A partire dal libro di Lorenzo Petrachi Rovine dell’amicizia. Il progetto incompiuto di Michel Foucault pubblicato per Orthotes (2022, pp. 332), Marco Reggio intervista l’autore sulle configurazioni in continua trasformazione di affettività e relazioni amorose, sempre legandole al loro senso politico. L’intervista è divisa in due parti, qui sotto la prima.

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Marco Reggio: Il neoliberismo oggi promuove e tollera molte più forme di relazione, almeno apparentemente. Tuttavia, come indicato da diversi approcci critici, a partire dalle teorie queer, il “progetto di vita” della coppia monogamica sembra restare sostanzialmente il modello principale. Peraltro questa coppia, nonostante le significative aperture ai matrimoni gay in vari paesi del mondo, è una coppia etero, cioè è un modello eterosessuale anche quando viene declinato fra persone dello stesso sesso. Tutto questo a dispetto, direi, del fiorire dei discorsi sul poliamore o sull’anarchia relazionale, della critica femminista al dispositivo dell’amore romantico, e, appunto, della critica queer. Perché, in questo quadro, hai inteso come centrale una questione così trascurata dalle teorie critiche?

Lorenzo Petrachi: Il fatto che le società neoliberali possano dimostrarsi, talvolta e in alcuni contesti privilegiati, capaci di tollerare e includere condizionalmente relazioni private e stili di vita alternativi al modello della coppia monogamica eterosessuale vuol dire che queste società sono in grado di assumere all’occorrenza un’attitudine anti-omofobica, anti-polyfobica e generalmente pluralistica, non già che abbiano fatto a meno dell’eterosessualità e del familismo quali loro presupposti. Spostare un po’ più in là i confini dell’includibile è qualcosa di estremamente importante, ma bisogna riconoscere che di per sé non mette in discussione i meccanismi in virtù dei quali tali configurazioni affettive e relazionali continuano, per quanto riguarda la loro realtà o irrealtà, a dipendere dalla felicità delle circostanze o dall’astuzia individuale di chi riesce a ingegnarsi per renderle materialmente praticabili per sé e i propri cari. Sembra essere più promettente tentare di individuare e denunciare le ragioni storiche e politiche per cui questo o quel modo di vivere le relazioni, gli affetti e il lavoro di cura non sono percorribili e forse neanche pensabili all’interno di un determinato contesto culturale. Ciò che cambia tra le due prospettive è la consapevolezza che soltanto prendendo di petto queste ragioni, e non limitandosi ad allargare il campo delle opzioni disponibili per l’agency individuale, sarà possibile immaginare e costruire un tipo di società politicamente desiderabile.

Ora, mi sembra che la massa notevole di discorsi emersi in questi ultimi anni attorno al problema della monogamia – si può forse parlare di un vero e proprio hype testimoniato da pubblicazioni, collettivi e mobilitazioni sul poliamore, l’anarchia relazionale e le famiglie queer – si incagli proprio a questa altezza, anche nei casi in cui il punto di vista adottato si vuole critico nei confronti degli approcci più mainstream e liberal (fa eccezione il fondamentale volume di Leo Acquistapace). Serpeggia insistente un sospetto: che le relazioni amorose, che siano o meno di coppia, così come vengono criticate, ampliate, convalidate o messe alla berlina da queste analisi peraltro necessarie, sussistano nel vuoto – un vuoto più o meno arredato dai marchi del genere e della razza, più o meno insozzato dalle brutture ideologiche del capitalismo, qualche volta abitato e rassettato da qualche meta-partner responsabile.

