Non è facile reggere la sequenza di perdite che il presente ci impone. Tanto più se ad andarsene è un gigante come Mario Tronti. Comunque la si veda, Mario Tronti è stato un maestro per noi tutti. Ricordarlo è terribilmente complesso e così abbiamo pensato di mettere insieme una pagina di Effimera che si articola su più piani.
Per primo: due estratti di Operai e Capitale, un testo basilare, la Genesi dell’Operaismo italiano, un’opera pubblicata nel 1966 da cui tutto ha avuto origine. Chiunque voglia capire fino in fondo il rapporto tra capitale e lavoro, chiunque voglia vedere la potenza del lavoro – nonostante tutto – deve passare da qui. Tanti sono i brani che potrebbero essere ripresi. Il primo che abbiamo scelto riguarda il concetto centrale di “autonomia” dell’operaio massa. È ciò che abbiamo imparato da Tronti: il lavoro è autonomo rispetto al capitale, nel senso che può farne a meno. Mentre il capitale non può fare a meno del lavoro. Come già notato dallo stesso Marx, il rapporto lavoro-capitale si presenta come rapporto tra due soggetti, di cui il primo (il lavoro) è quello più forte. Per questo il capitale ha bisogno di sussumere il lavoro, per renderlo a lui dipendente: è il passaggio che il capitalismo disegna tramite il processo di salarizzazione e ricattabilità che ha trasformato il lavoro in “desarmata manu”: “il proprietario (della forza-lavoro, ndr.) non è solo libero di venderla, ma si trova anche e soprattutto nell’obbligo di farlo” (K.Marx, Il Capitale, Cap. XVII, Editori Riuniti Roma 1972).Oppure: “Il capitalista compera agli stessi operai, a quanto sembra, il loro lavoro con del denaro. Per denaro essi gli vendono il loro lavoro. Ma ciò non è che l’apparenza. Ciò che essi in realtà vendono al capitalista per una somma di denaro è la loro forza lavoro. […] La forza lavoro è dunque una merce, che il suo possessore, il salariato, vende al capitale. Perché la vende? Per vivere” (K.Marx., Lavoro salariato e capitale, Editori Riuniti, Roma 1957, p. 3). L’autonomia del lavoro diventa così il grimaldello del conflitto e la sua irriducibilità al capitale. È il rifiuto del lavoro salariato che allude alla definizione del salario come variabile indipendente. Su questo tema si sofferma il secondo brano tratto dall’ultimo capitolo della prima edizione di Operai e Capitale, non casualmente intitolato “Contro il lavoro”. Il rifiuto del lavoro (salariato) significa rifiutare lo sfruttamento del lavoro, il punto più alto che segna proprio quell’irriducibilità del lavoro a essere preda del capitale. “L’operaio non sa che farsene della dignità del lavoratore”. Qui sta la potente attualità di Tronti.
Per secondo: un’intervista di Mario Fabio a Christian Marazzi registrata ieri, 8 agosto 2023, dalla Radiotelevisione Svizzera Italiana. Marazzi, dopo aver tracciato un ricordo commovente della figura di Tronti, insiste proprio sull’attualità della proposizione del rifiuto del lavoro, nel contesto presente di precarizzazione e comando imposto dal capitale – anche attraverso l’innovazione tecnologica – proprio per rispondere alle lotte di liberazione dal lavoro.
Per terzo: una intervista di Ida Dominijanni a Mario Tronti, pubblicata il 20 giugno del 2006 su Il Manifesto, in occasione della riedizione di Operai e Capitale per DeriveApprodi. Ne esce il ritratto straordinario di un intellettuale che si confronta profondamente con sé stesso e con la realtà che si trasforma. Un percorso articolato e comunque trasparente, a partire da uno “stile” comune, segnato anche da ipotesi e convinzioni sul possibile ruolo della politica istituzionale nella dialettica sociale, che hanno segnato poi distanze nelle scelte e nelle prese di posizione. Ma che ci confermano nel rispetto per la ricerca instancabile di un mondo più giusto agìta dall’uomo e dal pensatore nel corso della sua intera esistenza.
Ringraziamo gli autori e la casa editrice DeriveApprodi per averci consentito la pubblicazione degli estratti di Operai e capitale (A.F. e C.M.)
