Continuiamo l’avvicinamento effimero allo sciopero per il clima del 27 settembre prossimo. Apriamo la serie dei commenti all’intervista di Gennaro Avallone a Jason Moore (qui la prima e la seconda parte) con il contributo di Andrea Ghelfi.

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In questa intervista Moore afferma che “the modes of thought that have created todays planetary crisis will not lead us towards planetary justice”. Prendendo sul serio questo punto di vista nel mio intervento vorrei raccontarvi una storia che sfida l’eccezionalismo umano, il binarismo natura-cultura e la cultura dell’individualismo: una storia di fermentazione.

Un giorno, durante un corso di permacultura, la mia insegnante Saviana ci spiega come preparare il pane a lievitazione naturale. Comincia a impastare e mentre impasta ci racconta che non sono stati gli esseri umani a inventare la fermentazione. O meglio, che gli esseri umani sono anche il risultato di un processo di fermentazione. E così scopro che una parola che evoca la pizza o il piacere della fermentazione alcolica viene utilizzata da diversi biologi per descrivere il metabolismo anaerobico, ovvero la produzione di energia da nutrienti senza la presenza di ossigeno. Seguendo le argomentazioni della biologa Lynn Margulis, la fermentazione batterica è emersa relativamente presto nella storia della terra, prima che l’atmosfera avesse una sufficiente concentrazione di ossigeno per supportare l’evoluzione delle forme di vita aerobiche, cioè le forme di vita che si sviluppano in presenza di ossigeno. E così, solo dopo che i batteri furono gli unici abitanti della terra per miliardi di anni, trasformando attivamente la sua superficie, i primi processi simbiotici tra la fermentazione batterica e i primi organismi unicellulari diedero vita alle prime cellule eucariote, da cui derivano funghi, piante e animali. Il processo evolutivo che deriva da questa relazione simbiotica tra organismi monocellulari e fermentazione batterica è definito in biologia come simbiogenesi. La fermentazione batterica ha quindi svolto un ruolo decisivo nel processo di coevoluzione di tutte le specie: attraverso relazioni simbiotiche e processi coevolutivi i batteri si sono fusi in altre forme di esistenza, generando altre forme di vita. Mentre impastiamo il pane o ci godiamo del buon vino, possiamo pensare a come non ci sarebbe modo di goderne senza la presenza attuale di relazioni simbiotiche e coevolutive tra batteri e organismi pluricellulari. La specie umana è il composto di molte specie e non potremmo vivere senza la presenza di batteri nel nostro corpo. La nostra “indigeneità” batterica ci protegge e ci consente di funzionare in miliardi di modi. Non c’è vita senza la relazione tra differenti specie in coevoluzione, e non si danno processi di divenire se non dentro a una fitta rete di interdipendenze.

La vita di un ente, come ci ricorda il filosofo Whitehead, non può essere separata dalle sue interdipendenze. Pensare la vita e l’evoluzione con questa storia di fermentazione ci porta lontano da ogni eccezionalismo umano, ma anche lontano da ogni distinzione tra ciò che siamo soliti definire come naturale – ad esempio l’evoluzione di organismi pluricellulari – o come culturale, come ad esempio una pratica culinaria.

Non c’è fermentazione senza relazionalità ecologica. Ma tale relazionalità, nel bel mezzo delle trasformazioni tecnoscientifiche che caratterizzano la nostra era non può più essere pensata separando natura e cultura, il sociale dal materiale, l’umano dal non umano. L’attualità dell’ecologia politica riguarda il fatto stesso di vivere in un tempo in cui non è più possibile separare un ente esistente o nascente – che si tratti di un artefatto, di un animale, di una pianta o di un essere umano – dalle molte differenze che tale ente può creare in relazione alle tante esistenze a cui è connesso. Viviamo nell’era dell’ecologia politica, un tempo in cui la politica non può essere separata dai processi di materializzazione che creano mondi, entità e forme di esistenza.

