Storia di Carlo Saronio, ovvero di come egli sia stato rapito e ucciso dal suo amico Carlo Fioroni. Osservazioni critiche al volume Quello che non ti dicono pubblicato a firma di Mario Calabresi (Mondadori, collana Strade blu, ottobre 2020)

Dato il tempo trascorso è bene, a beneficio dei più giovani, riassumere la vicenda, terribile, degna della penna di un Balzac o di un Conrad. Carlo Saronio (1949-1975) era un giovane ricercatore, intelligente e brillante, figlio (non unico, aveva due sorelle) di Piero, un ricchissimo, affermato, potente industriale del settore chimico, morto nel 1968. Come si può intuire i genitori, cresciuti nel ventennio fascista, non simpatizzavano certo per i partiti di sinistra; sostenevano, convinti, le ragioni della loro classe di appartenenza. Carlo, pur se nato nell’agiatezza (o forse anche per questo), era sensibile ai temi sociali, prima nel mondo cattolico, subito dopo entrando nel gran mare della contestazione milanese, quella del ’68. E così diventò un militante, nell’area dell’autonomia; al tempo stesso continuò a coltivare, con passione, la ricerca presso il Mario Negri, con una bella esperienza anche all’estero, negli Stati Uniti. In quegli anni il visto d’ingresso negli U.S.A. veniva rilasciato dopo attenti controlli, spesso negato ai comunisti, sia a quelli tradizionali sia, a maggior ragione, a quelli radicali. Anche per questa ragione (oltre che per questioni di opportunità nei rapporti con la famiglia) Carlo Saronio cercava di mantenere la sua scelta politica dentro un ambito di riservatezza. Potere Operaio si era sciolto nel 1973, dopo la Conferenza di Rosolina; a Milano gli operaisti del gruppo si erano legati al Gramsci, l’area dell’autonomia pubblicava la rivista Rosso. Carlo era dentro quest’attività politica, insieme ad alcuni compagni provenienti dai settori della borghesia lombarda: ad esempio Mauro Borromeo (funzionario dell’Università Cattolica), Caterina Pilenga (RAI, poi moglie dello scrittore Consolo), Franco Gavazzeni (figlio del celebre musicista classico).

Carlo, Fioroni, aveva preso una strada diversa, legandosi alle strutture clandestine di Giangiacomo Feltrinelli e per questo incontrando qualche guaio giudiziario. Carlo Saronio, con grande generosità, lo aveva aiutato, nascondendolo in casa propria, nel palazzo di famiglia e nelle abitazioni di vacanza. Gli diede anche qualche soldo. Ma a Fioroni non bastava. Decise di rapirlo, per chiedere un riscatto; e mise in opera un piano folle, insieme ad una squadra di delinquenti. Era il 14 aprile 1975, di notte. Andò tutto storto. La vittima morì subito, per via del narcotico usato senza la minima attenzione, in modo sconsiderato. Fioroni non volle mollare la presa, per convincere la famiglia che il giovane era in vita usò quanto sapeva grazie alla protezione ricevuta in passato; e il 9 maggio 1975 mise le mani su 470 milioni, che divise con i suoi complici. Dopo aver nascosto 67 milioni in una bombola di gas per auto (in banconote da 100.000 lire che erano state ovviamente registrate per poterle rintracciare) Fioroni andò a Bellinzona per cambiare la valuta, accompagnato dalla sua ultima compagna, Maria Cristina Cazzaniga. La coppia si fece subito notare per il comportamento stravagante (contavano i soldi in una panchina, incuranti degli occhi svizzeri posati su di loro) e inevitabilmente il viaggio finì con l’arresto e l’estradizione (la Cazzaniga e il loro autista, tale Prampolini se la cavarono con poco, solo favoreggiamento, 15 mesi, uscendo di scena a buon mercato, senza ricorrere contro la condanna, avvalendosi pure dell’amnistia). Al processo di primo grado, nel 1976, Fioroni prese 27 anni di reclusione, i suoi complici 30 (De Vuono) e 25 (Casirati) anni. Fecero appello. Nel frattempo il Casirati, latitante in Venezuela, cercò di estorcere alla famiglia altro denaro in cambio dell’indicazione necessaria a ritrovare il corpo della vittima; ottenne solo di essere rintracciato e riportato in Italia grazie all’estradizione. Nel dicembre del 1979 Carlo Fioroni, assistito dall’avv. Marcello Gentili, chiede di essere sentito nell’ambito dell’inchiesta “7 aprile”; afferma di aver progettato il sequestro per finanziare l’attività politica clandestina dell’autonomia operaia, indica quali complici, consapevoli e consenzienti, del rapimento una nutrita serie di militanti, fra cui ovviamente l’immancabile Toni Negri. A ruota si unisce il Casirati, che consente finalmente di ritrovare il corpo, per rafforzare la collaborazione. I giudici dell’appello credono al loro pentimento e riducono la pena: per Casirati e Fioroni sono dieci anni, il secondo lascia il carcere di Matera nel 1982, ottiene il passaporto, si trasferisce con una nuova identità (Giancarlo Colombo) in Francia, non più rintracciato, assente volontario dal processo romano del “7 aprile”. Per il sequestro di Carlo Saronio, sulla base delle dichiarazioni dei due pentiti, furono condannati in primo grado, 12 giugno 1984, Toni Negri (30 anni), Egidio Monferdin, Gianfranco Pancino (25 anni), Silvana Marelli (21 anni). Ma in data 8 giugno 1987, in appello, la decisione fu annullata, con il proscioglimento pieno dei quattro imputati, su conforme richiesta della stessa procura, rappresentata da Hinna Danesi. Le interessate dichiarazioni dei due assassini furono ritenute inattendibili. E il 4 ottobre 1988 la prima sezione della Cassazione confermò l’estraneità dei militanti di autonomia, ribadendo che gli unici responsabili del sequestro di Carlo Saronio erano Carlo Fioroni e il gruppo di banditi che aveva assoldato. Esclusa la parte recuperata in Svizzera del riscatto residuo si è persa traccia. Casirati e De Vuono (gli esecutori) sono morti (1991 e 1984); Fioroni è sempre rimasto in Francia.

