazione della fine della follia nelle azioni definite folli, della speranza ritrovata nei gesti apparentemente di­sperati, del fare parte per se stessi per potersi ritrovare con gli altri. La critica al terrorismo di sini­stra degli autori di Apocalisse e rivoluzione[9] e di Raul Vaneigem viene fedelmente riportata nel te­sto ma ci si limita ad assumerla laicamente come antidoto, quasi a volerla tener presente come un caveat, senza che da questo discenda la rinuncia all’organizzarsi e al fare. Sostiene infatti Vanei­gem: il terrorismo è un prodotto diretto del sistema in decomposizione, è un fenomeno nichilista che rischia di coinvolgere la rivolta proletaria in una dinamica autodistruttiva, qualora essa non riesca a dislocarsi sul terreno positivo del gioco sovversivo e del sabotaggio. Sostengono Cesarano e Collu: l’organizzazione, che per tutti i gruppi leninisti è una divinità da adorare, per altri è un tabù da com­battere; il che a pensarci bene è proprio la stessa cosa. Ancora: la guerra civile, prodotta “in vitro” dal capitale, è il nuovo narcotico che sostenta la sua durata, «moltiplicando gli incubi dei proletari e (…) facendo sì che le sue aree di dominio diventino campi trincerati, che i suoi cittadini fedeli si identifichino con i suoi poliziotti» (citato nel testo): va notato quanto profetiche risultino queste pa­role, nell’epoca del terrorismo come norma, se solo si pensi ai riti esasperati delle perquisizioni e dei controlli negli aeroporti e nelle stazioni e alla totale assuefazione con cui tutti, riconoscenti, vi si assoggettano. Anche Jean Barrot[10], proveniente da I.C.O. (Informations Correspondance Ouvrières) e fondatore di Mouvement Communiste, e soprattutto Emile Marenssin[11] forniscono riferimenti e contributi alle tesi del gruppo genovese. Se il rifiuto del lavoro salariato, che è il mezzo di oppres­sione e il modo di capitalizzazione degli uomini e di eternizzazione del capitale, è l’elemento fonda­mentale di unificazione della “classe universale”, Emile Marenssin sostiene che il capitale stesso, essendo incapace di risolvere l’esplosiva contraddizione tra il suo specifico modo di produzione, che ha toccato i limiti della sua possibile espansione, e i rapporti di produzione, tende a suscitare e generalizzare nello stesso tempo il proprio terrorismo controrivoluzionario e il controterrorismo ri­voluzionario degli uomini proletarizzati. L’unica finalità di questi ultimi, per il fatto stesso di dover sopravvivere e di voler vivere, non può che essere il passaggio immediato al comunismo. Il Gian­franco Faina che, terminata l’esperienza del Collettivo Editoriale Genova e liquidati definitivamente i rapporti con le Brigate Rosse per incompatibilità comportamentale oltre che teorica, fonda di lì a poco Azione Rivoluzionaria, è un militante comunista giunto al momento fatale del proprio impe­gno rivoluzionario: una inquietudine interiore lo spinge a impegnarsi senza respiro in ogni iniziati­va, a privilegiare l’azione a ogni costo, a porsi e a porre comunque degli obiettivi. I due documenti teorici che l’organizzazione Azione Rivoluzionaria diffonde durante la sua esistenza (1978 e 1979), prima del comunicato di autoscioglimento, sono scritti in parte dallo stesso Faina e in parte da altri mili­tanti che lo hanno accompagnato nel suo percorso: qua e là vi è riconoscibile il suo stile e devo­no essere letti anch’essi come il suo approdo teorico al termine di un viaggio nella militanza politica iniziato trent’anni prima.