******
Mario Tronti, Operai e Capitale, DeriveApprodi, Roma 2006
Primo estratto, dal capitolo “Marx ieri e oggi” sull’autonomia della classe operaia: pp. 29-31
“Il marxismo è stato concepito come «ideologia» del movimento operaio. E qui è un errore di fondo. perché suo punto di partenza, suo atto di nascita era stata proprio la distruzione di ogni ideologia, attraverso la critica distruttiva di tutte le ideologie borghesi. Un processo di mistificazione ideologica è possibile infatti soltanto sulla base della società borghese moderna: è stato e rimane il punto di vista borghese sulla società borghese. E chiunque ha aperto anche una sola volta le prime pagine del Capitale, ha potuto constatare che questo non è un processo del pensiero puro che la borghesia consapevolmente sceglie per mascherare il fatto dello sfruttamento, ma che questo è il processo stesso, reale, oggettivo, dello sfruttamento, cioè è il meccanismo stesso di sviluppo del capitalismo, in tutte le sue fasi. È per questo che la classe operaia non ha bisogno di una sua «ideologia». perché la sua esistenza come classe, cioè la sua presenza come realtà antagonistica all’intero sistema del capitalismo, la sua organizzazione in classe rivoluzionaria, non la lega al meccanismo di questo sviluppo, la rende indipendente da esso è ad esso contrapposta. Anzi, quanto più avanza lo sviluppo capitalistico, tanto più la classe operaia può rendersi autonoma dal capitalismo; quanto più si perfeziona il sistema, tanto più la classe operaia deve diventare la massima contraddizione dentro il sistema, fino al punto da rendere impossibile la sopravvivenza di esso e da rendere possibile e quindi necessaria la rottura rivoluzionaria che lo liquida e lo supera.
Marx non è l’ideologia del movimento operaio: è la sua teoria rivoluzionaria. Teoria che è nata come critica delle ideologie borghesi e che deve vivere quotidianamente di questa critica, – deve continua- re ad essere la «critica spietata di tutto ciò che esiste». Teoria che è arrivata a costituirsi come analisi scientifica del capitalismo e che deve nutrirsi in ogni momento di questa analisi, deve in certi momenti identificarsi con essa, quando si tratta di riprendere il terreno perduto e di colmare il vuoto, il distacco che si è operato tra lo sviluppo delle cose e l’aggiornamento e la verifica della ricerca e dei suoi strumenti. Teoria che vive solo in funzione della pratica rivoluzionaria della classe operaia, che dà armi alla sua lotta, elabora strumenti per la sua conoscenza, isola e ingrandisce gli obiettivi della sua azione. Marx è stato e rimane il punto di vista operaio sulla società borghese. Ma allora, se il pensiero di Marx è la teoria rivoluzionaria della classe operaia, se Marx è la scienza del proletariato, su quali basi e per quali vie, una parte almeno del marxismo è diventata un’ideo- logia populista, un arsenale di banali luoghi comuni per la giusti- ficazione di tutti i possibili compromessi nel corso della lotta di classe? Qui il compito dello storico si fa enorme. Eppure è di per sé evidente questo semplice fatto che se l’ideologia è parte, e articola- zione specifica, storicamente determinata, del meccanismo stesso di sviluppo del capitalismo, accettare questa dimensione «ideologica» – costruire l’ideologia della classe operaia – niente altro vuol dire se non che il movimento operaio è diventato esso stesso – in quanto tale – parte, articolazione passiva dello sviluppo capitalistico; ha subito un processo di integrazione dentro il sistema, pro- cesso di integrazione che può avere varie fasi e vari livelli, ma che comunque ha la medesima conseguenza di provocare fasi diverse e diversi livelli – cioè forme differenti – di quella pratica riformista, che finisce per sembrare oggi, all’apparenza, implicita nel concetto stesso di classe operaia. Se l’ideologia in generale è sempre borghese, un’ideologia della classe operaia è sempre riformista: e cioè è il modo mistificato attraverso cui viene espresso e nello stesso tempo rovesciata la sua funzione rivoluzionaria.
