A partire dal libro di Lorenzo Petrachi Rovine dell’amicizia. Il progetto incompiuto di Michel Foucault pubblicato per Orthotes (2022, pp. 332), Marco Reggio intervista l’autore sulle configurazioni in continua trasformazione di affettività e relazioni amorose, sempre legandole al loro senso politico. L’intervista è divisa in due parti, di cui sotto presentiamo la seconda (potete accedere alla prima qui)

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M.R.: Gli spunti foucaultiani sull’omosessualità, ma anche sull’amicizia, sembrano sempre molto legate al maschile, declinate al maschile. Lo “stile di vita gay” di cui parla Foucault è in definitiva una proposta per uomini, forse. In parte, questo emerge anche nel tuo testo, quando affronti l’importanza dell’opera di John Boswell, e anche quella di Alan Bray. Poi però metti in gioco Lillian Faderman, con la riflessione sulla storia delle amicizie fra donne cui lo stesso Foucault guardava con grande interesse. Questo mi pare molto significativo, anche perché, come fa notare quest’ultimo, si tratta di relazioni che emergono nel margine, anzi proprio in risposta alla marginalizzazione, all’invisibilizzazione femminile.

L.P.: È curioso constatare come lə teoricə maggiorə dell’affective turn e della storia delle emozioni (da Kosofsky Sedgwick a Massumi, da Reddy a Rosenwein) si pongono in contrasto esplicito con l’opera di Foucault, letto come un filosofo iper-culturalista, completamente assorto nello studio delle rappresentazioni, delle istituzioni, delle scienze, e in grado di farsi passare sotto il naso senza rendersene conto affetti e relazioni – un ambito, dicono, che può essere esaminato solo superando la lezione foucaultiana. Dico che è un fatto curioso perché i riferimenti principali di Foucault per quanto riguarda il problema dell’amicizia sono proprio tra quelli considerati fondamentali per il passaggio dagli atti agli affetti nella storiografia dell’omosessualità. Tra questi, Surpassing the Love of Men di Lillian Faderman è senz’ombra di dubbio tra i principali, al punto che si potrebbe arrivare a dire che la proposta foucaultiana di una storia delle amicizie maschili incentrata sulla loro scomparsa non sia che la presa in carico di un problema fadermaniano, o che quantomeno si trova formulato compiutamente soprattutto nel libro di Faderman, che Foucault commenta a più riprese negli anni Ottanta.

In questo studio voluminoso, la storica statunitense si occupa delle “amicizie romantiche” e dell’amore tra donne dal Rinascimento al presente, discutendo relazioni affettive impossibili da ridurre alla sessualità delle partecipanti e riguardo cui la questione di sapere se queste intrattenessero o meno relazioni sessuali perde di pertinenza. Il presupposto teorico e politico della ricerca di Faderman è costituito dal femminismo lesbico e separatista legato alla figura di Adrienne Rich che, nel suo celebre articolo Compulsory Heterosexuality and Lesbian Existence, sottolinea l’importanza di restituire visibilità storica e sociale a configurazioni dell’affettività fra donne non sovrapponibili al modello contemporaneo dell’omosessualità maschile. A tale scopo, Rich parlava di un continuum lesbico in grado di tenere insieme relazioni estremamente sessualizzate e “semplici” amicizie tra donne. Questa visione dà forma all’approccio di Faderman, a tal punto da attirarle la stessa accusa rivolta a Rich, vale a dire di desessualizzare il lesbismo.

Ora, sono proprio questa desessualizzazione e questo tentativo di debordare dal modello dell’omosessualità maschile a interessare a Foucault, che in quegli anni era più che mai attento alle avvisaglie di un più o meno diffuso brontolio anti-sexo che sembrava risalire la china del “sempre più sesso”, “sempre più verità sul sesso”, per consacrarsi piuttosto all’invenzione di nuovi piaceri, affetti e relazioni al di là della normatività della coppia eterosessuale (fosse pure trasposta tra due uomini), e che soprattutto sembrava assai coerente col suo sforzo di votarsi politicamente, teoricamente e genealogicamente al compito di scrollarci di dosso la grande sexographie che fa decifrare ovunque il sesso come il grande universale segreto. È per questo motivo, d’altra parte, che si rivolge al lavoro controverso di John Boswell, che ritiene in grado di smarcarsi dal modo in cui la contemporaneità considera l’omosessualità per dedicarsi a una storia che concepisce il comportamento sessuale al di là dei due poli dell’istinto naturale e delle leggi repressive; una storia che tiene in conto tutta una serie di positività analizzabili, come l’immagine che gli attori hanno di sé, del loro contesto e del loro comportamento, il modo in cui vivono e organizzano l’esperienza affettiva, il valore che le attribuiscono…