In questo quadro, allora, lo studio dell’amicizia permette di compiere un certo numero di operazioni che possono essere descritte come un passaggio all’esterno della coppia, un decentramento rispetto a ciò che accade tra coloro che si dicono “ti amo”. È evidente che possiamo legittimamente partire da ciò che la coppia è in quanto unità strutturata in un certo modo, nella sua densità affettiva, per ricostruirne il funzionamento interno, le norme che la regolano, individuando le connessioni tra gli elementi che la compongono, mostrando il tipo di potere che si organizza al suo interno e come si sviluppa una particolare ideologia (“l’amore romantico”, “il pensiero monogamo”, ecc…). Ma si può anche procedere dall’esterno, aggirare la coppia passandole dietro o accanto, per cercare di far emergere qualcosa di più generale: l’insieme di correlazioni e strategie di cui fa parte, che le dà forma e che di rimando contribuisce a informare, portando così alla luce anche le esternalità del “sogno d’amore”, vale a dire le sue ricadute sulle altre forme di relazione possibili e sulla strutturazione più generale del campo sociale. Studiare, in altre parole, il mondo di cui la “coppia obbligatoria” fa parte e in cui è stata e continua a essere possibile come esperienza di sé e degli altri.

Diventa subito evidente che non è possibile cambiare le regole del gioco soltanto all’interno delle relazioni amorose. Bisognerà piuttosto contrastare i processi che dettano legge su ciò che, ad esempio, si può e si deve fare all’interno della coppia eterosessuale e su ciò che non si può e non si deve fare (o non si deve fare troppo o sul serio) al suo esterno; ci si rivolgerà verso lotte volte a ottenere ciò che ci serve per poter vivere le relazioni come vogliamo: il tempo e lo spazio (quindi una casa) per prenderci cura di noi stesse e dei nostri cari, il reddito per farlo, condizioni di lavoro decenti, una cultura che ammetta, sostenga e permetta di elaborare questi rapporti al di fuori delle cornici normative per cui non costituiscono che trasgressioni, fallimenti, soluzioni temporanee, compromessi, contentini…(è in questa direzione che va il lavoro attuale del Tavolo dei Legami Queer di Stati Genderali). Ad esempio, se per mantenere il mio lavoro e campare devo mettere a valore ogni singolo istante della mia vita, anche al di fuori delle dieci ore quotidiane che impegno tra lavoro e spostamenti, sarà un po’ difficile trovare il tempo, le energie e le risorse per gestire una vita relazionale non monogama… Se decido di non fare affidamento esclusivamente sul mio partner, dovrà pur esserci qualcunə su cui io possa contare o con cui io possa trascorrere il mio tempo, ma se tuttə intorno a me sono rinchiusə nelle loro coppiette…

L’amicizia – non il concetto, ma l’esperienza quotidiana in tutta la sua banalità – ha a che fare con tutto questo. A differenza della sessualità, della salute o del lavoro, questa relazione non occupa un posto di rilievo tra le preoccupazioni e le urgenze del nostro tempo. Nondimeno, è vero che tutta una serie di conflitti specifici relativi ad altrettanto specifiche matrici di oppressione e produzione delle relazioni sociali incontrano trasversalmente sul loro cammino l’amicizia e tentano di cambiarla. Ciò che ho cercato di mostrare in Rovine dell’amicizia è che questo incontro è tutt’altro che fortuito, dal momento che la nostra esperienza ordinaria dell’amicizia è costitutivamente informata e prodotta da queste stesse matrici e risulta funzionale al loro mantenimento e alla loro perpetuazione. Per questo motivo la boutade che dà il titolo al libro, quella per cui bisognerebbe rovinare le proprie amicizie, va intesa come una duplice indicazione per un ethos individuale e una sfida politica collettiva.

 

M.R.: Per circoscrivere questo oggetto problematico che è l’amicizia, prendi le mosse dal lavoro di Michel Foucault e da alcune sue intuizioni non troppo sviluppate – o forse, piuttosto, da un suo proposito – e ne adotti il metodo genealogico. Che cos’è una genealogia dell’amicizia? Dove ci porta?