3. Il fine della rivoluzione, così si apre il primo dei due documenti[12], è la liberazione della vita quo­tidiana; più esattamente, deve trattarsi di una autoliberazione che raggiunge dimensioni sociali, piut­tosto che di una liberazione di classe o di massa dietro la quale si nasconderà sempre una élite o una gerarchia e infine uno Stato. Il nuovo movimento non solo rifiuta quel mostro storico che è il marxi­smo sovietico, ma rifiuta anche il mito del proletariato industriale e della classe rivoluziona­ria, un mito che ha messo in un vicolo cieco il movimento del ’68. Nonostante si parli da più di un secolo (nel momento in cui il documento viene scritto) della scienza marxista, della critica scientifi­ca della società del capitale, il pensiero critico ha fatto ben pochi passi avanti e ha avuto anzi un ruolo re­gressivo e repressivo; le contraddizioni del capitale e del suo sviluppo, su cui faceva perno la critica “scientifica”, sono state assorbite e, insieme ad esse, anche la maggiore delle contraddizio­ni, quella fra lavoro e capitale. Nella misura in cui la crisi ormai investe tutti i campi contaminati dal dominio, tanto più si evidenziano gli aspetti reazionari dei progetti socialisti, sia maoista sia trotzkista sia sta­linista, che conservano i concetti di gerarchia, di autorità e di stato come parte del futuro post-rivolu­zionario, e per conseguenza anche i concetti di proprietà “nazionalizzata” e di “dittatura proletaria”. Fino a ieri quanti parlavano di una società decentralizzata e di una comunità umanistica in armonia con la natura e coi bisogni degli individui erano tacciati di romanticismo rea­zionario, mentre l’amo­re dei giovani per la natura, si sostiene, è una reazione contro le qualità artifi­ciali dell’ambiente ur­bano e dei suoi frusti prodotti, e la loro predisposizione all’azione diretta è una reazione contro la burocratizzazione e la centralizzazione della società. Ancora: la loro tendenza a evitare la fatica ri­flette una rabbia crescente verso l’insensata routine industriale alimentata nella moderna produzione di massa nella fabbrica, negli uffici, nelle scuole. Il loro intenso individuali­smo, infine, è una decen­tralizzazione di fatto della vita sociale – una ritirata personale dalla società di massa. Infine: il mo­vimento non rinvia allo scontro tra le classi, ma lo assume in prima persona. L’azione è solo diretta. Qualunque siano i risultati oggettivi, i riscontri soggettivi sono fondamenta­li: l’azione diretta rende gli individui consci di se stessi in quanto individui che possono mutare il loro destino e riprendere il controllo della propria vita. Con il debole concetto di “fascistizzazione”, allora peraltro abbastanza comune nel movimen­to, al di là delle scelte organizzative più o meno ar­mate con cui opporvisi, il documento forza la realtà, o meglio la semplifica a proprio uso, mostran­do il proprio decisi­vo limite. Si dice: le forze del passato sono bene organizzate e specializzate nell’arte della morte – i lager tedeschi fumano an­cora. Nella prospettiva della costituzione dello Sta­to europeo, per l’influenza egemonica che vi gio­cherà la Germania Federale, le trasformazioni av­venute nello Stato tedesco si riveleranno decisive e con ogni probabilità il nuovo Stato europeo si costituirà come prodotto della germanizzazione e con una costituzione che sarà la sintesi delle costi­tuzioni “speciali” che si sono andate accumulando sui corpi delle costituzioni originarie. L’apparato di repressione statale non ri­corre più soltanto a sem­plici violazioni del diritto o all’uso sistematico della violenza, ma persegue l’inquadramento di ogni singolo cittadino attraverso la guerra psicolo­gica con l’impiego di mass-media.

