Pubblicato nel 2021 all’interno del decimo numero della rivista El ejercicio del pensar su «Marxismi e femminismi», il testo di Natalia Romé pone al centro della sua riflessione la ricerca di una teoria della causalità femminista. Avvalendosi dei concetti di surdeterminazione e di transindividuale, l’autrice insiste sulla necessità di inscrivere il pensiero femminista nel campo della determinazione, necessario per l’articolazione delle differenze dentro le congiunture storiche concrete. Alla luce di questo articolo non si può non pensare a quanto il transindividuale si trovasse già al centro delle riflessioni critiche e decostruttive del Soggetto e della Storia e a come adesso abiti le pratiche di lotta femministe. Traduzione di Rosa Caramassi
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La pratica femminista della teoria
Senza dubbio, la principale conquista dei femminismi di questi ultimi anni, soprattutto in America Latina, è stata la singolare articolazione tra una serie di processi di lotta concreti (proteste di massa, trasformazioni pratiche all’interno delle nostre istituzioni e organizzazioni di base e territoriali) e un impulso di spontanea curiosità teorica (che eccede i quadri istituzionali stabiliti per la produzione e la circolazione del sapere).
Questa virtù, che pochi processi di mobilitazione politica attuali possono vantare, provoca una reazione che ne minaccia lo sviluppo, intrappolando la spinta emancipatrice dei femminismi in labirinti discorsivi, lotte inefficaci o controidentificazioni.
Questa reazione si nasconde spesso dietro l’accusa di ideologizzazione dei processi di conoscenza, ovvero l’utilizzo delle loro dinamiche universalizzanti a vantaggio di verità parziali. L’accusa più frequente, infatti, rimprovera la promozione di una «ideologia gender»[1].
Come si può notare da questo esempio, che non è il solo, la situazione attuale è caratterizzata da una controversia tra l’articolazione teorico-politica femminista e una reazione ultraconservatrice all’efficacia di questa articolazione dentro alla lotta ideologica. Si tratta di un intreccio la cui complessità può risultare alquanto insidiosa[2].
Da un lato, sappiamo che le possibilità di implementazione di una teoria femminista richiedono un’attitudine polemica e combattiva nel campo teorico. Sappiamo, noi femministe, che il nostro intervento avviene in un campo già dissestato, già tracciato da una storia di disuguaglianze e di silenziamenti. In questo senso, ogni elaborazione di un sapere femminista è un tutt’uno con un’operazione di critica, di lacerazione e di lotta.
In questo modo si rende visibile una politicità interna alle nostre teorie, che incorporano nei discorsi teorici una riflessione sulle condizioni di diseguaglianza della produzione teorica stessa. Tuttavia, se accettiamo una completa coincidenza tra sapere e potere, corriamo il rischio di accettare anche uno slittamento dei saperi femministi sul terreno della pura lotta ideologica, che è proprio ciò che costituisce una tattica discorsiva della reazione antifemminista. Se si concepisce – considerando la sua efficacia materiale nella lotta ideologica, che si manifesta con forza nelle reazioni che provoca – il pensiero femminista come una pura «visione del mondo» o un’ideologia, si finisce per cadere in un relativismo epistemologico che inficia la correttezza intellettuale e i fondamenti concreti di molte delle nostre rivendicazioni.
Per sfuggire a queste trappole occorre mantenere gli scarti, le non-perfette coincidenze tra queste dimensioni del pensiero (ideologiche, teoriche, politiche) e al contempo rendere pensabili le loro articolazioni. Di fronte a questa sfida, la storia delle riflessioni marxiste sulle connessioni tra conoscenza, critica e lotta politica e ideologica è di grande aiuto. Le strategie in questa situazione possono essere varie, tuttavia, affinché una qualche strategia sia efficace, è necessario prima un lavoro di riflessione che ci permetta di discernere, nella sua immanenza materiale, i diversi elementi del pensiero femminista[3].