Guardando tanto al passato quanto al presente, insomma, Faderman permette a Foucault di pensare all’esistenza di un ventaglio molto più ampio di relazioni tra persone dello stesso sesso al riparo dai pericoli – tanto storiografici quanto etico-politici – del discorso della liberazione sessuale. Si potrebbe dire, scherzando, che Foucault gioca Rich contro Reich. Se può sembrare un accostamento bizzarro – ed è in effetti molto distante dall’idea comune sui rapporti del filosofo coi femminismi a lui contemporanei – , si potrebbe andare oltre, facendo notare che se Foucault valorizza e difende l’invenzione di piaceri che il ritorno alla monosessualità maschile rende possibile nelle comunità leather statunitensi, non lo fa mettendo tra parentesi i rapporti di dominio tra uomini e donne, ma proprio a partire dalla consapevolezza del modo in cui questo dominio circoscrive le possibilità e le forme di incontro dei corpi tra loro. Questa consapevolezza è quanto Foucault mette in evidenza commentando il lavoro di Faderman, che riconosce nell’omosocialità femminile delle società moderne un fenomeno complesso e ambivalente: se da un lato è possibile osservare la produzione di un certo spazio di gioco lasciato all’intimità tra donne, dall’altro bisogna mostrare come ad aprirlo e strutturarlo parzialmente fossero proprio le modalità del dominio maschile. In poche parole, mi sembra che interrogando il pensiero di Foucault a partire dal problema dell’amicizia lo si ritrovi inaspettatamente più vicino alle forme di analisi del femminismo separatista, almeno concettualmente, che a quelle della liberazione omosessuale, ed è una posizione (piuttosto scomoda, lo riconosco) che argomento nel libro.

Un ultimo appunto: di tanto in tanto ci si imbatte sui social in alcuni meme che ironizzano sul lavoro degli storici, che tenderebbero a vedere semplici amicizie laddove uno sguardo impudico, spregiudicato e “liberato” non vedrebbe che gli indizi manifesti dell’omosessualità – da Achille e Patroclo a Emily Dickinson e Sue Gilbert. La genealogia dell’amicizia fa sorgere il sospetto che il ghigno di chi è così scaltro da rintracciare l’omosessualità dietro ai segni esteriori di un rapporto amicale lasci forse trasparire meno la superiorità di chi sa il fatto suo che il successo di un processo storico che ha reso indubitabili il significato e i limiti dell’amicizia, consegnandoci all’impossibilità di rintracciare, dietro ai nostri rapporti, la loro contingenza.

 

M.R.: Sappiamo che quando parliamo di “dispositivo” non stiamo eludendo il piano materiale. Qui mi sembra centrale il fatto che uno dei poli di riferimento fondamentali per leggere l’amicizia, l’eterosessualità, sia inteso in senso strettamente materialista, con riferimento al “modo di produzione eterosessuale” di Federico Zappino. E in effetti, ci si aspettano una serie di riferimenti che puntualmente intervengono, come quelli al femminismo materialista francese (Wittig, Guillaumin, ma anche Delphy). Se l’eterosessualità è, in ultima analisi, un dispositivo di produzione di soggetti, in che modo l’amicizia interviene in questa produzione?

L.P.: Come ho detto, l’esperienza amicale è il prodotto di una serie di problematizzazioni che la incrociano solo tangenzialmente e da cui discendono i diversi criteri e razionalità che presiedono alla formazione e alla valutazione di soggettività e relazioni. In questo contesto, mi è sembrato particolarmente importante ciò che, con un’espressione di Lea Melandri ripresa poi da Zappino, ho chiamato il “sogno d’amore”. L’amicizia si struttura infatti insieme al sogno d’amore attraverso l’eterosessualità, intesa non come un orientamento sessuale tra gli altri, bensì come un sistema sociale. È evidente che l’esperienza romantica non è l’unico modo in cui l’eterosessualità dà forma all’amicizia, tuttavia, se la si studia in rapporto alle sue “esternalità”, come ho detto prima, e al suo radicarsi nel sistema sociale eterosessuale, diventa un punto di vista privilegiato per comprendere la residualità al contempo storica e strutturale dell’esperienza amicale.