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Quarantacinque anni dopo, nell’ottobre 2020, il giornalista Mario Calabresi ha ricondotto alla ribalta della cronaca questa ormai dimenticata vicenda, pubblicando un volume per Mondadori, con un titolo intrigante: Quello che non ti dicono. All’autore va riconosciuta una certa abilità espositiva, frutto di una non breve esperienza giornalistica.

La storia della famiglia Saronio è davvero romanzesca. Non solo per la costruzione di un vero e proprio impero nel settore dell’industria chimica, ma anche per la rapida decadenza, con la sostanziale dissoluzione dell’intero patrimonio a seguito di investimenti sbagliati. Soprattutto per il colpo di scena: la giovanissima compagna di Carlo Saronio, nel momento del sequestro, era ormai in attesa di una bambina, Marta, nata otto mesi dopo. E ancora per la lunghissima sequenza di liti giudiziarie, legate al riconoscimento, cui le sorelle di Carlo si sono strenuamente opposte. Il libro non ne fa cenno, ma l’ultima tappa di questa guerra giudiziaria (non è detto peraltro che sia conclusa) porta la data 6 novembre 2018, sentenza n. 28277 della Cassazione Civile (la disputa riguardava un immobile in quel di Carloforte, siamo contenti che l’abbia spuntata Marta). Il primo impulso alla narrazione viene, poi, altro particolare suggestivo, da un prete missionario in Algeria, Piero Masolo, figlio di Piera, sorella di Carlo; e nei capitoli compaiono, luoghi, personaggi, storie. Tutto bene, dunque? No, niente affatto.

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Mario Calabresi si serve di oculate omissioni. Manca al volume un indice dei nomi citati; in realtà servirebbe quello dei nomi tralasciati, o, meglio ancora, una nota di ciò che si  è per scelta celato. Il titolo stesso (Quello che non ti dicono) assume anzi una sua connotazione quasi ironica, in parte perfino sarcastica; il tessuto narrativo è infatti, volutamente e con sapienza, costruito su quello che l’autore nasconde.

L’aposiopèsi è un mezzo retorico spesso utilizzato nelle opere letterarie. Di norma consiste nell’interrompere o sospendere un enunciato, per sottolineare proprio ciò che invece, deliberatamente, non si dice, creando un accordo fra l’autore e il lettore, che viene coinvolto in una vera e propria intesa, riempendo il silenzio con la conclusione sollecitata dallo scrittore. L’uso dell’aposiopèsi lascia intendere ciò che non si può o non si vuol dire esplicitamente, ma al tempo stesso anticipa, quale conseguenza logica inevitabile, il seguito che viene in questo modo rafforzato, acquistando maggiore efficacia. Ricorda assai la reticenza, figura che con essa in larga parte coincide, salvo che per una più marcata volontà di indurre, con il silenzio, l’interlocutore ad una soluzione errata; per intenderci la reticenza, nel diritto penale, costituisce non più un espediente retorico ma diviene reato, punito con la reclusione.