In breve, la sfida è quella di rendere pensabile la condizione partigiana della teoria femminista non solo attraverso la sua storia, ma anche nei suoi fondamenti o ragioni filosofiche. Infatti, sebbene si possa trovare una significativa parte di pensiero femminista intento a mostrare che non esiste correttezza filosofica né produzione del vero (senza che prima si assuma che il campo teorico è già determinato e lo è in modo diseguale), non ci sono molti contributi che mettono in discussione queste osservazioni nella loro correttezza epistemica. Su questo preciso punto, i contributi del pensiero materialista della tradizione marxista offrono alcune categorie che non esauriscono ma permettono perlomeno di analizzare il problema. Mi concentrerò qui su due di esse.
Innanzitutto, il concetto di posizione proposto da Louis Althusser[4] (1972) nella sua lettura di Lenin. Pensare alle tesi teoriche come prese di posizione in un campo che è sempre già occupato implica assumere una certa politicizzazione delle pratiche teoriche, ma porta anche a rivedere il principio di scientificità. In questo senso, Étienne Balibar parla di sciences schismatiques a proposito di quelle in cui l’unità contraddittoria dei loro oggetti conferisce loro una condizione polemica costitutiva: «Les sciences schismatiques sont des sciences déterminées danno leur constitution (…) par la façon dont elles sont inscrites dans le conflit dont elles répresentent la connaissance»[5]. In questa caratterizzazione confluiscono, secondo Balibar, la teoria materialista della storia e la teoria psicoanalitica dell’inconscio. E per Althusser (1991)[6], entrambe sono teorie “cliniche”, ovvero orientate al singolare del caso: il reale-inconscio o il reale della storia, che nella loro articolazione permettono di pensare le leve ideologiche materiali (storiche e affettive) della riproduzione sociale.
Il secondo concetto, quello di teoria finita[7], mobilita l’assunzione della condizione limitata di ogni teoria, concepita come «una parte della natura» (e articolata con altre forme non teoriche del pensiero). Questo ci permette di pensare che ogni corpo teorico è il risultato di un’attività di separazione o allontanamento dalla congiuntura teorica (e storica) in cui esiste intrappolato e agente al tempo stesso.
Questo doppio principio, che concepisce la conoscenza come un processo pratico e conflittuale di trasformazione materiale in una congiuntura e la teoria come un concreto del pensiero (che è un corpo composito), offre un’articolazione unica tra teoria e storia. Il suo sfondo filosofico – profondamente materialista – solleva una domanda sui legami tra teoria, corpo e storia in una chiave che alcuni e alcune hanno sviluppato nei termini di un pensiero transindividuale[8]. La sua genealogia, pur mutuando la categoria da Gilbert Simondon, trova in Karl Marx una ragione ontologica relazionale come presupposto della sua teoria della storia, mostrandone così la trama anti-metafisica e materialista. Ricalibrando il legame di Marx con Hegel, a partire dal recupero del peso di Spinoza, Balibar postula la configurazione di un materialismo relazionale a partire dalla sesta tesi di Marx su Feuerbach, che permetterebbe una traduzione della questione dialettica nei dibattiti del XXI secolo.
“È significativo che Marx (che parlava francese quasi altrettanto correntemente del tedesco) sia qui andato a cerca re questa parola straniera «ensemble», manifesta mente per evitare l’impiego di das Ganze, il «tutto» o la totalità. (…) si tratta infatti di pensare l’umanità come una realtà transindividuale e, al limite, di pensare la transindividualità come tale. Non ciò che è idealmente «in» ogni individuo (come una forma o una sostanza), o ciò che servirebbe, dall’esterno, a classificarlo, ma ciò che esiste tra gli individui, per le loro molteplici relazioni.[9]”
L’idea di transindividualità come posizione ontologica implica la sostituzione della classica controversia sostanza/individuo con un’indagine sulla molteplicità delle relazioni che connettono gli individui in modo complesso e completamente diverso[10], come insieme aperto e multitemporale di «trasferimenti o passaggi nei quali si fa e si disfa il legame degli individui con la comunità e che, a sua volta, costituisce essi stessi»[11]. Questo apre una serie di considerazioni su una singolare oggettività che non può essere concepita se non come una relazione di relazioni in cui l’immaginario è parte della materialità concreta[12].