Il femminismo materialista – termine col quale si fa riferimento all’attività e alle diverse analisi della tendenza féministes révolutionnaires del Mouvement de libération des femmes – costituisce oggi una lente limpidissima e assolutamente indispensabile per approcciarsi al sociale tout court. Più nello specifico, Rovine dell’amicizia scommette sulla possibilità di far funzionare le proposte di Monique Wittig e Colette Guillaumin assieme agli strumenti foucaultiani. È un’operazione che non va per nulla dà sé, basti pensare alla replica virulenta (e giusta) di Monique Plaza contro il filosofo francese. Tuttavia, mi è sembrato più interessante provare a insistere sui loro punti di contatto per esplorare l’eventualità della loro articolazione e, in vista di questo e degli altri fini che mi ero proposto, la rielaborazione di questa tradizione da parte di Zappino mi è sembrata comportare vantaggi importanti.

In primo luogo, il suo concetto di “modo di produzione eterosessuale” consente di osservare le modalità tramite cui opera la specifica forma di razionalità che anima la trasformazione dei corpi sessuati nei due generi binari e complementari e che, di conseguenza, anima la produzione di tutti soggetti e di tutte le relazioni sociali, stabilendo cosa, come e per quali scopi debba prodursi. I termini adoperati da Zappino fugano una visione dei rapporti di potere economicista ed esclusivamente negativa che trova le sue figure paradigmatiche nel prelievo e nella mistificazione, aggirando così alcune tra le prime difficoltà apparenti in cui ci si imbatte nel far lavorare assieme Foucault e il femminismo materialista. In secondo luogo, l’articolazione tra modo di produzione eterosessuale e modo di produzione capitalistico, specie nell’analisi del neoliberismo, è tra i motivi per cui le categorie di Zappino mi aiutano a pensare l’amicizia contemporanea come risultato di più problematizzazioni e modi di produzione senza procedere per sola addizione degli assi di oppressione e senza venir meno a un’esigenza materialista. L’eterosessualità è infatti tutt’altro che immateriale: per le minoranze di genere e sessuali, ha a che vedere con la violazione, l’obbligo e la minaccia fisici e sessuali, così come con il lavoro domestico, il divario retributivo, la disoccupazione, la segregazione occupazionale e le difficoltà ad accedere a beni e servizi. Infine, ho ripreso e sviluppato il suo concetto di “ingiustizia sentimentale” in direzione di quelle che potremmo chiamare, con Acquistapace, le “relazioni senza nome”.

Mi spiego meglio. L’amore, che lo si voglia o no (io, ad esempio, non lo voglio), è qualcosa che esiste. E non genericamente, bensì in modalità determinate – dal funzionamento attuale dell’eterosessualità come modo di produzione. Se questa, infatti, circoscrive preventivamente la possibilità e la forma delle mie relazioni, a partire dal genere e dal numero delle persone con cui vivrò queste relazioni; se, in altre parole, questa è il metro di giudizio da cui dipendono la costruzione, la conduzione, l’esclusione, la risibilità, l’importanza e la realtà non solo di tutte le soggettività, ma anche di tutte le relazioni, al punto che, a ben vedere, è tra i motivi per cui non accordiamo a ogni nostra relazione l’impegno individuale e l’importanza personale e sociale che accorderemo invece a una “relazione”, nonché la ragione per cui anche quest’ultima non potrà apparire degna di riconoscimento e supporto se non risulterà conforme all’ideale e ai criteri del sogno d’amore, allora risulta particolarmente problematico pensare che l’amore e l’amicizia non abbiano nulla a che vedere con la giustizia e l’ingiustizia, e tutto con i gusti e le scelte individuali. L’assenza di coincidenza tra le proprie infatuazioni e la volontà altrui può essere considerata dunque sistematica per tutta l’enorme congerie di storie, desideri e rapporti non conformi ai criteri del sogno d’amore ed è quindi fuor di metafora che si può parlare di ingiustizia sentimentale.[1]