Stengers definisce l’ecologia politica come la politicizzazione dei problemi esistenti in relazione alle pratiche della conoscenza e alle pratiche materiali che hanno a che fare con le cose del mondo, con i processi materiali che abitano il mondo. “No issue, no politics” ci dice Stengers. Come a dire che lo spazio della politica emerge nel tentativo di rispondere a problemi situati. Stengers suggerisce un approccio problema-soluzione in cui l’enfasi è posta sulla capacità di un problema comune di catturare l’attenzione dei diversi attori coinvolti. Ma qui ciò che è comune non è una proprietà o una sostanza comune, piuttosto è ciò che chiama in causa diversi attori, ciò che li costringe a pensare, a inventare, ad agire di concerto l’uno con l’altro. Il comune è ciò che sta tra noi, che in vari modi ci sfida, ciò che ci chiama e ci costringe a pensare e agire. Il comune quindi come ciò che riattiva una capacità collettiva di composizione tra diversi attori, che si compongono rifiutando la presenza di un’autorità esterna,di un arbitro morale. Questa nozione di composizione ecologica segna una chiara discontinuità con un’idea di politica in cui accordo e unità si basano su una supposta natura comune che ci riveste, o su qualche universalismo trascendente. Al contrario, in Stengers abbiamo un approccio ecologico, profondamente relazionale e composizionalista al tema del comune. Un invito a procedere lentamente nel comporre mondi comuni ed ecologie di esistenza.

Una politica del commoning – del costruire comune – si riferisce prima di tutto alla capacità di praticare trasformazioni materiali, una capacità di agire che non può essere definita come una agencyumana o un universale da realizzare. Al contrario, questa politica del fare comune non è che una capacità di “agire con”, come ci ricorda Donna Haraway, partendo da problemi specifici e contesti definiti. In un’ecologia relazionale interagire significa sempre agire con, essere trasportati, contaminati, ridefiniti dalla presenza attiva di altre che hanno per noi significato. Sfidando le politiche della materia di stampo coloniale che caratterizzano la geocultura del Capitalocene, una miriade di movimenti contemporanei stanno inventando altri modi di esistenza materiale grazie alla sperimentazione di forme di interazione che coinvolgono la presenza attiva di entità umane e più che umane. Dai movimenti ecologisti e contadini alle pratiche di solidarietà per il diritto alla salute, dai movimenti indigeni alle fabbriche occupate, dai movimenti femministi e queer ai bio-hacker, i movimenti sociali ed ecologisti contemporanei stanno sperimentando altri modi di relazione tra persone e persone, piante e artefatti, umani e suolo, tecnologie e umani, e così via. Reinventando relazioni tra elementi eterogenei, creando ecologie di esistenza conviviali e responsabili– abbastanza fitte e dense per coltivare prosperità mondane e il minimo di sofferenza possibile per tutti i corpi che le abitano – questi movimenti inventano forme di commoning a partire da pratiche di vita quotidiane. Sperimentando altri modi di costruire relazioni significative tra artefatti, sostanze inorganiche e specie diverse, questi movimenti compongono assemblaggi molto più complessi e articolati della divisione tra natura e cultura. Essi ci mostrano come non possano esistere politiche alternative della materia se non all’interno della composizione ibrida del sociale, del materiale e del tecnologico.

Pensare la politica attraverso i modi concreti attraverso cui si modificano relazioni materiali e sociali, questo mi sembra essere il compito di un’ecologia politica che non rifiuti necessariamente la dimensione tecnoscientifica. Infatti se le diverse traiettorie delle tecnoscienze creano nuove ontologie, nuovi mondi e nuove forme di vita, una politica alternativa della materia si riferisce direttamente alla pluralità di interventi possibili in diversi contesti socio-ecologici, materializzando certe possibilità ontologiche piuttosto che altre, certe forme di vita piuttosto che altre. Perché per sopravvivere e vivere tra le rovine del Capitalocene abbiamo bisogno di forme di attivismo che esprimano, qui e ora, una capacità diretta di operare trasformazioni materiali.

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