Se questo è vero, da questo consegue che il processo di demistificazione deve passare oggi all’interno stesso del marxismo, deve esprimersi anche come un processo di deideologizzazione del marxismo. E parlo qui del marxismo, non dell’opera di Marx: perché su quest’ultima il discorso da fare è ben diverso. C’è naturalmente un lavoro di critica interna all’opera stessa di Marx, di separazione e di scelta di alcune grosse direzioni che in essa compaiono. Ci sono da cogliere e da valorizzare i punti in cui la generalizzazione scientifica si esercita al massimo livello e dove quindi l’analisi del capitalismo acquista tutto il senso poderoso di una comprensione dinamica del sistema, che individua e giudica le tendenze di fondo che continuamente lo modificano e lo rivoluzionano dal suo interno. E ci sono d’altra parte da isolare e da respingere quelle parti in cui quel tipo di generalizzazione a livello scientifico sembra non riuscire e dove quindi vengono immediatamente generalizzati dati particolari, e cioè un particolare stadio di sviluppo del capitalismo, che finisce per assumere così la veste, la figura allegorica del capitalismo nel suo complesso. Ma questa critica interna – che rappresenta in un certo senso l’autocritica di Marx – è cosa diversa dal lavoro di demistificazione di alcune teorie marxiane. Quest’ultimo non riguarda l’opera di Marx: riguarda una certa parte del marxismo”
Secondo estratto, dal capitolo “Contro il lavoro”, pp. 262-263. Sul rifiuto del lavoro
“14. Lotta contro il lavoro!
Per finire, torniamo dunque agli inizi: alla natura insieme doppia, divisa e contrapposta del lavoro. Non più però lavoro contenuto nella merce, ma classe operaia contenuta nel capitale. La zwieschlächtige Natur della classe operaia consiste nell’essere essa insieme lavoro concreto e lavoro astratto, lavoro e forza-lavoro, valore d’uso e lavoro produttivo, insieme capitale e non-capitale, – insieme quindi capitale e classe operaia. È qui che la divisione è già contrapposizione. E la contrapposizione è sempre lotta. Ma la lotta non è ancora organizzazione. Lavoro e forza-lavoro, nella classe operaia, non basta che siano oggettivamente divisi: proprio così si presentano di fatto uniti nel capitale. Vanno divisi con un’azione soggettiva: solo così risultano infatti mezzo di un’alternativa di potere.
È vero che la Trennung, la separazione, la divisione, è il rapporto normale di questa società. Ma vero è anche che tenere insieme ciò che è diviso fa appunto la forza del capitale, ha fatto la sua storia, farà ciò che resta del suo avvenire. Tenere la classe operaia dentro di sé e contro di sé, e su questa base imporre alla società le leggi del suo proprio sviluppo, – questa è la vita del capitale, e non esiste per esso nessun’altra vita all’infuori di questa. Il punto dunque va trovato dove diventa possibile impedire l’unità, dove diventa praticabile bloccare il meccanismo della sintesi, separando a forza gli estremi, fino al limite della rottura e oltre. Questo punto è dentro la classe operaia, come la classe operaia è dentro il capitale. È propriamente la separazione della classe operaia da se stessa, dal lavoro, e quindi dal capitale. È la separazione della forza politica dalla categoria economica. E divisione e separazione è poco: è necessaria la lotta, l’opposizione, la contrapposizione. Per lottare contro il capitale, la classe operaia deve lottare contro se stessa in quanto capitale. È il punto della massima contraddizione, non per gli operai, ma per i capitalisti. Basta esasperare questo punto, basta organizzare questa contraddizione, e il sistema capitalistico non funziona più, e il piano del capitale comincia a camminare all’indietro, non come sviluppo sociale, ma come processo rivoluzionario. Lotta operaia contro il lavoro, lotta dell’operaio contro se stesso come lavoratore, rifiuto della forza-lavoro a farsi lavoro, rifiuto della massa operaia all’uso della forza-lavoro: ecco i termini in cui strategicamente si ripropone a questo punto, dopo la tattica della ricerca, l’iniziale divisione-contrapposizione che l’analisi marxiana aveva per prima scoperto nella natura del lavoro. (…)
Le forme moderne della lotta operaia, nei paesi a grande capitalismo, portano tutte come ricco contenuto della propria spontaneità la parola d’ordine della lotta contro il lavoro, come unico mezzo per colpire il capitale. Di nuovo, il partito si presenta come organizzazione di quello che nella classe già c’è, ma che la classe da sola non riesce a organizzare. Nessun operaio è oggi disposto a riconoscere resistenza del lavoro fuori del capitale. Lavoro = sfruttamento: questo è il presupposto logico e al tempo stesso il risultato storico della civiltà capitalistica. Di qui non si può tornare indietro. L’operaio non sa che farsene della dignità del lavoratore. E l’orgoglio del produttore lo lascia tutto quanto al padrone. E solo il padrone c’è rimasto a fare l’elogio del lavoro. Nel movimento operaio purtroppo ancora sì, ma nella classe operaia no, non c’è più posto per l’ideologia. La classe operaia, oggi, ha solo da guardare se stessa per capire il capitale. Ha solo da combattere se stessa per distruggere il capitale. Deve riconoscersi come potenza politica. Deve negarsi come forza produttiva.”