Alla luce di queste considerazioni, non è poi difficile comprendere quali forme e quali possibilità d’amicizia debbano darsi nel sistema sociale eterosessuale. Le aspettative intorno a un nuovo incontro possono funzionare come una cartina di tornasole in grado di mostrare, almeno in parte, la configurazione di tale esperienza: ogni nuova conoscenza si compie in termini sessuati e ciò significa che il campo d’eventualità relazionali e comportamentali che viene ad aprirsi – fosse anche in astratto, senza alcuna progettualità concreta – varia notevolmente sulla base del genere delle persone implicate. Il campo di eventualità di cui parlo, infatti, non è qualcosa da intendersi esclusivamente nell’ordine delle fantasie individuali, ma è materialmente presente e constatabile in ognuno di questi incontri, dacché non lo si può distinguere – se non nella riflessione – dall’eterosessualità in quanto matrice di ogni soggettività e relazione. Le modalità estetiche, discorsive e corporee del mio presentarmi ed espormi di fronte a un’altra persona; la paura, le speranze, l’entusiasmo o l’interesse suscitati dalle reazioni di questi; il grado e la visibilità dell’intimità che posso ragionevolmente voler promuovere e ricercare; la desiderabilità stessa dell’incontro, tutto ciò ha a che vedere direttamente con l’eterosessualità come sistema sociale. A meno che non si voglia ammettere che il cameratismo e la sessualizzazione, per non fare che due esempi, si distribuiscano alla cieca, riguardando tutti i rapporti allo stesso modo.

 

M.R.: Tornerei un attimo alla questione della proliferazione di modalità relazionali, di etichette loro assegnate che individuano identità relazionali, oltre che sessuali. Ma, appunto, dobbiamo fare i conti con le idee di Foucault sulla decentralizzazione del sesso, che emergono continuamente – era inevitabile – nel tuo libro. Mi sembra che si possa dire che lo stesso allungamento continuo dell’acronimo LGBT, su cui spesso si ironizza, più o meno affettuosamente (con l’aggiunta di lettere e poi di +, e non a caso Judith Butler diceva che le liste degli assi intersezionali, le liste dell’inclusione, terminano sempre con un “eccetera” che nasconde una forma di imbarazzo politico), mi sembra che questo allungamento incessante ci ricordi che la nostra società incoraggia il moltiplicarsi di discorsi, di identità e di pratiche soprattutto sessuali. Però a partire da etichette che vengono inizialmente intese su questo piano – sessuale – ne fioriscono di più ampie, paradossalmente proprio nella direzione auspicata da Foucault, forse. Mi interessa molto il paradosso delle identità “asessuali”, “aromantiche” e simili, che nascono proprio come ennesima etichetta sessuale ma indicano proprio la possibilità che il sesso non interessi, non sia al centro della vita o degli appetiti. Anche se dobbiamo sempre leggere il passato “nei suoi stessi termini” e non in quelli attuali, che relazione c’è fra la funzione svolta da alcune configurazioni storiche dell’amicizia e la funzione svolta oggi dal discorso asessuale? Mi chiedo se esista un rapporto, o se il fatto di immaginarlo possa aprirci delle linee di fuga cui non avevamo pensato.

L.P.: Il discorso e l’attivismo asessuale e aromantico pone delle sfide capitali al modo in cui è organizzato il nostro mondo relazionale, un mondo che pone il sesso e l’amore al cuore dell’autorealizzazione individuale, intendendoli di volta in volta e reciprocamente come l’uno la sublimazione, l’estensione, il coronamento o la prova dell’altro. La posta in gioco di queste rivendicazioni non è semplicemente la presenza o meno del sesso o dell’amore all’interno di una relazione e neanche il loro significato, bensì la messa in discussione e allo scoperto delle condizioni e dei criteri che distribuiscono differenzialmente il lavoro di cura, la responsabilità interpersonale e tutta una serie di beni, privilegi e possibilità che rendono una vita più o meno vivibile. Tutto ciò è estremamente importante e va proprio nella direzione dell’invito foucaultiano a moltiplicare, intensificare e modulare le possibilità relazionali al di fuori di quella cosa “monotona e nera che sarebbe l’amore” e che funzionerebbe come “un vincolo rigoroso” che grava su tutte le forme di relazione affettive e sessuali possibili. Si tratta, come rilevi, proprio di uno dei moventi che anima le mie ricerche sull’amicizia. Tuttavia, se questi discorsi svolgono una funzione positiva in quanto contestano la centralità dell’attività sessuale, è opportuno notare che rappresentano tutt’altro che una fuga dalla sessualità e dalle modalità di assoggettamento e soggettivazione che le sono correlate. Al contrario, spesso questi discorsi perseguono i loro obiettivi moltiplicando ed estendendo, non questionando, i rapporti di identificazione che da più di un millennio legano la nostra soggettività al compito infinito di scoprire e verbalizzare la verità sul desiderio.