Verso una causalità materiale dell’inconscio e della storia nella riproduzione sociale
Nel campo degli studi femministi, soprattutto in quelli di tradizione marxista, si può rileggere la questione del transindividuale nella sua doppia valenza dialettica: come domanda di una causalità materialista capace di accogliere la complessa rete di connessioni che si stabiliscono tra determinazioni storiche e processi relazionali, soggettivi, affettivi e inconsci, ma anche come una domanda sulla condizione teorica del pensiero capace di rendere conto di questa complessità sia nel suo contenuto sia nella sua pratica, cioè nel suo rapporto effettivo con le lotte storico-politiche e le battaglie ideologiche.
In questo senso, è una grande vittoria del processo collettivo del pensiero femminista aver posto la questione della riproduzione al centro dei suoi ragionamenti.
Il tema della riproduzione costituisce un problema complesso perché la teoria è, in un certo senso, invischiata nel problema stesso. Se assumiamo una concezione più ampia di riproduzione sociale, dobbiamo accettare che la mole di saperi che si producono in una determinata formazione sociale intrattiene una relazione contraddittoria di immanenza materiale con la sua riproduzione. In questo senso, la teoria può essere pensata come il risultato di un’attività di separazione, demarcazione o distanziamento interno che deve essere compresa dialetticamente.
Per non porre il problema della riproduzione sociale come se potessimo collocarci in un rapporto di pura contemplazione (cioè di pura esteriorità – gli occhi di Dio –) rispetto a quei processi di riproduzione (e per non diventarne agenti inconsapevoli), abbiamo bisogno di una teoria femminista della storia[13] ancorata in una teoria della causalità. Quest’ultima dovrà accogliere (come nella nostra migliore tradizione dialettica) una teoria del tempo e della temporalità capace di pensare – nel doppio registro teorico e politico – la struttura e la congiuntura in chiave surdeterminata e transindividuale.
In parte, questo è ciò di cui si sta discutendo nel dibattito femminista, anche se in modo frammentato e sconnesso: nei femminismi marxisti riguardo a come pensare le relazioni tra capitalismo e patriarcato[14] o nei dibattiti sulle gerarchie tra le oppressioni, come la classica polemica tra Judith Butler e Nancy Fraser[15], oppure ancora nelle preoccupazioni di affrontare in modo efficace una questione che proviene dal femminismo materialista francese (tra l’altro di matrice spinoziana, psicoanalitica o postcoloniale) che, rifiutando la dicotomizzazione mente-corpo, pone l’accento sulle determinazioni corporee e altre dimensioni della singolarità del desiderio e degli affetti come un punto cieco delle teorie femministe-marxiste della storia. La connessione tra questi campi problematici è uno dei compiti fondamentali per lo sviluppo delle teorie femministe e la questione della riproduzione sociale si concentra su questo divario, proprio perché solleva la questione del legame tra struttura sociale e processi storico-congiunturali, con l’economia psichica e le singolarità corporee e affettive.
A proposito della questione delle articolazioni tra struttura e congiuntura, per esempio, si possono recuperare le obiezioni che Arruzza muove, da una teoria della storia, al concetto di temporalità assunto nella nozione di «performatività» di Butler[16]. Arruzza afferma, riguardo a Butler, che nella misura in cui il genere è compreso come tempo oggettivato, «tempo passato che perseguita il presente», in questa apparizione del «naturale» possiamo riconoscere la tipica inversione di causa-effetto caratteristica della reificazione come tale. Arruzza continua:
“La mancanza di un’analisi maggiormente dettagliata e storicamente più specifica delle relazioni sociali che reificano il genere ha condotto a una serie di fraintendimenti della sua [di Butler] posizione e, in particolare, a confondere la performatività con la consapevole esibizione del genere operata da un soggetto presumibilmente sovrano e libero[17].”