4. Il successivo documento del 1979, pubblicato da «Controinformazione» e da «Anarchismo»,[13] è più ar­ticolato e dedica molto spazio alla critica dei media riprendendo il tema cruciale della critica della vita quotidiana: «Il sistema mercantile impone le sue rappresentazioni, le sue immagini, il suo sen­so, il suo linguaggio ogni volta che si lavora per esso, cioè la maggior parte del tempo. Questo in­sieme di idee, di immagini, di identificazioni, di condotte (…) forma lo Spettacolo, in cui ciascu­no gioca ciò che non vive realmente e vive falsamente ciò che non è. (…) I giornali, la radio, la te­levisione sono i veicoli più grossolani della menzogna. Le immagini che ci dominano sono il trionfo di ciò che non siamo e di ciò che ci scaccia da noi stessi. (…) Il comunismo, essendo la realizzazio­ne dei sogni e dei desideri, non saprà che farsene dell’industria dei sogni e dei desideri, così come rea­lizzando il significato finora compiuto dall’espressione artistica renderà priva di significato la ri­proposizione della stessa. (…) Nessuno si batterà senza riserve se non apprenderà dapprima a vivere senza tempi morti». La critica al Pci diventa una discriminante nei confronti delle BR: «I pericoli del ricorso alla guerra nucleare appaiono provenire più dal “socialimperialismo” che dall’area occi­dentale, tanto più che gli appelli al “movimento operaio” contro l’accerchiamento non avrebbero oggi l’eco che ebbero gli appelli leniniani di 50 anni prima». Sia i processi di ristrutturazione statale sia i processi di ristrutturazione economica vedono nel PCI una forza promozionale non secondaria a quella democristiana, specie nelle fabbriche dove il ruolo della burocrazia picista nel favorire la collaborazione e il controllo anche poliziesco è fondamentale. I compagni delle BR che teorizzano la centralità DC in questo processo rischiano di rimanere spiazzati dal ruolo dei “berlingueriani” che risalta nei loro stessi “diari di fabbrica”. La critica distruttiva, la critica delle armi, si sostiene più avanti, è l’unica forza che può rendere credibile e attendibile qualsiasi progetto. L’originalità della situazione italiana, rispetto a quella tedesca, è l’esistenza di un movimento che non isola la guerri­glia ma ha anzi un effetto moltiplicatore della sua diffusione. Azione Rivoluzionaria è nata, si dice, con un occhio rivolto all’esperienza della Raf e alle sue analisi dei processi in corso nella Germania Federale e con l’altro ai caratteri e alle forze del movimento in Italia che non trovano espressione ar­mata nelle organizzazioni che attualmente conducono la guerriglia. L’idea di organizzazione di AR tende verso un modello sperimentato in Spagna negli anni ’30 e ripreso nei “collettivi” e nelle “co­muni” dei radicali americani (Weather Underground[14]): gruppi di affinità dove i legami tradizio­nali sono rimpiazzati da rapporti profondamente simpatetici, contraddistinti da un massimo di inti­mità, conoscenza, fiducia reciproca fra i loro membri. Il gruppo di affinità tende da una parte a eli­minare fra i compagni rapporti di pura efficienza, dall’altro ad attenuare la divisione schizofreni­ca fra pri­vato e collettivo. Ancora: la grande scoperta fatta da Nanterre nel ’68 è che la contestazio­ne frutta quando la si faccia direttamente e immediatamente nei luoghi in cui si esercita il potere bor­ghese. Il rivoluzionamento della scuola, della famiglia, della medicina, delle prigioni, del rap­porto fra i sessi non viene rinviato all’indomani della rivoluzione economica e politica. Il modello secon­do cui la ri­voluzione deve prima sovvertire la proprietà, dopo di che tutto verrà di conseguen­za, è morto e se­polto allo stesso modo del modello “democratico” dell’azione politica come azione indi­retta e diffe­rita che alberga ormai solo nel Pci e nei suoi gruppuscoli. La rivoluzione non ha mo­delli, si sostiene più avanti nel documento: sui muri di Bologna è apparsa una scritta: URSS, Cina, Cuba, Vietnam, con quattro croci sopra. I modelli hanno fatto il loro tempo e la morte del pensare per mo­delli libera il pensiero. Essi sono a un tempo strumenti e forme dell’esercizio del potere; come dico­no i gauchi­sti francesi, i modelli sono “piccoli capi” che abbiamo nel cervello.  