La riflessione foucaultiana sull’amore che ho cercato di ricostruire in Rovine dell’amicizia tenta di smontare il regime di verità della dichiarazione amorosa per cui, dopo tutta una serie di introspezioni e decantazioni, si arriva a dire “ti amo, dunque…”, facendo discendere da questa strana deduzione diversi obblighi, tra cui l’impegno a essere ciò che si afferma di essere (innamorati), implicando che il sentimento di cui ci si confessa portatori debba concretizzarsi “naturalmente” in una serie di pratiche codificate e riconosciute. A questo dispositivo, che Eva Illouz chiama “regime di autenticità emotiva”, Foucault contrappone una modalità di produzione e gestione del rapporto che prevede una cooperazione inventiva in assenza (fosse anche solo temporanea) di un copione: non dichiararsi e non chiedersi cos’è o meno conforme al sentimento, ma comunicare, dirsi come vanno le cose, come si sta assieme, cosa si vuole e si può fare della relazione…

Ora, è molto diffuso nella comunità aro-ace una forma di discorso sulle attrazioni (la sua versione più comune è lo Split Attraction Model) che, dall’interno del dispositivo psy della sessualità, tenta di dissociare alcuni degli effetti del discorso romantico: esistono diversi tipi di attrazione (sessuale, sensuale, estetica, romantica, platonica, alterous, ecc… la lista è aperta), e a essere rivoluzionario sarebbe il fatto di riuscire a pensare che non è obbligatorio provare tutti i tipi di attrazione, a maggior ragione verso una stessa persona, e che questi possono presentarsi separatamente. Si richiama quindi l’attenzione sulla necessità di un linguaggio migliore, con delle maglie più strette, in grado di proteggerci dal confondere le attrazioni, dall’equivocare le emozioni quando potrebbe essere inappropriato, al fine di parlare delle relazioni e dei sentimenti per quello che sono, e non per quello che potrebbero sembrare nella nostra cultura che le fonde in un misto normativo e indifferenziato. In altre parole, bisogna guardarsi dal rischio di identificare come romantiche delle infatuazioni che in realtà non lo sono, sapere che l’attrazione nei confronti di Pietro è estetica, mentre quella nei confronti di Paola è sessuale, quindi… agire di conseguenza, non mescolare le carte, condursi appropriatamente. In questo modo mi sembra che l’enorme potenziale politico dell’asessualità e dell’aromanticismo venga fagocitato, risolvendosi in un rovesciamento tattico all’interno del regime di autenticità emotiva che è sì salutare e importantissimo, ma limitato e pericoloso. Inoltre, questa molteplicità naturale delle attrazioni da riconoscere al fondo di sé stessi sembra occultare i motivi per cui è proprio l’attrazione nei confronti di Pietro a essere soltanto estetica, mentre quella per Paola è prima di tutto sessuale. Si potrebbero dire cose molto simili in merito agli “orientamenti relazionali”.

 

M.R.: In occasione dell’approvazione della legge sulle unioni civili, Carlo Giovanardi ha avuto modo di intervenire facendo notare retoricamente che, se il principio è l’amore “allora perché non riconoscere anche l’unione fra un umano e un cane?” Giovanardi è notoriamente un nemico storico tanto delle soggettività non eterosessuali, quanto dei movimenti animalisti e antispecisti, quindi questa doppia svalutazione dei rapporti omo e interspecie non stupisce. Posso anche comprendere facilmente che cosa disturbi nell’idea di una relazione stretta fra un umano e un cane, con la comparsa dello spettro della sessualità interspecie, ma se penso alla nozione di amicizia le cose si complicano. Per definire le relazioni con i “pet” – che in effetti sono spesso relazioni a metà fra il badantato e il consumo di merce – utilizziamo una serie di proiezioni concettuali più o meno problematiche che vanno dai termini proprietaristici al registro genitoriale, per cui cani diventano i nostri “bambini”. Anche se non sono sicuro che l’infantilizzazione dei cani in questo senso sia solo da condannare (dopotutto ci mancano dei termini per definire i ruoli in una relazione che al momento è, purtroppo, di dipendenza), mi chiedo perché non se ne parli in termini di amicizia, cosa che accade molto raramente. Ed è curioso che accada in alcune nicchie di antispecismo radicale oppure in contesti che definiremmo “arretrati” (contadini, extraeuropei, legati all’infanzia, ecc.). Sarebbe bello intraprendere uno studio dell’amicizia interspecie, forse all’interno del discorso che si sta sviluppando oggi, a partire dalle riflessioni di Donna Haraway, sulle “alleanze” o sulle “famiglie” interspecie: making kin, parentele non lineari, non ereditarie, non generazionali. In generale, potremmo proporre di andare oltre alle idee di “famiglie non-monogamiche”, “non-eterosessuali”, “non-qualcosa”, “s-famiglie”, “multispecie”, per parlare invece di “amicizie”?