******
L’umiltà di Mario Tronti | Intervista a Christian Marazzi di Mario Fabio
Radiotelevisione svizzera italiana, 8 agosto 2023
Il filosofo Mario Tronti, uno dei principali fondatori ed esponenti negli anni Sessanta e Settanta del marxismo operaista teorico, è morto all’età di 92 anni. Nato attorno alla rivista “Quaderni Rossi”, l’operaismo considerava la classe operaia il principale soggetto di un’auspicata trasformazione sociale e politica. Le idee di Mario Tronti furono magistralmente riassunte nel suo libro del 1966 “Operai e capitale”. Il ricordo dell’economista Christian Marazzi, professore di Socioeconomia e responsabile dell’Unità di Ricerca in Lavoro Sociale alla SUPSI.
https://www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/alphaville/L%E2%80%99umilt%C3%A0-di-Mario-Tronti-16454626.html?f=podcast-shows
*******
Lo stile operaista – di Ida Dominijanni
Il Manifesto, 20 giugno 2006
“Un consiglio: mai scrivere un libro di successo da giovani. Si rimane per tutta la vita quella cosa lì”, scrisse Mario Tronti in una breve autobiografia filosofica del 2008 che conteneva le chiavi necessarie, autoironia inclusa, per cogliere tutt’intero il suo percorso al di là dell’icona del “padre dell’operaismo italiano” cui il successo internazionale di “Operai e capitale” lo ha consacrato. Quell’icona, certo, gli apparteneva, eppure non mancava di irritarlo quando faceva velo al resto e al seguito della sua ricerca: il pensiero negativo e la cultura della crisi, l’autonomia del politico e il corpo a corpo con gli autori e le categorie del pensiero politico moderno, il confronto con il pensiero teologico e mistico, e, dopo l’’89-‘91, il pensiero della fine – fine del Novecento, finis Europae, fine della politica moderna – che, in polemica con le letture democratico-progressiste del cambio di stagione, apre il fronte della critica trontiana della democrazia politica. In questa intervista, Tronti ripensa l’esperienza operaista non come scuola ma come stile di pensiero, ne restituisce la dimensione collettiva e ne ricostruisce i nessi inscindibili con il proprio percorso filosofico e politico successivo (i.d., 7 agosto 2023).
“Operai e capitale”, che in questi giorni viene riproposto da Deriveapprodi quarant’anni dopo la sua uscita einaudiana nel ’66, è considerato il libro di culto dell’operaismo. In poche parole, proviamo a restituire il messaggio e la dirompenza di quel libro?
Veramente, il risultato fu molto al di sopra del tentativo. Si trattava di una posizione isolatissima, che sfondò il muro dell’attenzione. Il merito va tutto ai magici anni Sessanta. Il messaggio era quello cantato da Bob Dylan: i tempi stanno cambiando. Tradotto: bisogna rivoluzionare il passo della ricerca sociale e della pratica politica. Poi, il linguaggio, come ha detto qualcuno, è l’essere. Questo soprattutto rompeva con la tradizione. “Operai e capitale è l’età del mio romanticismo politico. E i poeti romantici piacciono, sempre.
Il libro uscì, nel ’66, quando le due testate dell’operaismo, i “Quaderni Rossi” di Panzieri e “Classe Operaia”, avevano già chiuso. In che rapporto sta quel tuo testo con la vicenda collettiva dell’operaismo?
Non ci sarebbe stato il libro senza l’esperienza operaista, depositata nella rivista e nel giornale. Nel libro precipitano saggi e articoli che venivano da lì e che salgono poi a riflessione teorica. È la solita nottola di Minerva, che spicca il volo al crepuscolo del giorno.
Nei confronti dell’operaismo italiano, nelle sue varie espressioni, c’è oggi in Italia e all’estero, e in condizioni sociali e politiche del tutto diverse, una forte ripresa d’interesse. Guardando indietro, cos’è stato per te l’operaismo?
