In vista dello sciopero globale per il clima che si terrà il 27 settembre, Effimera propone la pubblicazione di una serie di riflessioni dal dibattito italiano, a partire da un’intervista di Gennaro Avallone a Jason Moore, di cui oggi pubblichiamo la prima parte. Si tratta di una discussione globale su natura sociale astratta, valore-negativo e la crisi del capitalismo in corso. Ci introduce ai concetti fondamentali dell’ecologia-mondo e approfondisce alcuni nodi problematici emersi recentemente nel dibattito internazionale sull’ecologia politica. Tra questi ultimi vanno segnalati il rapporto con i teorici della “frattura metabolica” e la novità storica rappresentata dal valore-negativo. I contributi, in inglese, verranno pubblicati in ottobre per un numero speciale della rivista Sociologia Urbana e Rurale.

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Tu stai sviluppando l’approccio dell’ecologia-mondo per comprendere sia la storia moderna sia il futuro delle nature umana ed extra-umana. Quali sono gli elementi principali di questo approccio?

L’ecologia-mondo è una collaborazione, un confronto. Si tratta di un confronto – tra studiosi, artisti, attivisti – sulla giustizia a livello planetario. Esso prende Marx seriamente in considerazione, ma rifiuta il concetto secondo cui ci sarebbe un “vero Marx”. Non c’è nessun Vero Marx, ma solo un Marx storico. Lo stesso è vero per altri grandi pensatori. Io penso che uno dei maggiori rischi della tradizione radicale si trovi nella tendenza a convertire le idee in credenze, e le credenze in oggetti sacri. Così, si va a difendere un oggetto sacro – il “socialismo in un solo paese” o “la classe operaia” – invece di coltivare una prassi rivoluzionaria.

Per il dibattito dell’ecologia-mondo, la mia speranza è che esso incoraggi e faciliti discussioni e sintesi utili per la giustizia planetaria nel XXI secolo. Io ho sempre ripetuto che alcune delle mie formulazioni saranno più utili di altre. Il mio approccio è stato quello di porre domande sulle lacune nelle interpretazioni radicali del cambiamento storico – incluso il presente come storia. Nel libro Capitalism in the Web of Life (2015), ho posto delle domande sulle connessioni tra i rapporti di dominio e sfruttamento e la storia ambientale. Come possono le critiche femministe, ambientaliste e marxiste essere rielaborate in una nuova sintesi? E come potrebbe esserci una sintesi generativa – generativa, cioè, di ulteriori ricerche, narrazioni, rappresentazioni, discussioni?

L’ecologia-mondo sviluppa accese discussioni e questo spesso porta verso inattese – anche scomode – direzioni! Troppi radicali hanno bisogno di essere “corretti”. Obiettivo dell’ecologia-mondo non è arrivare alla linea corretta e, quindi, difenderla. La nostra ambizione collaborativa è di aprire, appoggiare e sostenere confronti che generino conoscenza emancipativa per la giustizia planetaria. Questo significa, tra le altre cose, che noi abbiamo rinunciato alle certezze delle conoscenze passate. Queste conoscenze passate sono importanti e indispensabili. Allo stesso tempo, i modi di pensare che hanno creato la crisi planetaria odierna non ci porteranno verso la giustizia planetaria. Una prassi emancipativa deve ribadire che nessuno ha tutte le risposte e che risposte convincenti alla crisi planetaria sono per natura collettive.

L’ecologia-mondo non ha quindi mai riguardato la mia posizione su questa o quella domanda storica o teorica. È lontana da questo! La mia idea è che si tratti di una discussione tenuta insieme da un impegno a comprendere la storia umana – compresa la storia del presente – come co-prodotta con e all’interno di reti della vita. Esiste una filosofia della storia che considera la geografia storica delle reti della vita come condizioni ontologiche. Questo incoraggia un metodo storico che si chiede come le organizzazioni umane di potere, produzione e riproduzione non sono solo produttrici di queste reti della vita, ma sono anche prodotti di esse. Fondamentalmente, noi chiediamo: come le relazioni umane sono configurate con e dentro la natura nel suo insieme?

Questa è una filosofia degli umani nella rete della vita dal carattere orizzontalista. Essa ha implicazioni pratiche. Forse il fatto maggiormente significativo è che questa filosofia sfida le visioni della liberazione umana che considerano la rete della vita come secondaria.