L.P.: In una famosa intervista dell’’82 Foucault dichiara: «se c’è una cosa che mi interessa, oggi, è il problema dell’amicizia. Dopo aver studiato la storia della sessualità, è necessario cercare di comprendere la storia dell’amicizia». Certo, era proprio a Foucault il gusto delle esagerazioni retoriche e degli sguardi retrospettivi, la sua opera è costellata di vere e proprie messe in scena filosofiche costruite per far scintillare, insieme alle sue pagine, avvenimenti minuti e grigi che prima di vedersi scovati dalla sua penna avevano a malapena un nome per riconoscersi. Eppure quella sua affermazione trova facilmente riscontro: a partire dalla metà degli anni Settanta fino alla sua morte, Foucault si esprime spesso e con enfasi sull’amicizia e sulla sua storia, al punto tale che non può che stupire l’assenza di studi dedicati alla questione. In particolare, si trovano ipotesi riguardanti la costituzione dell’esperienza dell’amicizia in relazione a una cesura radicale che si sarebbe compiuta tra il XVI e il XVII secolo, determinando l’inabissarsi di un certo tipo di amicizia e permettendo l’affermarsi di un’altra, completamente diversa, che, col dileguarsi del primo “modello”, avrebbe portato alla problematizzazione dell’omosessualità propria del XVIII secolo.

Nel mio lavoro ho cercato di verificare, ampliare e specificare queste ipotesi, scommettendo sul valore non già di una filosofia dell’amicizia, ma di una storia del presente, di una sua genealogia. Il proposito non è stato quello di ricostruire una storia dei comportamenti amicali, dei loro modelli, della loro conformità o divergenza in riferimento a un certo canone; non è stato neppure di fare una storia delle idee sull’amicizia – religiose, morali, filosofiche – o delle mentalità che l’hanno riguardata; il proposito è stato quello di soffermarmi sulla nozione quotidiana di amicizia e sulle pratiche a essa connesse, di analizzare il contesto teorico-pratico in cui è apparsa per poterne prenderne meglio le distanze. D’altra parte, lo sappiamo, quando Foucault dichiara di voler fare la storia di qualcosa, non è per tesserne le lodi o per costruire degli altari… Al contrario, con ogni probabilità ci dirà che abbiamo tra le mani un oggetto problematico, un oggetto così ben collocato nel tessuto delle nostre esistenze da esser divenuto un elemento scontato del nostro ambiente naturale, e che tuttavia costituisce un limite pericoloso per ciò che vogliamo o potremmo voler fare, un limite da cui potremmo avere il diritto e la volontà d’essere affrancatə in vista di qualcos’altro. Nel peggiore dei casi, ci verrà detto che ciò che risulta problematico non è tanto questo o quell’aspetto, ma l’esperienza in sé, nella sua specificità e nella sua struttura. È il caso, ad esempio, della sessualità. Ma possiamo dire lo stesso dell’amicizia?

Chiunque sa cos’è un’amicizia e come riconoscerla, quali rapporti debba intrattenere con l’affetto, il lavoro, la coppia obbligatoria o la famiglia, oltre quali soglie non possa spingersi e pretendere ragionevolmente. Ci si può allora chiedere: attraverso quali avvenimenti imprevisti, a opera di quali torsioni del pensiero, dei comportamenti o anche del sentimento, con l’agevolazione di quali strumenti e architetture, soprattutto contro chi abbiamo potuto acquisire quest’evidenza, questo gusto, questa consapevolezza così ben ripartita e indubitata? Com’è accaduto, in altre parole, che all’amicizia spettasse non solo un posto del genere nella considerazione pubblica e privata, nella legislazione e nelle produzioni culturali, ma più fondamentalmente una forma specifica d’esperienza con le sue norme e i suoi vissuti?

Al termine provvisorio di questo scavo genealogico, la tesi che intendo proporre è che la nostra esperienza dell’amicizia abbia un’origine piuttosto recente e che, lungi dal configurarsi come una sospensione dei rapporti di forza, sia da considerarsi come parte del campo del governo delle condotte, vale a dire come un dispositivo. Ma cosa significa, concretamente, affermare che l’amicizia non è una pratica così attempata? La palette esplosa dei nostri affetti, i linguaggi e i gesti del quotidiano, il modo con cui posiamo lo sguardo su uno sconosciuto in libreria, le aspettative che riponiamo nel sabato sera, le parole delle nostre negoziazioni domestiche, i confini del privato, il significato dei nostri moti d’animo e la loro rinnovata politica, la gelosia, l’invidia, il possesso, l’ovvietà sospetta delle pacche sulle spalle, le nostre pretese, le nostre reticenze nel domandare, la partage dei cibi e dei letti, la malizia nelle dicerie, la distribuzione iniqua del lavoro emotivo, le modalità d’apprendimento e quelle d’abitazione, la desiderabilità della lotta, il suo prezzo e la sua vivibilità; tutto ciò sarebbe esposto a ritrattazione, a possibili e forse indifferibili metamorfosi. Prima ancora di una sovversione concertata, è il pensiero stesso a sortire degli effetti, a stritolarci. Vorremmo allora conoscere meglio l’amicizia così come la conosciamo, e questo per meglio disconoscerla.