Tre cose: un romanzo di formazione intellettuale, un episodio della storia del movimento operaio, una rivoluzione culturale contro la tradizione marxista ortodossa, italiana e non solo. Ma prima di tutto, l’esperienza di pensiero e di pratica di un gruppo di persone di straordinaria qualità umana e politica, che si muovevano in divergente accordo, cementate da un legame di amicizia indissolubile – quali che siano le strade che ciascuno di noi ha intrapreso in seguito. In una parola, direi che quell’esperienza ci ha lasciato uno «stile» inconfondibile: dal modo di scrivere, battente come il ritmo della fabbrica, al modo di pensare, fuori dalla norma, in una sorta di «stato d’eccezione intellettuale permanente». A contatto con la fabbrica e con il modello delle lotte operaie nacque un nuovo tipo di intellettuale, organico non al partito ma alla classe, e un nuovo modo di fare teoria, non di libro in libro ma nel corpo a corpo con la storia, per sovvertire l’ordine delle cose. Una pratica di pensiero politico perturbante, irriducibile a scuole e tradizioni, che tuttavia in seguito ha fecondato anche l’innovazione disciplinare, in filosofia, in sociologia, nella storiografia.
Quali erano i punti di polemica più duri con la tradizione comunista italiana?
Lo storicismo della linea De Sanctis-Labriola- Croce-Gramsci, cemento del gruppo dirigente togliattiano del Pci nel dopoguerra e negli anni Cinquanta. Il nazional-popolare, che Alberto Asor Rosa smontò nel ’64 – aveva trent’anni – in “Scrittori e popolo”. L’analisi del neocapitalismo e del nesso fabbrica-società-politica: mentre l’operaio massa, il taylorismo, il fordismo irrompevano sulla scena, il Pci restava fermo alla diagnosi dell’arretratezza del capitalismo italiano. E ancora, la retorica lavorista, che mandammo all’aria con lo slogan del «rifiuto del lavoro», e la visione salvifica della classe operaia, che nel lessico del Pci doveva sempre farsi “classe generale”, agire nell’interesse di tutti, emancipare sé stessa per emancipare l’umanità, salvare il paese, la pace, il Terzo Mondo…
Invece “la rude razza pagana”, secondo la tua celebre definizione, doveva salvare solo sé stessa… Cos’era, la rude razza pagana? E non avete rischiato anche voi di farne un mito salvifico, di riproporre una filosofia della storia con il Soggetto operaio al posto dello Spirito hegeliano?
La rude razza pagana era quella che davanti ai cancelli delle fabbriche ci prendeva di mano i volantini e ridendo diceva: Che sono, soldi? Salario contro profitto, ecco cos’era la classe. Non l’interesse generale, ma un interesse di parte, che smascherava l’universalismo borghese e metteva in crisi il rapporto generale di capitale. “Il salario come variabile indipendente” non era uno slogan economico, era uno slogan politico, come avrebbe dimostrato il ’69. Ma ben prima dell’autunno caldo, fin dalle lotte del ’62 a Torino si era dispiegata l’inventiva operaia di pratiche antagoniste nella guerra di posizione quotidiana contro il padrone: le lotte a gatto selvaggio, il salto della scocca, i sabotaggi sulla linea di montaggio, l’uso insubordinato dei tempi di produzione taylorismi. Imparavamo da lì: al capitale che voleva estendere il modello della fabbrica alla società, noi rispondevamo estendendo il modello dell’insubordinazione operaia alla politica.
Stai parlando dei primi anni Sessanta, che da tutta la memorialistica comunista, anche di posizioni diverse dalla tua – penso ai recenti libri di Ingrao e di Rossanda – risultano quelli cruciali della storia repubblicana. Quegli anni però sono racchiusi fra due date: alle spalle c’è il ’56, davanti il ’68. Come collochi l’esperienza operaista fra quelle due date?
