Ormai da tempo, negli Stati Uniti così come in molti paesi europei, la musica e i musicisti trap e drill, oltre che quelli di generi posti al confine (come per esempio il neomelodico nel caso italiano) sono periodicamente oggetto di inchieste giudiziarie e campagne mediatiche allarmistiche. Il testo di Pietro Saitta, Violenta speranza. Trap e riproduzione del “panico morale” in Italia (Ombre Corte, 2023), analizza questo fenomeno di criminalizzazione di una cultura giovanile alla luce del concetto di “panico morale”, reso celebre da Stanley Cohen in un volume – Folk Devils and Moral Panics – di cui è appena trascorso il cinquantennale della prima apparizione. Alla maniera di Cohen – le cui categorie vengono rivisitate alla luce dei cambiamenti intercorsi – nel suo libro Saitta coniuga criminologia critica e studi culturali, analizzando così le basi ideologiche e strutturali di quella che appare come l’ennesima forma di conflittualità intergenerazionale tesa a controllare i “giovani” e a garantire una riproduzione adeguata ai rapporti sociali propri della nostra epoca.

Estratto da: Pietro Saitta, Violenta speranza. Trap e riproduzione del “panico morale” in Italia, Ombre Corte, 2023, pp. 49-53. Ringraziamo autore ed editore.

* * * * *

 

Osservando dunque il complesso di chi pratica la trap oppure la terra di mezzo che unisce stili tra loro compatibili con questo genere, si nota che la tensione classicamente immaginata come posta alla base della pratica artistica sia oggi più facilmente soppiantata dalle compulsioni del modello celebrity che si ritrova invece al centro dello spettacolo contemporaneo: quel processo che consiste nella possibilità di raggiungere tipi di fama slegati da una specializzazione professionale, ovvero da un merito artistico. Non è dunque un caso che certi “trapper” abbiano solo uno o due tracce alle spalle, che queste servano loro a potere esibire un titolo che serva a evocarli e giustificarne la presenza nel discorso pubblico (per l’appunto quello di “trapper”) e che tutto ciò che seguirà da lì in poi sarà la risultanza di un insieme di condotte improntante per lo più all’eccesso e alla visibilità sui social media (una forma di “micro-celebrità”). Si tratta, in altri termini, di quel che renderà possibile l’identificabilità di questi artisti-personaggi tanto per il pubblico che segue il para-musicale – ossia l’insieme delle produzioni che non sono di carattere musicale, ma riguardano un “musicista” e che rappresentano lo “spettacolo” – quanto per la cronaca giudiziaria e quella di costume che individua allarmi sociali riguardanti i giovani […]

Riconnettendo così tutti gli elementi, vediamo come prospettive depresse connesse al futuro e al lavoro, la diffusione di nuove possibilità tecnologiche legate alla comunicazione e, soprattutto, a una comunicazione autoproducibile, che, come tale, può anche essere dilettantesca senza che ciò infici la possibilità di una sua diffusione e produzione di valore, sono elementi che partecipano a una riconfigurazione del lavoro e dei suoi significati. In particolare ciò che si vede diffondersi è la centralità di un hope labor, ossia di un lavoro a cui si consegnano speranze e illusioni, destinato a restare poco remunerativo, ma comunque degno di investimenti e dedizione maggiori rispetto ad altri “normali” e non meno incerti (Marwick e Boyd 2011; Kuehn e Corrigan 2013; Stuart 2020). Fare il musicista così come l’influencer oppure il creatore di contenuti diventano opzioni praticabili in ragione sia del ridotto capitale di cui questa impresa necessita (bastano spesso uno smartphone, un computer decente e dei software di cui sia stato violato il sistema di protezione) sia perché sono investimenti di tempo, sforzo e, per l’appunto, lavoro dotati di senso. Un senso che è iscritto tanto nella pulsione espressiva quanto in quella commerciale, le quali sono peraltro proprie tanto dell’ambiente digitale in cui si svolge il processo quanto degli algoritmi che presiedono al suo funzionamento; e, infine, che appare prodotto da quel dispositivo intrinsecamente disciplinare, ovvero motivazionale e competitivo, che è rappresentato dal contatore delle visualizzazioni. Le visualizzazioni, infatti, sono la posta simbolica in gioco; ovvero il meccanismo che, insieme al miraggio dei soldi e di altri benefici  come la fama o il sesso, sta dietro la compulsione ad accrescere la visibilità di sé.

