Carlo Crosato ha recentemente pubblicato per Orthotes Editrice “Critica della sovranità. Foucault e Agamben” (2019). Riceviamo e volentieri ne condividiamo un estratto, ringraziando autore e casa editrice.

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Nell’introduzione a L’uso dei piaceri, secondo volume della sua storia della sessualità, Foucault annota: «Gli studi che seguono, come altri che avevo intrapreso precedentemente, sono studi di “storia” per il campo che investono e i riferimenti che assumono; ma non sono lavori di “storico”. […] Sono – se si vogliono considerare dal punto di vista della loro “pragmatica” – il protocollo di un esercizio che è stato lungo, brancolante, e che ha avuto spesso bisogno di ricominciare da capo e di correggersi». Già durante la prima lezione del corso Sicurezza, territorio, popolazione, con lo stesso spirito aveva affermato di non praticare né la storia, né la sociologia, né l’economia: «Quel che faccio […] è piuttosto qualcosa che in un modo o nell’altro per semplici ragioni di fatto, è vicino alla filosofia, cioè alla politica della verità». La filosofia è definita politica della verità: un’attività che, in un’intervista dello stesso anno, aveva definito come «politica immanente alla storia» e «storia indispensabile alla politica»; un intreccio che, mediante l’uso di finzioni, permetta di produrre effetti di verità, lasciando trasparire – con le parole di un’altra intervista ancora del ’77 – una «storia a partire da una realtà politica che la rende vera», ma anche «una politica che non esiste ancora a partire da una verità storica». Due anni dopo, in un’intervista del 1979, aveva confermato: «Io non sono propriamente uno storico. Né sono un romanziere. Io pratico una sorta di finzione storica». Da parte sua, Agamben, incalzato sul valore storico delle sue riflessioni intorno al campo di concentramento, approfitta per chiarire lo statuto dei suoi studi e del loro avanzare alla ricerca di immagini paradigmatiche: «Io non sono uno storico. Io lavoro con i paradigmi. Un paradigma è qualcosa come un esempio, un esemplare, un fenomeno storico singolare».

[…] Foucault, completando la propria precisazione, nell’84 scrive che il suo è sempre stato «un esercizio filosofico: la posta consisteva nel sapere in quale misura il lavoro di pensare la propria storia può liberare il pensiero da ciò che esso pensa silenziosamente e permettergli di pensare in modo diverso». E, in modo analogo, nel ’79 aveva così descritto la propria missione: «Io cerco di provocare un’interferenza tra la nostra realtà e ciò che sappiamo della nostra storia passata. Se ci riesco, questa interferenza produrrà degli effetti reali sulla nostra storia presente. La mia speranza è che i miei libri acquistino la loro verità una volta scritti, non prima». È dunque un lavoro critico e filosofico; e lo stesso si può riconoscere nelle parole di Agamben, quando afferma l’intenzione di usare paradigmi «per costruire un largo gruppo di fenomeni e al fine di comprendere una struttura storica». In che senso è declinata una simile prospettiva critica?

[…] Innervando l’analisi storica di un afflato critico tipicamente filosofico e dando dinamismo all’interrogazione filosofica al di là del fissismo categoriale o della linearità dialettica, in altri termini superando il confine “scolastico” che separa il lavoro dello storico da quello del filosofo, Foucault osserva la ragione nel suo moto autocreativo e, in fin dei conti, insensato. Già dai suoi primi passi, l’archeologia foucaultiana era nata con la pretesa che si possa fare a meno di qualsiasi universale, ma anche di qualsiasi polo trascendentale – ivi compresa la soggettività, la coscienza – cui far riferimento per decretare il senso di una evoluzione storica, per giudicare se gli eventi seguano un qualche percorso progressivo o se la storia abbia deragliato, pervertendosi. […] L’ambizione già negli anni Sessanta era di dimostrare che si può «districare così il divenire dalla ragione» intesa come indice di soggettività che guida la storia: ciò che resta è dunque la ragione nel suo manifestarsi, nel suo autoprodursi – nietzscheanamente – gratuito. Non c’è nulla fuori del discorso, nulla a promuoverlo né ad attirarlo; e ciò che va reso visibile non è un qualche legame causale lineare, bensì la trama che organizza il disporsi dei discorsi, il loro tendersi. Nessuna verità a legittimare o a guidare il corso storico: se di verità si deve parlare, essa coincide con le geometrie discorsive ed è declinata nel gioco di potere della “veridizione”. Solo una simile ricerca, lontana da qualsiasi categorizzazione trascendentale, salva rispetto al rischio di arenarsi nell’opposto nichilismo.