 

M.R.: In che modo il tentativo di inquadrare l’amicizia come oggetto del discorso e come dispositivo si intreccia con il dibattito sulla “nascita” dell’idea di omosessualità? Nel tuo libro questo legame è forte, e probabilmente così lo immaginava lo stesso Foucault. A me pare che l’effetto straniante dell’uso di un certo metodo di studio, che già è presente nel dibattito di cui dai conto rispetto all’omosessualità, al modo in cui sarebbe emersa, sarebbe stata repressa, tollerata o incoraggiata, al modo in cui sarebbe stata intesa come atto o come identità, mi pare che questo effetto straniante sia addirittura molto più evidente per l’amicizia, oggetto che tendiamo a dare per scontato ma di cui non sappiamo davvero dire nulla, se non per sottrazione – l’amicizia che si dice solo per differenza dagli altri rapporti ben codificati, o che si limita a raccoglierne gli scarti, a colmarne qualche lacuna o qualche elemento di insoddisfazione. Si tratta solo del fatto che è un oggetto meno studiato, almeno in questo senso, o c’è dell’altro?

L.P.: In effetti, secondo Foucault la scomparsa dell’amicizia in quanto rapporto sociale e il fatto che l’omosessualità sia stata dichiarata problema sociale, politico e medico nel XVIII secolo fanno parte dello stesso processo. Se Foucault parla di una “scomparsa” dell’amicizia, è perché non fa riferimento alla più comune delle relazioni cui oggi attribuiamo un qualche significato. È infatti diffusa, all’inizio dell’età moderna, la rappresentazione di amici che hanno poco a che fare con i nostri, amici che condividono un letto, una casa, un tavolo e un portafoglio. L’amicizia non era ancora vissuta come un’amenità privata in grado di integrare, a margine, dei bisogni primari, ma come qualcosa di fondamentale di per sé. Evidentemente, abitava un mondo radicalmente diverso dal nostro: almeno nel periodo compreso fra l’inizio dell’XI e la metà del XVII secolo, all’amicizia maschile era riconosciuto un valore particolarmente elevato e un importante ruolo di produttività sociale. L’intimità fisica ed emotiva, la reciprocità, la comunione degli affetti, lo scambio spirituale e quello intellettuale erano appannaggio del rapporto omosociale maschile e non della relazione coniugale. Questo rapporto poteva concretarsi nella “fratellanza giurata”, un legame pubblico, formale e oggettivo, con i suoi riti e un complesso ideale volto a produrre effetti tangibili sul piano materiale. In questo frangente, il linguaggio della parentela e quello dell’amicizia sfumano l’uno nell’altro, generando un dilemma e una confusione che sono tali solo ai nostri occhi e che tuttavia non smettono di interpellarci. A dire il vero era il linguaggio stesso dell’amicizia a rassomigliare a quello dell’amore, come testimoniano scambi di lettere e dediche su oggetti personali o condivisi.