Ciò che Arruzza legge, in modo sintomatico, in Butler è che i processi di formazione del genere permettono di pensarlo come un dispositivo di de-storicizzazione della temporalità. I limiti della stessa teoria di Butler, però, lasciano un vuoto nel suo pensiero rispetto alle relazioni tra questa specifica temporalità e una concezione del tempo storico capace di pensare a quelle altre temporalità che convivono simultaneamente con la temporalità de-storicizzata del genere in una data congiuntura e la cui relazione permetterebbe di affrontare la questione delle “gerarchie” o almeno delle articolazioni tra diverse oppressioni.
Arruzza ci permette di sottolineare la necessità di ripensare le relazioni tra temporalità specifiche nel quadro di una teoria materialista del tempo e le distinzioni tra il concetto di tempo e quello di tempo storico. Questa teoria la trova in Marx: nella nozione di modo di produzione come «modo di organizzazione del tempo» o «economia del tempo».
La filosofa, quindi, inscrive la temporalità della gender performativity in una relazione immanente alla tendenza di de-storicizzazione della temporalità da parte del capitale, che dà forma a un tempo che è ciclico e dislocato[18]. Facendo questo, Arruzza individua in Butler anche il problema di un’indistinzione formalista e astratta tra una concezione strutturale della temporalità e una concezione capace di affrontare la condizione concreta del tempo storico in una determinata congiuntura. Ciò rivela una confusione tra tempo e storia che tende a dissolvere il problema della determinazione, cioè degli aspetti concreti e congiunturali in cui la struttura esiste nei suoi effetti, non in prima persona e come legge formale, ma come causa assente, spostata e surdeterminata[19].
Quello che si perde nell’astrazione di Butler sono i processi storici specifici nei quali opera la temporalità della gender performativity, che non è onnistorica e universale, ma deve essere collocata, secondo Arruzza, nei paesi a capitalismo avanzato. Con Silvia Federici[20], Johanna Brenner e Maria Ramas[21] (1984) si può anche aggiungere che questi processi di gendering binario e eteronormativo avvengono nel momento di consolidamento della matrice imperialista del capitalismo, nel XIX secolo, insieme al passaggio dal plusvalore assoluto al plusvalore relativo e in relazione con i processi sovrastrutturali che fecero emergere l’idea di «salario familiare», permettendo così la possibilità di comprendere le connessioni surdeterminate che definiscono i processi di riproduzione sessuata e razzializzata.
Ciò che emerge da questa breve analisi è che, sulla scia della svolta “anti-determinista” che ha segnato le tendenze culturaliste o politiciste della teoria critica, un certo femminismo degli anni Ottanta e Novanta si è liberato di un problema ancora prima che fosse posto chiaramente. Fortunatamente, oggi sta diventando più evidente la mancanza di una teoria femminista (non determinista) della determinazione che ci permetta di spiegare l’articolazione tra strutture e processi congiunturali di diversa portata, che si intrecciano e contribuiscono allo stesso effetto di oppressione surdeterminata. Processi eterogenei di natura economica, politica, culturale e persino affettiva, corporea e inconscia, la cui unità eterogenea deve essere pensata se vogliamo andare oltre il livello descrittivo delle nostre teorie. Come si può notare nelle discussioni tra Butler e Fraser[22], tutto ciò si ripresenta anche nella questione della gerarchia delle oppressioni. A questo proposito, è suggestiva un’idea avanzata da Lise Vogel[23], nella prefazione al volume di recente pubblicazione sulla teoria della riproduzione sociale di Tithi Bhattacharya, in merito alla nozione di intersezionalità.