Analoghi motivi percorrono i decenni di lavoro foucaultiano, fino a tornare nella tematizzazione, negli anni ’83 e ’84, dell’illuminismo come estrema interrogazione della ragione su se stessa. Aprendo la lezione del 5 gennaio 1983, Foucault usa l’espressione, non priva di ambiguità, “ontologia dell’attualità”, creando un singolare cortocircuito tra la dimensione ontologica e quella storica del presente. Si tratta di un’espressione che è, a ben vedere, la contrazione di “storia delle ontologie della veridizione”, struttura che sta alla base di quel progetto di una storia del pensiero che guida l’attività di Foucault presso il Collège de France: non una descrizione delle positività per quello che esse sono, quanto invece la definizione del campo di saperi, di forze, di eventi che le hanno rese possibili, che le hanno fatte emergere. […] Al filosofo che chiedeva conto delle sue categorie nella dispersione degli enunciati e nell’avversione per il funzionamento delle teorie, Foucault ha risposto con l’analisi archeologica dei sistemi discorsivi e della veridizione che li polarizza, ossia con l’osservazione di ogni discorso e di ogni teoria come monumento; ora, allo storico che, leggendo le sue inchieste sulla follia, sulle carceri e il sistema penale, sulla disciplina e sulla sessualità, sulla governamentalità e sul soggetto, gli chiedesse che ne è della verità del discorso storiografico, Foucault risponde – ora con un piglio più weberiano che nietzscheano – che, certo, può darsi che ciò che si ritrova nelle sue genealogie non sia il vero, e che questo avviene non banalmente perché non vi è verità, ma perché la genealogia è la pratica di una finzione storica, […] una trasformazione che, lungi dal voler rappresentare in modo fedele e inattaccabile il passato, disloca la materia e gli oggetti indirizzando lo sguardo verso il futuro. Ed è in questo senso che Foucault conclude con la già citata frase, per cui i suoi libri accendono una fiamma che illumina non il passato, quanto il futuro; è lì che essi trovano la loro verità, nel senso di una verità folgore che taglia la verità-cielo, o, altrimenti, nel senso di una contrazione critica del tempo, capace di trasformare e gettare nuova luce sul tempo cronologico. Ed è in questo senso che il soggetto può giocare la propria libertà non come un nudo dato, bensì come l’esito di una serie di tecnologie da osservare criticamente e nel cuore delle quali tracciare nuovi percorsi possibili. […] A una presunta verità oggettiva storica, la critica sostituisce una verità che, irrompendo nel passato come un lampo, riesca a trasformare il presente, contraendo la materia storica e “fingendovi” una risposta per l’oggi.

Si comprende a questo punto il massimo punto di accordo tra il lavoro foucaultiano e quello agambeniano, il primo di tenore nietzscheano e weberiano, il secondo di ispirazione certamente benjaminiana ma anche schiettamente nietzscheana. Un motivo nietzscheano analogo a quello mediante cui Foucault si affaccia sul tema della storia è facilmente riscontrabile, in primo luogo e in maniera particolarmente esplicita, nella lezione con cui Agamben inaugura il corso di Filosofia Teoretica dell’anno 2006-2007 presso lo Iuav di Venezia. In quell’occasione, in una riflessione centrata sul senso del lavoro intellettuale, il riferimento alla seconda “considerazione intempestiva” orienta uno sguardo sul tempo che corrisponde già a una presa di posizione rispetto al presente. È la irrevocabile consapevolezza di appartenere al proprio tempo, di non potervi sfuggire, a collocare l’intellettuale nel proprio presente mediante una leggera sconnessione: appartenenza non è, perciò, il totale assorbimento del pensatore nelle categorie che informano la cultura in cui si trova, quanto invece la capacità di collocarsi in una sfasatura, di operare una torsione, di assumere su di sé una specie di inadeguatezza; è tale scarto che gli permette di assumere se stesso come appartenente al proprio tempo e, al contempo, come in grado di porre questione del proprio tempo.