Inoltre il contatore delle visualizzazioni fa bella mostra di sé prima e durante l’esecuzione di un video o una canzone. È in chiaro tanto per chi produce quanto per chi consuma e ha un impatto implicito ai fini di un giudizio sui prodotti e la reputazione di chi li mette in circolo. Infatti, così com’è banale a osservarsi, un’importante differenza tra prodotti è data dalla viralità, ossia da quel principio di quantità che soppianta la qualità come primo criterio posto alla base dell’impegno che gli spettatori potenziali riservano alla fruizione dei contenuti. Ciò, peraltro, che nella cornice di un’ideologia sociale pervasa dai valori dell’imprenditorialità è anche un merito, in quanto indica che si è stati in grado di promuovere e vendere il proprio marchio personale (Chicchi e Simone 2017). Le visualizzazioni, peraltro, sono l’immagine riflessa delle speranze e del comportamento del creatore professionale o semi-professionale di contenuti, che aspira a conseguire un numero sufficientemente alto e crescente di fruitori delle proprie produzioni. Dal punto di vista dell’ideologia implicita nelle pratiche di consumo digitali, ossia delle impressioni e degli automatismi che si manifestano nel consumo di contenuti, un prodotto di qualità – qualunque cosa questo termine indichi – accompagnato da poche visualizzazioni, potrebbe apparire allo spettatore casuale non tanto un best kept secret (che è ciò stava alla base della nozione di “culto” nell’arte alternativa, che spesso mirava ideologicamente a restare un arte per pochi) quanto un contenuto che “non ce l’ha fatta”, ossia  poco interessante per un pubblico altrimenti infinito. La natura disciplinare della piattaforma – ovvero il suo essere un assetto che struttura la logica di chi l’adoperi con finalità non ricreative – sta dunque nella dipendenza che produce. Come in un videogioco, per il creatore di contenuti a contare è il punteggio finale, ossia la “viralità” dei propri prodotti e del proprio marchio. Si tratta di ciò che conta tanto ai fini economici così come delle motivazioni, del narcisismo e della gamma di altre ragioni che sottostanno alla pratica del produrre e caricare contenuti.

I dissing, i comportamenti eccessivi e violenti, l’esibizione di reati reali o simulati e il graduale soppiantamento che il modello celebrity produce sull’arte appaiono dunque un effetto delle regole poste alla base dell’economia dell’attenzione – intesa come vera e propria economia morale – iscritta nel funzionamento delle piattaforme dominanti. Il tutto appare saldato nelle summenzionate trasformazioni ideologiche proprie dei processi di produzione e fruizione artistica di matrice sottoculturale, i quali non ruotano più attorno al principio di custodia di un “segreto” o di un “culto” (relativo a un gruppo musicale, un narratore, un regista etc.) e alla sua condivisione con pochi membri di una tribù culturale, quanto all’obiettivo di conseguire una popolarità adeguata. Sul fronte della produzione questo significa che dei residui ottocenteschi e gauteriani dell’ art pour l’art, che si sono riflessi a lungo nelle avanguardie novecentesche così come in certo pop e nell’immaginario “romantico” del rock indipendente, non resta molto. Ciò proprio perché l’arte è meno che mai solo l’arte, ma è un lavoro e una forma di impresa individuale che deve generare valore, oltre che soddisfare bisogni narcisistici o espressivi. Si tratta dunque di motivi connaturati a una pratica artigianale che solo romanticamente è stata intesa come pratica prevalentemente “spirituale” per lo più slegata da istanze materialistiche (Baxandall 1978). Motivi connaturati, dunque, che oggi sono sottoposti a nuove possibilità tecniche di produzione, diffusione e comprensione; e che appaiono anche inseriti dentro un regime autoimprenditoriale che ha un impatto molto forte sull’ideologia complessiva di chi produce arte, oltre che sulla divisione del lavoro proprio di questo particolare mercato e delle capacità richieste per avere successo (Dal Lago e Giordano 2014; 2018).

* * * * *

Pietro Saitta è professore associato di Sociologia generale presso l’Università di Messina. Si occupa di temi legati alla città, ai conflitti e alla criminologia critica. Tra i suoi volumi più recenti, Resistenze (Ombre Corte, 2015), Prendere le case (Ombre Corte, 2018), The Endless Reconstruction (Palgrave, 2019) e Populismo Urbano (Meltemi, 2022).

Print Friendly, PDF & Email