C’è stata una lunga storia di progetti socialisti che hanno trattato la natura come una risorsa produttivista. Ci sono molti pericoli in questo, uno dei quali è che la Natura non si limita mai alla natura extra-umana; essa include sempre le popolazioni umane. Si noterà parlo di Natura con la lettera maiuscola. Questa idea – Natura – è sempre in contrasto con Società, Civiltà, o altri concetti simili. Ma questa è più di un’idea. È una pratica. Ed è una prassi: quella di dominare gli umani, non solo i suoli, i corsi d’acqua, i campi e le foreste. In altre parole, Natura è – e lo è dal 1492 – un progetto di classe, un progetto imperiale che ha fuso la produzione di “plusvalore” con l’esercizio di “pluspotere”.

L’ecologia-mondo, quindi, prende molto sul serio la storia dell’ideologia e del dominio culturale. Io non penso che questa storia sia separata dalle devastazioni della rete della vita da parte del capitalismo; né penso che possiamo dare un senso alla razza, al genere e alla sessualità astratti dai feticci storico-mondiali di Natura e Civiltà. Fondamentale per l’ecologia-mondo è l’affermazione secondo cui i modi moderni di pensiero e cultura, potere e accumulazione costituiscono una totalità in evoluzione. Nella mia visione, l’emergenza del capitalismo può essere compresa adeguatamente solo in questi termini.

Penso che il ruolo delle lotte di classe e del cambiamento economico sia ben compreso, quindi lasciatemi semplicemente concentrarmi sulla geocultura emergente del capitalismo. La geocultura del capitalismo, l’economia geopolitica e l’antagonismo sistemico di classe sono tutti momenti di questo insieme in evoluzione, in cui ogni momento implica relazioni specifiche con reti della vita. Questa geocultura si è basata su due logiche rinforzanti. Una è la logica del codice binario e la sua prima espressione fu l’affermazione ontologica Civiltà vs. Natura. L’altra è stata la logica dello strumentalismo, necessaria se (alcuni) umani desideravano trasformare la maggior parte degli umani e il resto della natura in opportunità per fare profitto. Dall’inizio del capitalismo, “dominare e trarre profitto” è stato unito dialetticamente con “definire e governare” (Mamdani, 2012).

La geocultura del capitalismo va ben oltre il dualismo Civiltà-Natura. Dopo il 1492, la sua logica animatrice si è rapidamente intrecciata con le separazioni binarie del genere, della razza e della sessualità e si è rapidamente combinata con le strategie di governo imperiale e l’accumulazione di capitale. Quando dico che il capitalismo funziona attraverso un codice binario, sto evidenziando una prassi specificamente capitalista. Cioè, la prassi del capitalismo è un’unità di pensiero e azione che si sviluppa storicamente attraverso la ricompensa delle pratiche che consentono – e la punizione delle pratiche che ostacolano – l’accumulazione senza fine di capitale. Questa prassi è una fabbrica geoculturale di feticizzazione. Essa frammenta la realtà, ponendo segmenti di codice binario e, poi, usando tali frammenti per dominare, appropriare e sfruttare.

Civiltà e Natura – ancora in maiuscolo – sono astrazioni reali. La loro forza risiede nel grado in cui l’uno per cento agisce come se esse fossero reali e nel grado in cui il 99 percento accetta la loro realtà. Le astrazioni reali Civiltà/Nature possono essere comprese come un’espressione storico-mondiale dell’alienazione sotto il capitalismo. Ma questa non è l’unica forma di alienazione. Non appena osserviamo la storia di questa geocultura, vediamo che il confine tra Civiltà e Natura è intimamente connesso al mondo del colore e alle linee di genere. La razzializzazione e la genderizzazione (gendering) dei rapporti di lavoro, in corso dal 1492, sono passate attraverso – e, a loro volta, si sono rafforzate – le astrazioni reali di Civiltà e barbarie. Il linguaggio della civiltà e barbarie ha sempre formato un tipo di “materia prima” discorsiva per discorsi e pratiche razziste, sessiste e omofobe. Come sottolinea Silvia Federici (2004), le donne sono diventate i “selvaggi d’Europa” nel primo capitalismo, mentre la loro attività vitale è stata ridefinita come non lavoro. Le donne divennero “naturalmente” adatte per essere madri e addette alla cura: un tipo di lavoro che non ha bisogno di essere ricompensato come lavoro. Ovunque nel mondo atlantico, i non europei – africani, popolazioni indigene, schiavi, irlandesi – furono ridefiniti come selvaggi. Essi furono assegnati alla Natura, non alla Civiltà: così le loro vite ed il loro lavoro potevano meglio divenire a buon mercato.