Ciò che, allora, sia Foucault sia Agamben, grazie alla lettura di Nietzsche, pongono come motivazione della propria attività non è l’aderenza completa e fedele al presente come effetto di una catena causale lineare, quanto invece il presente come problema da assumere in piena consapevolezza, con la coscienza critica di chi, collocandosi in uno scarto col proprio tempo senza davvero trascenderlo, lo può guardare e porre in questione. Il rapporto con il passato che, in questo minimo anacronismo, si rende possibile assume il proprio valore di verità nel presente, nel tempo in cui Foucault spera che i suoi libri irrompano e agiscano politicamente, nel tempo, non meramente cronologico, che Agamben chiama “tempo dell’ora”. In una lezione tenuta all’Accademia di Architettura a Mendrisio, Agamben puntualizza: «Come ha suggerito Michel Foucault, l’indagine del passato non è che l’ombra portata di un’interrogazione rivolta al presente».

La postura critica assunta dai due pensatori pare vicina, stanti le evidenti specificità, anche nella considerazione della cronologia. L’idea foucaultiana di sottrarsi alla disposizione ordinata degli eventi tipica di una storiografia un po’ scolastica, di trasformare, attraverso una “finzione”, la materia storica, contraendola in una prospettiva che assume come punto di fuga l’urgenza del presente, pare soggiacere anche all’idea non banalmente cronologica dell’“ora” agambeniano. Quest’ultimo, infatti, nel 1978 è descritto da Agamben come momento cairologico, distinto dalla definizione tradizionale che intende l’istante come concetto limite compresso entro la continuità di infiniti altri istanti. E però, la descrizione del «tempo della storia» che Agamben offre, come occasione «in cui l’iniziativa dell’uomo coglie l’opportunità favorevole e decide nell’attimo della propria libertà», introduce l’attività libera in una dimensione di salvezza, di redenzione affatto estranea al pensiero foucaultiano. E lo stesso si deve riconoscere riguardo alla mossa con cui i due filosofi si sottraggono alla cronologia storiografica: Foucault si svincola mediante una operazione genealogica invero presente anche in Agamben, sebbene il significato di cui quest’ultimo la carica mediante categorie come quella del kairos, concorra a qualificare l’abbreviazione e la contrazione non tanto come una finzione intellettuale, quanto invece come una vera e propria fuoriuscita dal tempo, come un compimento della storia.

Proprio quest’ultimo fondamentale aspetto non va trascurato, dal momento che ha molto a che fare con le differenti vie di emancipazione immaginate dai due pensatori. […] Se la prima questione foucaultiana è inerente a cosa sia un soggetto e a come il potere lo produca insistendo sull’uomo, la prima questione agambeniana concerne che cosa sia l’uomo e il modo in cui il potere circoscrive il dominio dell’umano da quello del non umano, l’insieme che può assumere una qualche forma da quello sempre da conquistare del non umano. Così, per Foucault, la strada di una certa liberazione è calcabile mediante l’irruzione nelle geometrie date di un’incoerenza, di un gesto inopportuno che il soggetto è capace di operare tagliando la storia con una finzione critica e sfruttando le sporgenze non vincolate alla presa multiforme dei dispositivi; per Agamben, invece, si tratta di un momento più globale, un movimento che non riqualifica solo il soggetto, ma mette in questione la stessa definizione di uomo, un gesto di riconquista di una vita integrale e non più scissa dalla presa disposizionale, e dunque non un momento di battaglia millimetrica o microfisica, quanto invece una sospensione che contrae l’intera storia dell’uomo fino al compimento del tempo stesso.