L.P.: Con la questione del linguaggio tocchi un punto fondamentale. In primo luogo, dice Giovanardi, “se il principio è l’amore”… ma siamo sicure, a questo punto, che il principio sia proprio l’amore? In secondo luogo, distingui en passant “termini proprietaristici” e “registro genitoriale”, parli dell’“infantilizzazione dei cani”… ma è così semplice distinguere le cose? Non dovremmo piuttosto interrogarci sull’“insormontabile illusione, guadagnata storicamente, che deriva da una lenta assuefazione al fatto che la famiglia si è appropriata il bambino”, per cui questi “è stato progressivamente spogliato di quello che gli permetteva di esistere come essere sociale per diventare bene privato”?[2] I primi a essere infantilizzati, non sono forse i bambinə? Soprattutto, quando parliamo di amicizia interspecie, abbiamo riflettuto abbastanza sulla specificità di questa relazione che è l’amicizia o ne stiamo facendo un uso metaforico, facendoci forza dei suoi confini incerti e indefiniti? Chiaramente non si tratta qui di fare la polizia filosofica del linguaggio, ma di fare attenzione a che nulla passi sotto traccia. Da qui emerge, a mio parere, la necessità di uno sguardo genealogico sull’affettività.

Prendiamo ad esempio Haraway. Non parla di amicizie, ma di parentele, cosa che ha senz’altro il vantaggio di non fare riferimento a un’esperienza determinata, come può essere quella dell’amicizia o dell’amore, col rischio di farne un utilizzo metaforico che la sovraestende e la naturalizza nei suoi aspetti più sordidi. Tuttavia, mi chiedo se con questa apertura lessicale enorme (e d’altra parte giustificatissima per Haraway) non si rischi, proprio non nominandole nella loro specificità (perché tutto è parentela), di far rientrare dalla finestra la naturalizzazione che si era cacciata dalla porta d’ingresso, dissolvendo in un tutto indifferenziato e aproblematico pratiche, relazioni e affetti che meriterebbero, per esser fatte vacillare nella loro singolarità storica e contestuale, per essere finalmente “viste”, di diventare l’oggetto di un lavoro critico, vale a dire, secondo la definizione di Foucault, di una prova – nel senso di una “messa alla prova” – storico-pratica dei limiti che possiamo superare. Si tratta, da un lato, di vedere com’è che abbiamo iniziato a fare quello che facciamo, a dire quello che diciamo, a provare quello che proviamo, sulla base di quali esigenze, per quali motivi che potrebbero non essere più i nostri e di vedere, allo stesso tempo, che le cose potevano e possono andare in un altro modo. Dall’altro, di vedere come e se possiamo fare le cose in modo diverso, quali problemi incontriamo nel fare le cose in modo diverso, e a ben vedere è proprio questa volontà di fare le cose in modo diverso che ci porta ad approfondire le cose da un punto di vista storico. Si trova così fondata l’impazienza della genealogia.

 

Note

[1] Qui riporto e sviluppo le riflessioni contenute in F. Zappino, Make love not war: Note per una giustizia sentimentale, in I. Bussoni e N. Martino (cur.), È solo l’inizio: Rifiuto, affetti, creatività nel lungo ’68, Verona 2018, pp. 127-128.

[2] G. Hocquenghem e R. Schérer, Co-Ire: Album sistematico dell’infanzia (1976), tr. it. L. Muraro, Feltrinelli, Milano 1979, p. 34.

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