L’approccio dell’ecologia-mondo è collegato sia all’analisi del sistema-mondo sia alla teoria della frattura metabolica. Quali sono, secondo te, le principali somiglianze e differenze tra l’ecologia-mondo e questi altri approcci?

Queste sono due tradizioni che hanno aiutato il mio pensiero, ma esse non sono le sole, e non in ogni caso le più importanti.

L’analisi del sistema-mondo è cruciale per due ragioni fondamentali. La prima è che Wallerstein ci ha mostrato una via per riscrivere la storia del mondo dal punto di vista della filosofia delle relazioni interne. Difficilmente si legge il capolavoro di Wallerstein, The Modern World-System I (1974), e quando si legge spesso ci si ferma dopo un paio di capitoli. Questo è il motivo per cui molti dicono che questo testo ruota tutto intorno alla questione della produzione per il mercato mondiale. Se lo si legge, si scopre che non è affatto così, nonostante la formazione del mercato mondiale sia importante (non lo era anche per Marx?).

L’approccio di Wallerstein è fondamentalmente in contrasto con la tendenza degli scienziati sociali a costruire modelli. Infatti, Wallerstein non offre un “modello di capitalismo”, ma piuttosto solo alcune premesse basilari – innanzitutto, quello a cui si assiste è un cambiamento epocale nel lungo sedicesimo secolo, che genera una divisione del lavoro interdipendente e trans-atlantica.

È una storia del mondo connettiva. In The Modern World-System si incontrano analisi sul cambiamento climatico, la lotta e la struttura di classe, la formazione dello Stato, la costruzione degli imperi, le trasformazioni dei suoli, delle diete e delle foreste e la formazione del mercato mondiale moderno. Si tratta di una storia del mondo situata: una storia del mondo tra molte possibili. E infine, come ho suggerito, si tratta di una storia del mondo che prende sul serio la geografia e la rete della vita.

L’analisi del sistema-mondo è generativa anche per un’altra ragione. Wallerstein la chiama analisi dei sistemi-mondo perché è proposta come un modo di analisi e, soprattutto, un “non pensato” della scienza sociale del diciannovesimo secolo. Centrale nell’analisi dei sistemi-mondo è stato lo studio delle “strutture di conoscenza” della modernità. Questa ricerca collega la critica epistemologica con le strutture istituzionali, tra le quali il modo in cui le nostre università e discipline sono organizzate. In questa luce, l’analisi dei sistemi-mondo è sempre stata una critica delle discipline e una critica dell’interdisciplinarità. È stata una critica soprattutto di uno dei principi di governo della scienza sociale, la divisione tripartita della conoscenza in socio-culturale, politico, economico.

Wallerstein, e prima di lui Fernand Braudel, è stato sempre consapevole che questa critica si svolgeva sullo sfondo di ciò che C.P. Snow (1959) ha chiamato le “Due Culture” delle scienze umane e biofisiche. L’ecologia-mondo considera questa struttura duratura della conoscenza – le Due Culture – come una delle sue sfide centrali. Ho sostenuto che per quelli di noi che lavorano nelle università, dobbiamo essere “dentro” ma non “del” sistema accademico; dobbiamo rifiutarci di essere custodi delle discipline, le quali sono parte del problema. Rifiutandosi di vedere la “natura” come un componente aggiuntivo del “cambiamento sociale”, l’ecologia-mondo apre lo spazio a nuove forme di conoscenza che privilegiano l’unità differenziata degli umani nella rete della vita – compresa da più punti di vista e nelle sue forme emergenti (non lineari).

Naturalmente ci sono molte correnti intellettuali che stanno lottando con il problema delle Due Culture. Vorrei sottolineare il lavoro rivoluzionario di Rebecca Lave e dei suoi colleghi attorno alla “geografia fisica critica”, nonché la straordinaria tradizione di scienza dialettica associata a Robert M. Young, il compianto Richard Levins, Richard Lewontin e, più recentemente, Rob Wallace. Donna Haraway, Carolyn Merchant e altre brillanti pioniere nella scienza femminista e negli studi ambientali che hanno sfidato le Due Culture da una prospettiva diversa ma ugualmente significativa. L’ecologia-mondo impara da tutti questi movimenti.

Ciò che l’ecologia-mondo mette in primo piano in modo distintivo è il carattere storico-mondo di queste relazioni tra umani nella rete della vita. Non si dovrebbe “aggiungere” la natura alla classe, al colonialismo o al patriarcato. Piuttosto, ciascuno di questi grandi processi è co-prodotto nella e attraverso la rete della vita. Questo ci consente di mostrare come il capitalismo sia contemporaneamente produttore e prodotto della rete della vita.