Può essere interessante notare come questo smarcamento dalla prospettiva storiografica venga descritto dai due con la metafora della luce. Un cono di luce che orienta l’inquietudine foucaultiana nell’illuminazione di quelli che Weber avrebbe detto unbequeme Tatsachen, di quei fatti imbarazzanti e trascurati dalla frizione dei quali si origina la scintilla della verità-folgore, ossia quel lampo che taglia il tempo della storia mediante un tempo filosofico. In modo analogo, seppure qui in senso benjaminiano, la luce che Agamben ambisce a gettare sulla storia, sul presente ancor più che sul passato, è quella che illumina gli angoli più reconditi e dimenticati, gli elementi del presente polverosi e trascurati, ma dai quali soli può giungere una risposta all’urgenza avanzata dal presente. In entrambi i casi, con le notevoli differenze di cui si è detto, si tratta di un rapporto col presente che contrae il tempo cronologico, al fine di incorporare i momenti più infimi e bui lasciati da parte dalla storiografia: è quel buio, scrive Agamben, che il contemporaneo percepisce come «qualcosa che lo riguarda». Si tratta di un’analogia, però, che nasconde una sottile differenza: se per Foucault, lo sguardo critico illumina anche aspetti imbarazzanti per avere una prospettiva più completa del campo di eventi in cui operare la propria scelta e, poi, la propria scelta d’azione alternativa, per Agamben si tratta di una mossa intimamente ontologica che recupera la realtà, scissa dal gesto metafisico fondamentale, nella sua integralità, per redimerla dal rapporto con la relazione e da una decisione che la limita e le impedisce di compiersi.

Con Agamben e grazie alla sua idea di un’origine coestensiva al tempo presente, lo sguardo critico si colloca nella contemporaneità, non regredendo a un passato remoto, «ma a quanto nel presente non possiamo in nessun caso vivere e, restando non vissuto, è incessantemente risucchiato verso l’origine, senza poterla mai raggiungere». Il colpo di sonda gettato dall’archeologo agambeniano, perciò, non apre l’osservazione del passato all’occhio dello storico, quanto invece osserva il presente, facendosi largo tra gli eventi accaduti, quelli visibili da tutti e spontaneamente considerati come tutto ciò che c’e, per giungere a interrogare quegli elementi originari, non vissuti perché strutturalmente sottesi al vissuto. Il presente viene “possibilizzato”, facendo riemergere quelle trame sommerse che sostengono l’attualità: la potenza inespressa si presenta così come integralità del reale, riconquistando la quale si prefigurano nuove possibilità. È il non vissuto, struttura sempre presupposta e perciò mai tematizzata, l’origine, alla ricerca della quale il tempo si contrae, abbreviandosi e aprendo una prospettiva inedita – originaria appunto – sul reale. Una prospettiva originaria la cui piena assunzione costituisce una contrazione tale del tempo da rappresentare una sua realizzazione compiuta.

Del tutto assente, invece, in Foucault e nella sua scansione storica il motivo di una possibile realizzazione del tempo o di una critica caratterizzata in senso così ontologicamente radicale da segnare il punto apicale e definitivo della problematizzazione. L’archeologia foucaultiana si pone alla ricerca di formazioni discorsive, delle geometrie che legano gli elementi di superficie, elementi così prossimi, così immediati, così legati a noi «che per questo non li percepiamo»: malgrado il nome, non è uno scavo nel non detto, ma la messa in prospettiva delle relazioni che vincolano il detto, le trame discorsive con le proprie regole di coerenza e di veridizione. Il genealogista, poi, dà dinamismo a queste disposizioni, anche introducendo l’interesse per le relazioni di potere e per le istanze governamentali che regolano l’operatività di tali discorsi: il raggio di luce che folgora la messe di eventi storici è già di per sé una scelta prospettica di chi osserva, una finzione a partire dall’urgenza del momento presente, inteso non come l’emergenza ontologica i cui presupposti rimangono ignoti allo sguardo comune, quanto invece come l’emergenza di una serie di lotte, di scontri, di confronti, rilevando i quali si evidenzia la storicità e, perciò, la contingenza dello status quo.