Secondo Vogel, la possibilità di costruire ponti tra il femminismo marxista della teoria della riproduzione sociale e la teoria, non marxista, dell’intersezionalità dipende da un programma di lavoro che si fonda su due rifiuti. In primo luogo, rifiutare l’assunto che le diverse dimensioni della differenza – razza, classe e genere, per esempio – siano comparabili. In secondo luogo, si tratta di rigettare l’idea che le diverse categorie abbiano lo stesso peso causale. Il compito teorico sarebbe, a questo punto, quello di concentrarsi sulle specificità di ciascuna dimensione e di sviluppare una comprensione di come tutto si tenga – o non si tenga.
Questo programma di lavoro è, per come lo intendo, il programma di una teoria femminista della determinazione o causalità, capace di produrre ipotesi teoriche riguardo i principi della forma, la trama dell’unità dell’eterogeneo e le congetture analitiche sulle formazioni specifiche e singolari che assume questa unità nelle congiunture determinate. Questa capacità di lettura è tanto necessaria per l’analisi quanto per la politica perché, tra le altre cose, permette di pensare la gerarchia e le connessioni concrete (e non formali) tra le oppressioni.
Tuttavia, una domanda rigorosa sulla determinazione ci permetterebbe anche di affrontare una questione alla quale alludono le teoriche marxiste della riproduzione sociale, ma che non è ancora stata posta con precisione e completezza. Alcune questioni rimangono in sospeso tra le determinazioni storiche (relazioni sociali, formazioni ideologiche o politiche) e gli aspetti singolari della soggettività e degli affetti, dei corpi, della libido e dell’inconscio, la cui esistenza non è interamente storico-sociale, anche se ne è attraversata. È chiaro che le battaglie ideologiche di una strategia femminista consistono nell’affermare la determinazione sociale della soggettività, con un’enfasi fortemente costruttivista – affermando il carattere di «costrutto» degli archetipi e degli idealtipi di genere che si risolverebbero con una pedagogia femminista della “presa di coscienza” sociale. Sebbene questo discorso possa tatticamente portare all’apertura di alcuni dibattiti, c’è comunque un certo “salto” o impasse esplicativo che non permette di colmare il divario tra le trasformazioni economiche, culturali e politiche e la dimensione soggettiva e affettiva dei legami[24].
Anche questo rompicapo costituisce una domanda materialista sulla causalità riguardo a come si articolano in una congiuntura surdeterminata, aspetti così tanto eterogenei come i processi di sfruttamento, l’ordine giuridico e le dinamiche affettive. Sono dimensioni della vita sociale e umana con strutture, processi e dinamiche così differenti che risulta difficile comprendere la loro complessiva articolazione senza una teoria della complessità materiale e temporale di questi processi.
A questo proposito, i femminismi marxisti – e neanche le teorie femministe della riproduzione sociale – non hanno ancora attinto a sufficienza alla categoria di surdeterminazione intesa come chiave di lettura della matrice transindividuale e multitemporale in cui si incontrano marxismo e psicoanalisi. In questo senso, i contributi di Louis Althusser, Étienne Balibar, Michel Pêcheux, Monica Zoppi, Mara Montanaro, Rosemary Hennessy e Teresa de Lauretis, tra tanti/e, sono di grande importanza.
Per una conclusione precaria
Il concetto di surdeterminazione, che Althusser riprende da Freud per leggere la teoria della causalità materialista, offre i rudimenti per una dialettica irregolare e decentrata, che coniughi una concezione complessa della totalità sociale concreta con una concezione plurale del tempo e con un approccio transindividuale ai processi storici e psichici, senza avanzare presupposti ontologici umanistici né una filosofia della coscienza né un determinismo meccanicistico. Questo concetto può essere declinato nei termini di un materialismo transindividuale – come suggerisce Balibar – che disarma la dicotomia psiche-società, ma che va oltre la falsa soluzione di un “costruttivismo” della soggettività senza inconscio, basato su un ideale giuridicista del Potere. Inoltre, permette di interrogare le complesse connessioni tra ideologia e inconscio, affetti, corpo e relazioni sociali, discorso, fantasia, godimento e riproduzione sociale del capitale.