Ora, se l’omosessualità, come afferma notoriamente Foucault, è “un’invenzione recente” non è tanto perché prima del XIX secolo non esistessero atti sessuali o categorie erotiche, ma perché non esisteva un’unica esperienza o un’unica categoria che comprendesse esattamente la stessa gamma di comportamenti, desideri e forme di socialità e che, soprattutto, lo facesse attraverso una modalità di rapporto con sé stessi analoga a quella correlata ai saperi psy sulla sessualità. David M. Halperin, ad esempio, ha mostrato come la nozione contemporanea di omosessualità sia il risultato di un processo di accrescimento, risignificazione e sovrapposizione conflittuale di elementi, teorie e tradizioni differenti dell’omosocialità maschile, di modo che risulti impossibile o perlomeno anacronistico scrivere una storia dell’omosessualità maschile unitaria. È chiaro che la scomparsa dell’amicizia di cui parla Foucault appartiene ai molteplici rivoli delle storie che hanno contribuito a forgiare in questa maniera la realtà dei nostri affetti. Se gli amici sposati (wedded) davanti all’altare di una chiesa inglese del XV secolo facessero o meno l’amore finisce col diventare una domanda meno interessante rispetto a quella relativa ai codici e alle preoccupazioni che circondavano e sollecitavano i loro baci.

Vediamo delinearsi davanti ai nostri occhi un’esperienza diversa, ma con lo stesso nome: l’amicizia, prima dei secoli XVI e XVII, si afferma come valore riconosciuto, prende forma nel contesto di pratiche regolate, apre un campo esperienziale ed espressivo specifico e studiabile, è oggetto di un’elaborazione consapevole e talvolta esplicitamente tormentata, tanto sul piano individuale quanto sul versante pubblico. Sono elementi sufficienti per parlare di una problematizzazione dell’amicizia. Il nostro tempo, i nostri rapporti e i nostri affetti sono la conseguenza, sempre instabile, di alcuni cambiamenti radicali in questa problematizzazione. O, per essere più precisi, di una serie di modifiche che non riguardano solamente suoi aspetti marginali e che – è questo il punto – non riguardano neanche la struttura e gli esiti della problematizzazione. Si tratta, al contrario, dell’intero inabissarsi di un oggetto di pensiero, del suo smembramento e della sua dispersione a opera di un insieme di pratiche, tematizzazioni e impegni – la specificazione dell’omosessualità, la problematizzazione ecclesiastica dell’amor conjugalis, la ristrutturazione dell’intimità legata all’affermazione del potere statale, ecc… – che, rivolti ad altro, hanno sortito come effetto secondario la scomparsa di un’esperienza.

Render conto di questo processo incredibilmente affollato e che conta fra i suoi protagonisti mollies, riformatori, decreti e architetture, fa luce sul modo in cui una nuova configurazione dei rapporti di potere, delle conoscenze e dei dispositivi istituzionali ha finito per determinare l’emergere in sordina di un’affettività diversa, forse più mite, ma che, in ogni modo, non rileva da ciò che potremmo chiamare una problematizzazione diretta. Nel momento in cui diventa pertinente, per alcuni comportamenti e nozioni, il gioco del vero e del falso, le forme e la possibilità di relazione amicale subiscono un silenzioso processo di rivoluzione, ripensano il lessico e la materia della loro costituzione interna e cedono, non senza resistenze, a una confisca d’intimità e statuto da parte di nuovi rapporti e problematizzazioni.

Per questo motivo descrivo l’amicizia contemporanea come un dispositivo residuale: lungi dal sorgere da una problematizzazione diretta e correlata a una produzione di conoscenza (come nel caso della follia o della sessualità), sarebbe il risultato di una problematizzazione residuale, di riflesso. Ciò che dà forma alla normazione e al discorso dell’amicizia è il gioco di altre problematizzazioni contigue, di eventi appartenenti ad altre storie, di modi di produzione della soggettività e del rapporto che se da un lato rivendicano il monopolio su determinate modalità del comportamento e del sentimento, sottraendole all’amicizia, dall’altro formano individui e gruppi capaci di amicizia (e che tramite quest’amicizia riproducono gli effetti e le condizioni dei suddetti modi di produzione). L’amicizia appare nell’immediato come qualcosa di privato e confortevole, indipendente dalle relazioni di potere, si definisce anzi tramite una sospensione di tutta una serie di relazioni (gerarchiche, sessuali, di dipendenza) che non possono incrociarla, pena il suo snaturamento. Ma che l’amicizia esista, che abbia una natura – e che possa pertanto venire snaturata – è qualcosa di cui bisogna rendere conto.

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