Il ’56 fu una data strategica: la statua di Stalin rotolò sulle nostre teste, e nelle nostre teste nulla fu più come prima. Le magnifiche sorti e progressive erano finite, il comunismo non ci attendeva più dal futuro, domandava autocritica del presente. Ma mentre i più, di fronte ai fatti di Budapest, riscoprivano il valore delle libertà borghesi, per noi si schiudeva casomai l’orizzonte della libertà comunista. Trovo intellettualmente e politicamente inutili molte autocritiche a posteriori di oggi: il nodo, duro, da sciogliere era come ricostruire le condizioni della rivoluzione nell’occidente neocapitalistico, spostando in avanti il terreno sia del conflitto operaio, sia dell’organizzazione politica, senza separarli l’uno dall’altra. Personalmente – ma qui parlo per me, perché questo era il punto del contenzioso interno all’operaismo – non ho mai pensato che potessimo organizzare noi gli operai per scagliarli, duri e puri, contro il capitale. In mezzo c’era un passaggio politico che non si poteva saltare – anche se essere operaisti ha sempre significato, allora e dopo, saltarlo.
Qual era questo passaggio?
La formazione, dentro l’esperienza di classe, di un gruppo dirigente alternativo a quello togliattiano, che sapesse giocare dentro il “disordine” che stava per venire, e che sarebbe esploso nel ’68-’69. La crisi del Pci post-togliattiano, che sarebbe esplosa nell’XI congresso del ’66, avrebbe forse potuto incoraggiare “la lunga marcia dentro l’organizzazione” che mi pareva necessaria: il Principe restava la classe, il primato restava alle lotte, ma per tentare di dare loro un esito vincente era necessario lo strumento del partito. Ma questa ipotesi del “dentro e contro” non passò, prevalse quella del “o dentro o fuori”, cioè fuori: una logica per il movimento, un’altra per il partito. Con gli esiti perdenti degli anni Settanta, e oltre.
Ma in mezzo c’è stato il Sessantotto, che cambia non poche cose, rispetto al rapporto con il partito e con l’organizzazione…In che rapporto sta l’operaismo con il Sessantotto?
Ti rispondo per me, in un modo che molti dei compagni di allora contesterebbero vibratamente, e tu con loro. L’operaismo è stato una premessa del ’68, e al tempo stesso una sua critica anticipata. In Italia il ’68 ha ricevuto dal ’69 operaio una caratterizzazione diversa e più duratura che altrove, anticapitalistica e non solo antiautoritaria. Operai e capitale si trovarono materialmente uno di fronte all’altro: a quel punto bisognava spostare potere, non solo contestare autorità. È una regolarità storica: se nel terremoto provocato dalle lotte non si apre un processo rivoluzionario guidato e organizzato, che sposta il rapporto di forze, lo sviluppo capitalistico finisce con l’utilizzare le lotte operaie ai propri fini, e l’intero apparato di dominio si ristabilizza democratizzandosi. Esattamente quello che è avvenuto dopo il ’68. Alle lotte per la liberazione del secondo Novecento è mancata la forza del movimento operaio organizzato che agì in quelle per l’emancipazione del primo. Grandissima parte della soggettività antagonista degli anni Sessanta si era formata fuori ed era cresciuta contro i partiti e i sindacati, e operava per accelerarne la crisi. Finché nel ’77 se ne separa definitivamente.
Perché quella forma di organizzazione non si adattava più a quella spinta di libertà…Ma torniamo a guardare le cose con gli occhi di allora. Insomma, il punto di contenzioso nell’operaismo era l’organizzazione, il partito, il ruolo del politico. Prendiamo due formule emblematiche, l’editoriale “Classe operaia senza alleati” di Toni Negri su “Classe Operaia” del ’64 e il tuo saggio “Sull’autonomia del politico” (Feltrinelli) del ’77.
Toni Negri ha contato molto nell’esperienza di “Classe operaia”. L’analisi e poi la critica dell’operaio fordista-taylorista, maturata nel laboratorio strategico di Porto Marghera, è alla base di tutto il suo percorso di ricerca successivo. E nella teoria del passaggio dall’operaio massa all’operaio sociale, a metà anni Settanta, c’è tutta la sua intelligenza. Ma “operai senza alleati” era un errore. Il sistema di alleanze predicato dal Pci – lavoratori dipendenti-ceti medi-Emilia rossa – andava smontato e contestato, ma bisognava costruirne un altro, con le figure professionali nuove che emergevano nel capitalismo sviluppato, con la produzione e il consumo di massa, le trasformazioni civili e il salto culturale in atto nel paese; e ridislocare più avanti tutto il terreno della politica, dal conflitto alla rappresentanza. L’operaismo dei primi anni Sessanta intuì un pezzo essenziale di questa realtà. A rivederla oggi, “Classe Operaia” risulta più vicina a “Quaderni Rossi” e più lontana da Potere operaio e da tutto quello che ne derivò fino a Autonomia operaia: le prime due esperienze si sentivano criticamente dentro il movimento operaio, le seconde gli si mettevano contro. Quanto all’autonomia del politico, che molti dei compagni di allora tuttora mi rimproverano come una inattesa svolta, io ribadisco che la sua scoperta teorica avvenne per me dentro l’esperienza pratica dell’operaismo, anche se la sua elaborazione fu successiva. E si precisò quando, di fronte al profilarsi della sconfitta, il ruolo e la necessità del politico mi apparvero più chiari. Se quel «salto» nel politico non ci fu, tuttavia, non fu tanto o solo per i limiti di quel nostro esperimento, ma per i limiti dell’epoca: con gli anni Sessanta il tempo della grande politica non si apre, si chiude.