Nel caso nostro Mario Calabresi ha costruito una sorta di aposiopèsi ingannevole, maneggiando lo strumento con indiscutibile perizia. Un giovane filologo, Giacomo Ranzani, ha scritto un saggio interessante: La funzione letteraria della reticenza nell’artful narrative del De bello gallico di Cesare ( cfr. classicocontemporaneo.eu/PDF/416.pdf ). Ha rilevato che “ la reticenza e i silenzi dell’autore giocano dunque un ruolo fondamentale nella narrazione e producono conseguenze sul piano dell’organizzazione contenutistica e stilistico retorica della materia trattata”. Certamente Mario Calabresi non è Giulio Cesare, ma, nel suo piccolo, si è servito delle omissioni per far intendere al suo lettore che il responsabile del sequestro e dell’omicidio di Carlo Saronio non fu soltanto Carlo Fioroni, ma l’intera area dell’autonomia milanese. Perché questo alla fin fine è il messaggio rafforzato dal consapevole silenzio.

Che cosa si tace? L’autore intervista Armando Spataro, il magistrato inquirente che per  primo ebbe a raccogliere il pentimento di Carlo Fioroni, alla viglia del processo d’appello e per sollecitazione dell’avvocato Marcello Gentili. Gentili (nome omesso nel testo), qualche anno dopo, rinunziò al mandato, ritenendo che il suo assistito non meritasse. Spataro, ancora oggi, dice invece di ritenerlo credibile, tormentato dal dolore di aver tradito l’amico; ribadisce che Negri fu condannato per la rapina dello zuccherificio di Argelato in cui venne ucciso un carabiniere (cfr. pagina 176 del volume, Calabresi intervista Spataro). Ebbene: la Corte di Assise d’Appello di Roma (questo viene tenuto nascosto) ha assolto tutti gli esponenti di autonomia operaia dalle imputazioni connesse al sequestro e all’omicidio di Saronio, questa è la verità processuale confermata dalla Corte di Cassazione. Ma il lettore non deve saperlo. Per giunta, ove mai il destinatario di questa ingannevole aposiopèsi decidesse di consultare Wikipedia, verrebbe nuovamente fuorviato:  con un giovane, Alceste Campanile, connesso al sequestro, e per questo forse ucciso (in realtà fu il neofascista Paolo Bellini a confessare questo delitto, che nulla, pacificamente, aveva a spartire con gli autonomi o con la vicenda Saronio); e con il F.A.R.O. (struttura disciolta qualche anno prima del fatto, come riconosce lo stesso Fioroni già nelle confessioni del dicembre 1979) come mandante.

La ricostruzione ingannevole poggia poi su altri pretesi testimoni, primo fra tutti un medico (ex frate francescano), il dottor Gianni Tognoni, che mai ebbe a che fare con l’area dell’autonomia milanese. Costui, ricercatore presso il Mario Negri, cerca di accreditare, non si sa bene a quale titolo e su quali basi (visto che ammette di non aver mai ricevuto da lui confidenze), un Carlo Saronio vittima di cattive compagnie da cui si stava allontanando.

In un capitolo che porta come titolo L’ultima sera Mario Calabresi ci racconta della riunione politica a casa di Mauro Borromeo, con otto compagni che a suo dire vengono tutti dall’esperienza di Potere Operaio (affermazione volutamente suggestiva, e non vera). Mauro Borromeo rimase in silenzio dal 1975 al 1979; arrestato collaborò subito con la procura inquirente e fu assolto grazie alla legislazione varata per favorire i pentimenti. Come il suo amico Gavazzeni. Ma a nessuno ebbe mai a confidare la pretesa uscita di Carlo Saronio dal gruppo di militanti di Rosso (per la gran parte proveniente dal Gramsci e non da Potere Operaio), per ben quattro anni, dal 1975 al 1979. Perché non era così. Carlo Saronio aveva in progetto di proseguire la sua attività di ricercatore negli U.S.A., di essere autonomo rispetto alla famiglia.