Questo materialismo transindividuale, critico nei confronti della metafisica della causalità espressiva, si propone come una teoria filosofica delle cause, che lo inscrive nel campo della determinazione. Dunque, non rinuncia alla questione dell’articolazione storica concreta, cioè alla gerarchia tra le differenze e le oppressioni singolari di ogni congiuntura. Senza un’ipotesi di questa gerarchia, non è possibile alcuna analisi concreta della congiuntura e, di conseguenza, nessuna strategia politica realistica.
Ciò è di grande importanza per le lotte femministe poiché le relazioni patriarcali attraversano il sociale e lo psichico al di là della forma cosciente (che è, si potrebbe dire, un principio di individuazione che si sposa bene con la logica pratica del capitalismo – anche se oggi sembra essere in crisi). Tuttavia, nell’ambito del pensiero politico femminista, prevale ancora un programma critico basato quasi esclusivamente sulla teoria umanistica dell’alienazione, che intende la battaglia ideologica come «presa di coscienza». Questa prospettiva, da un punto di vista materialista, organizza il problema all’interno dello stesso mondo di senso dell’idealismo dominante – e della metafisica espressiva che Marx ha contestato nelle sue Tesi su Feuerbach – articolato con il principio dell’individuazione umanistica, inseparabile dalle relazioni capitalistiche.
Contro questo rischio idealista, il materialismo transindividuale dispiega un antiumanesimo teorico che offre le coordinate critiche dell’umanesimo idealista, senza pretendere di essere il suo «altro», ma situandosi piuttosto come attività conflittuale e scismatica di continua disgiunzione e decentramento; partendo dall’idea che il principio dell’identificazione umanista deriva da un processo ideologico di unificazione che resiste a pensare la “natura umana” in modo transindividuale e come parte di una natura infinitamente complessa e processuale. La concezione transindividuale permette di collegare il concetto di contraddizione surdeterminata con quello di inconscio e la riproduzione sociale con l’economia affettiva e libidica.
Come è stato mostrato da Marx a Foucault, e soprattutto dagli studi postcoloniali e il marxismo del Sud del mondo, il rifiuto dell’Uomo come centro e misura della storia e come principio di differenziazione dal mondo naturale oggettivato si intreccia profondamente con il rifiuto di una concezione teleologica del tempo, pensato come contemporaneo a se stesso e nella successione di presenti nella forma di una totalità spirituale omogenea.
In questo senso, l’orizzonte teorico di un materialismo femminista è quello di un processo incompiuto di individuazione della rete di relazioni surdeterminate, capace di orientarsi nell’attuale crisi dell’alleanza tra capitalismo imperialista e umanesimo e fornire una teoria della causalità surdeterminata che cerchi di andare oltre gli approcci meramente descrittivi del presente e faccia spazio alla resistenza di un’etica del singolare, che assuma la vita inconscia (desiderio, godimento e fantasia) come parte dell’esperienza umana, e all’attualità delle lotte politiche nelle quali si annida, nella necessità strutturale, l’opportunità necessaria di una contingenza surdeterminata.
NOTE
[1] Espressioni di questo tenore si possono leggere, ad esempio, in Lexicon. Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche (2003), con una prefazione del cardinale López Trujillo, al tempo presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia. La voce sul «genere», come approfondito da Verónica Gago, è scritta dalla teologa Jutta Burggraf, la quale evidenzia un’affinità «tra l’ideologia gender e una antropologia individualista del neoliberismo radicale» che risale ai contributi di Judith Butler, Engels, Simone de Beauvoir e della scuola di Francoforte, allo scopo di individuare il bersaglio della minaccia ideologica nella natura umana e nella famiglia come nucleo di riproduzione eteronormata, V. Gago, La potencia feminista. O el deseo de cambiarlo todo, Tinta Limón, Buenos Aires, 2019, pp. 211-212.