È una tua tesi nota, da “La politica al tramonto” in poi. Ma se quel tempo è chiuso e l’operaismo va inscritto in quel tempo, dell’operaismo cosa resta?
Parlo, non a caso, di «stile» operaista: un modo nuovo di essere intellettuali, con un pensiero legato alla pratica. C’è un padre e una madre: il primo è la grande storia del movimento operaio, la seconda è la grande cultura della crisi novecentesca. Una splendida contraddizione, vissuta. L’ho detta così: dare voce alta a quelli che stanno in basso. Un percorso inquieto: ma sfido chiunque a trovare una sola ombra di cedimento.
Perché l’operaismo incontrò la cultura della crisi, facendone il suo orizzonte culturale?
Perché il soggetto operaio, pur così centrale, a noi appariva come un soggetto sociale che risultava dalla crisi della sua forma politica tradizionale. E questo si inscriveva dentro una più generale grande crisi delle forme, che dopo la rottura delle avanguardie d’inizio Novecento non si era mai più ricomposta. È del ’69, su “Contropiano”, il saggio di Cacciari “Sulla genesi del pensiero negativo”, un orizzonte che non avremmo più abbandonato. E che apre a un passaggio successivo, dalla critica distruttiva dell’ideologia alla ricostituzione di categorie politiche come concetti teologici secolarizzati. Bisogna metterci la testa per capire come dalla rude razza pagana si arrivi alla teologia politica, ma il nesso c’è ed è forte. E per quanto riguarda me, c’è un filo di continuità fra “Operai e capitale” e “Politica e destino”, l’ultimo mio lavoro che esce in questi stessi giorni presso Sossella.
“Lenin in Inghilterra” e “Marx a Detroit”, due titoli rimasti celebri di “Operai e capitale”. Dove li mandiamo adesso Lenin e Marx? Nelle fabbriche di Shangai, fra i co-co-pro italiani, fra gli stranieri-cittadini delle banlieue francesi, nei supermarket della Walmart in Arkansas? Il poscritto del ’70 alla seconda edizione di “Operai e capitale” era tutto un invito a imparare dalle lotte operaie americane degli anni Trenta, mentre oggi è come se tu avessi girato la telecamera tutta e solo sull’Europa, come Woody Allen…
È il mondo che sta girando davanti alle telecamere. I tempi stanno cambiando, oggi, più per ragioni oggettive che per volontà soggettive. Tanto queste sono generose e deboli quanto quelle sono arroganti e potenti. Vado dicendo che sta prendendo centralità la geopolitica. Lo spazio politico non è più quello delle piccole nazioni, ma quello dei grandi continenti. La verità è che gli Stati uniti hanno paura di questo mondo che cambia. Noi europei siamo abituati alla decadenza, gli americani no. Non riescono a rassegnarsi: questo spiega la loro nevrosi internazionale. Sì, Marx lo manderei in Cina e in India. Lenin invece lo vedrei bene alle prese con i problemi di organizzazione politica del lavoratore precario, Non è che sia questa la figura dell’operaio postfordista? E come si porta in un call-center la coscienza politica dall’esterno? E in una banlieue l’idea che bisogna fare sindacato e fare partito? E in un Cpt la pratica non dell’integrazione ma dell’insubordinazione? È dura. Marx ce la può fare a farci capire ancora. Lenin, a farci ancora agire, è un po’ più in difficoltà. Ma c’è sempre la misteriosa curva della sua retta….