L’intento che guida l’archeologia di Agamben, di reperire l’origine coestensiva e nascosta al fondo dell’evento positivo presente, può essere descritta come l’iniziativa di sottrarre la realtà al movimento di scissione tipico della metafisica, per riconquistare, oltre alla materia vissuta, l’“antimateria” potenziale del non vissuto, al di qua della distinzione tra particolare e universale. Gli elementi che la critica foucaultiana seleziona, invece, non coincidono mai con l’intera realtà, ma ne costruiscono una forma pertinente con l’interrogazione avanzata dal presente […]. Non si tratta, dunque, di una tematizzazione che contrae il tempo per reperire l’intera sua potenzialità originaria, quanto invece di una conoscenza sempre situata, che muta in base alla collocazione del punto di vista presente da cui riceve il proprio significato, finalizzata al coglimento di quella “frattura” nel reale, di quei punti di rottura che aprono spazi di libertà; quella foucaultiana è un’ontologia dell’attualità – più che del presente – al servizio delle pratiche di libertà, perché, creando interferenze sull’attuale, si possa prendere posizione e creare effetti reali. Laddove Agamben cerca nel presente un varco per contemplare il compimento del tempo, Foucault cerca fra le screpolature del reale un terreno d’azione possibile, per il “divenire altro” dato l’attuale.

Sono questi i significati della frase, ripetuta sia da Foucault che da Agamben, secondo cui essi non sono degli storici. Ed è questa la postura con cui essi si affacciano sulla sovranità: con le peculiarità appena definite, essi affondano i piedi nel presente e dal presente interrogano gli oggetti della loro critica. «Bisogna optare per una filosofia critica che si presenterà come una filosofia analitica della verità in generale, oppure come un pensiero critico che assumerà la forma di un’ontologia di noi stessi, di un’ontologia dell’attualità». […] Un’ontologia dell’attualità e un’ontologia di noi stessi, dunque, che non persegue una figura essenziale dell’uomo e della storia, quanto invece si impegna nell’osservazione di ciò che c’è, nella sua concretezza, nella sua storicità e nella sua contingenza. Ciò chiarisce anche il rifiuto della teoria della sovranità e le mosse anti-hobbesiane, come distacco da una prospettiva che deduceva in termini di scienza moderna lo Stato da un soggetto ideale astrattamente considerato.

Da parte agambeniana, invece, troviamo una mossa dalle ambizioni ontologicamente più profonde, essendovi l’intenzione di liberarsi non solo dall’universale moderno, ma proprio della dicotomia tra universale e particolare esito della scissione fondamentale della metafisica. […] L’evento che genera lo Stato, come comunità sovranamente istituita mediante l’esclusione di ciò che è altro, è osservato fin dagli albori del nostro pensiero, in quel meccanismo metafisico che, facendosi antropogenetico, qualifica già da sempre la politica come sovrana decisione sulla dimensione biologica dell’uomo.

Che si tratti del tentativo di sfondare la cortina strategicamente alzata dal pensiero scientifico moderno, per tagliare la storia, narrata in modo così piano e pacificato dalla storiografia, con un raggio di luce capace di illuminare il conflitto tra differenti volontà agonisticamente contrapposte, o che si tratti della ricerca dell’origine metafisica di una scissione, rispetto alla quale cercare di riconquistare l’integralità della realtà al di là della decisione sovrana che, in politica così come in ontologia, definisce i confini dell’esperienza, in entrambi i casi ciò che si ha, a riguardo del tema che ci sta qui a cuore, è una prospettiva estremamente critica rispetto alla modernità e alle sue innovazioni in ambito politico. Se nel caso foucaultiano abbiamo un vero e proprio rifiuto degli universali della sovranità – che viene dunque intesa come evento storico prima che come modello teorico –, dello Stato in senso moderno e, prima ancora, del soggetto tradizionalmente inteso, un rifiuto che rappresenta l’unica premessa per raggiungere la realtà concreta, la sua superficie innervata da campi di forza, da linee di tensione, da punti di frizione, non meno impegnativo, perché ontologicamente più radicato, è l’invito avanzato da Agamben ad abbandonare, o quanto meno a ripensare da capo, le categorie «che stanno al centro della nostra tradizione politica» e che tuttavia oggi non hanno «più nulla a che fare con ciò che questi concetti designavano».

È un rapporto problematico con la storia dei concetti moderni, dunque, quello che le imprese storiche ma non da storici, filosofiche ma prima di tutto critiche, di Foucault e Agamben ci consegnano.

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