[2] Questo schema si ripete in diversi campi di lotta delle sinistre e mostra fino a che punto la tattica dell’iper-rappresentazione delle minoranze conservatrici svolga il ruolo politico di collocarsi a destra delle attuali posizioni neoliberiste, spostando così l’agenda del dibattito verso un estremismo reazionario impensabile solo pochi decenni fa.
[3] Qualsiasi corpo di pensiero costituisce un’articolazione di elementi eterogenei (ideologici, teorici, politici) ed è opportuno non confonderli, perché ogni dimensione svolge una funzione diversa nelle pratiche sociali: la produzione teorica produce effetti di conoscenza di ciò che effettivamente è o è stato; le pratiche ideologiche producono effetti di interpellazione o commozione affettiva e gli elementi politici (intesi in senso radicale) puntano al di là dell’esistente, verso il margine irrappresentabile del pensiero e della congiuntura. Un’operazione di discernimento tra questi elementi è necessario proprio per poter pensare alle forme della loro articolazione. Questo compito, tuttavia, deve ancora essere svolto.
[4] L. Althusser, Lénine et la philosophie suivi de Marx & Lénine devant Hegel, Maspero, Paris, 1972.
[5] É Balibar, Écrits pour Althusser, La Découverte, Paris, 1991, p. 81.
[6] L. Althusser, L’unique tradition materialiste, in «Lignes», n. 8, Paris, 1993, pp.72-119.
[7] L. Althusser, Solitude de Machiavel, PUF, Paris, 1998, pp. 281-294.
[8] Cfr. É Balibar, Spinoza politique: le transindividuel, PUF, Paris, 2018; M. Combes, Simondon, individu et collectivité: Pour une philosophie du transindividuel, PUF, Paris, 1999.
[9] É Balibar, La filosofia di Marx, Manifestolibri, 1994, p. 46.
[10] Il transindividuale si basa sulla confutazione simultanea di due posizioni filosofiche classiche sulla questione dell’essere: «quella che vuole che il genere, o l’essenza, preceda l’esistenza degli individui, e quella che vuole che gli individui siano la realtà primaria, a partire dalla quale si ‘astraggono’ gli universali» Ivi, p. 37. Ciò che, invece, caratterizza l’esistenza umana sono le «relazioni multiple e attive che gli individui stabiliscono gli uni con gli altri (…) e il fatto che sono queste relazioni che definiscono ciò che essi hanno in comune», Ivi, p. 45.
[11] Ivi, p. 47.
[12] Di questo tema mi sono occupata in modo più approfondito in N. Romé, Althusser con Spinoza. Hacia una ciencia revolucionaria, in «Nuevo Itinerario: Spinoza y el spinozismo contemporáneo», 144, n. 16 (1), 2020, pp. 143-175.
[13] Che deriverà dalla critica e dallo svelamento delle relazioni storiche patriarcali, ma sarà anche inseparabile dallo sviluppo di una posizione femminista sul piano teorico.
[14] Cfr. C. Arruzza, Dangerous Liaisons: The Marriages and Divorces of Marxism and Feminism, Merlin Press, London, 2013.
[15] Cfr. J. Butler, Merely Cultural, «Social Text», 52/53, vol.15, N. 3-4, 1997, pp. 265-277; N. Fraser, Fortunes of Feminism from State-Managed Capitalism to Neoliberal Crisis, Verso Books, London, 2020.
[16] Cfr. J. Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, London-NY, 2006; Id., Bodies That Matter: On the Discursive Limits of Sex, Routledge, London-NY, 2011.
[17] C. Arruzza