Il marxi­smo, stra­volto dal deter­minismo, non riesce più a rappresentare una rottura reale e un’alternativa teorica alla logica del ca­pitale. L’idea della società comunista futura implica un rovesciamento così totale da in­fondere sgo­mento e incredulità, più che paura e sfiducia in quanti se la prospettano superficialment­e. Eppure è lo stesso capitalismo che ci ha abituato a una distruzione continua, disuma­na, profonda: le sue guer­re hanno distrutto intere città e immense forze produttive, ma esso le ha ri­costruite in quantità mag­giore e le ha piegate sempre più al suo dominio. Segno che il livello ormai raggiunto del sapere so­ciale generalizzato è tale da consentire l’opera immane della eliminazione degli orrori dell’indu­strializzazione e commercializzazione capitalistica, la totale ricostruzione delle città e re­staurazione della natura. Perché il bisogno del profitto dovrebbe essere più forte dei nuovi bisogni vitali della li­berazione, ci si domanda? Ogni merce è inseparabile dalla menzogna che la rappresen­ta: è forte an­che qui l’influsso di Vaneigem. Il lavoro forzato produce menzogna, esso rea­lizza un mondo di rap­presentazioni menzognere, un mondo capovolto in cui l’immagine tiene il po­sto della realtà. In que­sto sistema spettacolare e mercantile, il lavoro forzato produce su se stesso la menzo­gna che il lavo­ro è utile e necessario, e che è interesse di tutti lavorare. Il comunismo è final­mente abolizione del lavoro; se la rivoluzione spezza in un punto questa spirale, si potrà volgere questa massa enorme di mezzi, materiali e uomini oggi investita nel dominio del sociale e del priva­to alla liberazione socia­le del lavoro (che è ben altra cosa dell’automazione della produzione di merci). Il comunismo sarà dunque ri-umanizzazione del territorio, suo rimodellamento sui bisogni e i desideri della comunità umana realizzata, non semplice integrazione di entità colonizzate irreversi­bilmente.  A questo punto il documento volge un po’ temerariamente a individuare i primi provvedi­menti all’alba del dopo ri­voluzione, a cominciare dalla espropriazione generalizzata, con provvedi­menti che sembrano ispira­ti ai manifesti insurrezionali di Babeuf, ovvero di una praticità spavento­sa. Ma qui probabilmente ci allontaniamo dal sentire tipico di Faina. Giova a questo punto tornare agli ini­zi.

5. Gianfranco Faina inizia il suo apprendistato politico nel 1952 al Liceo Mazzini di Sampierda­rena sotto l’influenza del suo professore di filosofia Emilio Agazzi[15]assieme al quale partecipa alle ini­ziative culturali sampierdarenesi del circolo culturale Il Portico. È Bruno Enriotti, successiva­mente giornalista de «l’Unità», a introdurlo alla sezione del Pci “Giuseppe Spataro”,[16] dove si iscri­ve al Circolo Piombelli della Fgci e dove incontra Rinaldo Manstretta, operaio intellettuale ed ex parti­giano sappista nella Brigata Volante Severino, al quale resterà legato per tutta la vita e con il quale condividerà molte delle sue scelte politiche successive. Il giovane Faina inizia a mettere in luce la propria indipendenza di giudizio, all’interno del Pci, esprimendo posizioni fortemente criti­che nel novembre 1956 al Congresso provinciale del Partito in seguito ai fatti di Ungheria, malgra­do le qua­li – per la sua autorevolezza nonostante la giovane età – viene eletto nel Comitato federale della Fgci. Nel 1957 Gianfranco Faina si schiera, assieme a Rinaldo Manstretta, per l’autonomia della Fgci dalla linea di partito e si oppone alla decisione della Fgci di approvare le tesi uscite dall’VIII Congresso del Pci. Raffreddatisi momentaneamente i suoi rapporti con il partito, Faina nel 1958 si laurea e si trasferisce a Milano per un breve periodo; lì entra in contatto con Feltrinelli edi­tore, in particolare con Gian Piero Brega, e con Ludovico Geymonat e la sua scuola. Faina tuttavia condivi­de le posizioni filosofiche espresse da Giulio Preti in Praxis ed empirismo (1957), fortemen­te criti­che verso il marxismo italiano, piuttosto che quelle di Geymonat, transitato dal positivismo logico al marxismo filocinese.