Il libro Capitalism in the Web of Life è stato ispirato, in parte, dallo sforzo di sintetizzare due argomenti classici che sono apparsi alla fine del secolo scorso. Uno era il testo Marx’s Ecology (2000) di John Bellamy Foster. L’altro era il testo Marx and Nature di Paul Burkett (1999). Il libro di Foster ha aperto nuove possibilità per ripensare la geografia storica del capitalismo come relazione metabolica, che è stata un produttore e un prodotto di classe, capitale e impero. In Marx’s Ecology, Foster offre una potente concettualizzazione delle contraddizioni metaboliche del capitalismo, fondata sull’alienazione del lavoro e sulla divisione del lavoro tra città e campagna. Questo apre lo spazio a una delle preoccupazioni centrali dell’ecologia-mondo: sintetizzare le relazioni socio-spaziali del capitalismo con le sue contraddizioni metaboliche. Il contributo di Burkett è stato quello di rendere impossibile qualsiasi tentativo di pensare attraverso la “legge del valore” di Marx astratta dalle sue dimensioni biofisiche. Nessuno di questi testi era molto preoccupato della storia mondiale del capitalismo.

Questo non è un difetto per nessuno dei due testi. La storia mondiale non era necessaria per i loro rispettivi argomenti. L’intenzione chiave di Capitalism in the Web of Life era, quindi, duplice. In primo luogo, volevo basare la legge del valore su una contraddizione metabolica – qualcosa che Marx ha sempre fatto, riferendosi costantemente al lavoro umano come ad una “forza naturale”. In secondo luogo, speravo di mostrare come questo antagonismo si sia svolto attraverso la geografia storica del capitalismo dal 1492. In questo approccio, il metabolismo includeva flussi di corpi, potere e merci.

Trovo un po’ doloroso discutere la risposta di Foster a questi argomenti. Da un lato, come ho scritto molte volte, l’approccio delle frattura metabolica fu molto innovativo. Esso resta un’analisi di rilievo per la ricerca critica. Io non concordo pienamente con l’analisi della frattura; ma queste sono questioni di disaccordo amichevole. Dall’altro lato, John Bellamy Foster ha risposto alle mie critiche in un modo molto diverso. È un attacco volto a fare terra bruciata. Per Bellamy Foster, non essere d’accordo con Foster significa rifiutare Marx e abbandonare il materialismo. Una delle cose più tristi della risposta di Foster è stata la sua totale mancanza di interesse per il dialogo. Foster ha costantemente rifiutato gli inviti a discutere tali questioni, risalendo al 2008. Nell’autunno del 2015, circa nove mesi prima che mi denunciasse come amico dei negazionisti del clima, gli inviai una e-mail in cui sostanzialmente ho detto questo: è chiaro che ci sono significative differenze tra le nostre posizioni, e c’è il pericolo che possano sorgere non-dibattiti controproducenti, il tipo di non-dibattito in cui i marxisti parlano l’uno con l’altro e si attribuiscono ogni sorta di insulti. Allora, ho detto: organizziamo un dialogo in cui possiamo dare forza alle nostre differenze, ma anche elaborare un impegno condiviso per il socialismo e la giustizia planetaria. Finora, Foster ha scelto l’invettiva ad un dibattito tenace e ha rifiutato ogni singolo invito.

Ora, il mio atteggiamento è divenuto molto diverso. Ho elogiato Foster e gli approcci della frattura metabolica molte volte. Foster non finge neanche che l’ecologia-mondo in qualche forma abbia qualcosa di utile da dire (così, quando dico che Foster è un dualista, penso che ci siano delle prove di questo nelle sue modalità intellettuali e politiche. Per Foster, invece, “o sei con me o contro di me!”). La mia posizione è che la scuola della frattura metabolica non è sufficientemente dialettica, geografica e storica. Queste sono differenze serie. Ma esiste anche un impegno condiviso per i principi socialisti fondamentali di giustizia, uguaglianza e sostenibilità. La posizione di Foster è che io sono un nemico del socialismo. Questa è una modalità intellettuale che fa derivare differenze politiche fondamentali dalle nostre differenze analitiche. Si tratta di una tendenza con una storia sgradevole nei progetti socialisti del ventesimo secolo. Per me, invece, possiamo differire su questioni che riguardano Marx, l’economia politica e la storia ambientale e, tuttavia, essere ancora d’accordo sulla politica socialista.

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