Negli atti processuali esiste la cronaca dettagliata di quei giorni amari. Usciti dalla riunione a casa Borromeo alcuni si erano insospettiti per via di una vettura ferma nei pressi dell’abitazione. Carlo Fioroni era rientrato dalla Svizzera a fine febbraio; aveva rapporti con Saronio (che lo aveva aiutato), non con Rosso, esperienza con la quale mai ebbe a che fare. Soprattutto era un mascalzone, egocentrico e folle.

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Mario Calabresi non vuole riconoscerlo, ma in questa tragedia l’unica verità sta nel tradimento di un amico generoso, per giunta affidandosi a una banda di criminali privi di qualsiasi scrupolo. Nel caso di Fioroni il movente non fu il denaro (anche il denaro, ma inteso, nella sua testa malata, come strumento di potere); lui, se non fosse solo un mediocre lombardo, poteva essere un prodotto del grande romanzo russo, travolto dai demoni della propria personalità. Sognava di comandare cellule clandestine rivoluzionarie, si crogiolava in un suo fine che giustificava ogni abiezione. Un cretino pericoloso, più che un mostro. Infatti nel corso della sua carriera politica non ha lasciato altro scritto che la sua confessione ai procuratori della repubblica, probabilmente aiutato da loro nella stesura (le deposizioni di Carlo Fiorni, raccolte da diversi procuratori, si trovano qui). Casirati e De Vuono erano avventurieri per i quali il denaro era invece tutto, l’unica ragione di vita; erano la caricatura di un avventuriero, la banalità del male potremmo dire, parafrasando Hannah Arendt che di tragedie ben più complesse si occupava. Comunque i soldi sono spariti e non è dato capire esattamente come; di certo, nonostante le ricerche di polizia, all’autonomia operaia non è arrivato un centesimo. Se usassimo come criterio Follow the Money non potremmo che concludere per una piena estraneità. Non è dato capire perché Mario Calabresi abbia voluto, con tanta caparbietà, farci credere che sia stata l’area dell’autonomia, intesa come esperienza politica complessiva, a progettare un simile delitto, che invece non le appartiene storicamente, soggettivamente, moralmente, perfino giudiziariamente. Quale che sia il perché si tratta comunque di un falso, di un prodotto di questa ingannevole aposiopèsi. Forse l’intento era quello di cancellare un conflitto sociale ormai uscito dalla cronaca e consegnato alla storia, riducendolo a semplice miseria, negando il pieno coinvolgimento di un intero tessuto sociale, dall’operaio all’intellettuale alto borghese, dalla femminista alla critica d’arte, dal ricercatore all’insegnante. O forse anche l’autore è magari rimasto intrappolato nella trama del libro, disposto a forzare i fatti pur di non uscire dallo spazio-tempo del suo romanzo. Sia quel che sia, non cale.

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Carlo Saronio, diciamolo con chiarezza, è stato un militante appassionato, intelligente, convinto nel suo impegno volto a costruire un mondo migliore di quello che aveva sotto gli occhi. Senza tralasciare gli affetti, l’amore, la ricerca, la famiglia, la vita. Stravolgere il suo essere sarebbe un’altra ferita, rispettiamolo per quel che era, con le sue debolezze, con le sue ingenuità, con le sue contraddizioni.

Sullo sfondo emergono personaggi stupefacenti, come il ragionier Armando Damaschi, il contabile, attento e scrupoloso, capace di verificare il bilancio di un impero finanziario ma al tempo stesso rapido nel convocare in ufficio Silvana Marelli, la sovversiva cui Carlo Saronio aveva regalato l’Alfa Sud, e chiederle conto di una multa pervenuta alla famiglia a causa del mancato passaggio di proprietà. O la severissima madre, conservatrice e probabilmente un po’ fascista, che non esita tuttavia ad assumere il più celebre avvocato milanese esperto in diritto di famiglia (Cesare Rimini) per far riconoscere la piccola Marta, arrivata a sorpresa subito dopo la tragedia. Poi la guerra giudiziaria scatenata dalle sorelle e dal cognato, durata fino ad oggi, per sottrarre all’intrusa le briciole residue di un patrimonio svanito, pezzo dopo pezzo, dopo la morte del fondatore, per ironia della sorte avvenuta proprio nel 1968!

 

Immagine in apertura: Carlo Saronio

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