[17] Tornato a Genova, Faina accetta una candidatura alle elezioni uni­versitarie nella lista Università Nuova all’ORUG e partecipa alle attività dei Centri di Nuova Resi­stenza. Sia­mo ormai alla vigilia del 30 giugno 1960: Gianfranco Faina quel giorno è in piazza. La spontaneità e la decisione che caratterizzano gli scontri di piazza gli fanno supporre l’esistenza di una forza ri­voluzionaria tenuta a freno da partiti e sindacati. Partecipa subito dopo alle attività del Circolo Go­betti, sorto per iniziativa di alcuni intellettuali dell’area socialista e libertaria, che diviene il centro d’incontro delle diverse componenti della Nuova Sinistra. Da questi incontri nasce l’idea di «Demo­crazia Diretta». A distanza di un anno dal 30 giugno 1960, e in stretta relazione con quel moto di ri­volta, a Genova vede la luce «Democrazia Diretta. Notiziario delle lotte e della democrazia opera­ia».[18] La pubblicazione, esito della collaborazione tra un gruppo di giovani intellettuali militanti, di cui Gian­franco Faina fa parte, e alcuni militanti di fabbrica e del porto (tra questi Bruno Delucchi e Carlo Boccardo), si presenta come autonoma da partiti e sindacati, espressione di nuove forze socia­li e ideali, e uscirà in tre numeri, tra il giugno e l’ottobre 1961. «Alle origini del nostro lavoro e del nostro impegno sta la considerazione, sempre più diffusa del resto, che le masse operaie si tro­vano in una posizione di lotta più avanzata di quelle espresse formalmente dalla politica delle loro istitu­zioni tradizionali, dai partiti soprattutto, ma anche dai sindacati», queste le prime parole dell’edito­riale. I redattori, tra i quali Claudio Costantini e Gino Bianco, hanno in comune una forte insoffe­renza nei confronti della marmorea burocrazia stalinista e in genere dei partiti istituzionali della si­nistra, incapaci di interpretare e rappresentare il nuovo fermento politico e sociale che si sta affer­mando. In «Democrazia Diretta» convivono l’operaismo di Raniero Panzieri e Romano Alqua­ti, l’influenza del pensiero socialista libertario di Andrea Caffi e Nicola Chiaromonte e l’apertura verso i nuovi movimenti per i diritti civili. Proprio a causa della sua partecipazione a «Democrazia Diretta», Gianfranco Faina viene espulso con l’accusa di frazionismo dal Pci, con l’intervento diret­to di Giu­seppe D’Alema, all’epoca segretario regionale;[19] del resto Faina aveva già maturato un’ostilità vi­scerale nei confronti dello stalinismo e dell’autoritarismo presenti nel partito ed era su posizioni operaiste, essendo entrato in contatto con Romano Alquati e la nascente redazione di «Quaderni Rossi», il cui primo numero è presentato a Genova dal fondatore Raniero Panzieri il 19 gennaio 1962 presso la Società di Cultura.[20] Il gruppo dei «Quaderni Rossi» ha il merito di riscopri­re testi di Marx largamente trascurati dalla tradizione marxista – la quarta sezione del I Libro del Ca­pitale, il Fram­mento sulle macchine dei Grundrisse, il Capitolo VI inedito[21] – e di applicare all’ana­lisi delle tra­sformazioni di fabbrica i concetti marxiani di sussunzione formale e sussunzione reale del lavoro al capitale, di lavoro astratto, divisione del lavoro e scissione delle potenze mentali della produzione. I temi fondanti dell’operaismo italiano, quello della maturità dello sviluppo capi­talistico in Italia – contrapposto all’idea amendoliana (e togliattiana) di un capitalismo arretrato e straccio­ne da porre sotto tutela da parte delle istituzioni del movimento operaio, con il conseguente rinvio di ogni pro­spettiva di conflitto a maturazione avvenuta –, e quello della soggettività operaia, dell’autonomia operaia come variabile indipendente dallo sviluppo capitalistico, vengono fatti pro­pri e verificati nel difficile contesto genovese; è un banco di prova decisivo. Con i compagni che si sono raccolti attor­no a lui tra Sampierdarena e Cornigliano, tra questi Gianfranco Dellacasa, Ermi­nio Raiteri e Giorgio Pedrocco, Faina dà vita a un intenso intervento militante nelle fabbriche e in particolare all’Italsider. Il 7 luglio ’62 a Torino in una manifestazione per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici che si trasforma in una violenta rivolta di piazza quando viene annunciato l’accordo separato della UIL e della SIDA con la Direzione Fiat,[22] la figura dell’operaio-massa emerge in modo più netto e preciso che durante la rivolta di Genova del ’6