Il 13 Settembre 2019 è morto Giancarlo Paba, urbanista critico, militante di Potere Operaio a Firenze tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, poi animatore della rivista ‘Quaderni del territorio’. Per ricordarlo, Effimera e Commonware pubblicano un’intervista raccolta per il libro del 2002 Futuro Anteriore, a cura di Guido Borio, Francesca Pozzi e Gigi Roggero (DeriveApprodi).
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Credo nella capacità di trasformazione del territorio e della società locale, ho fiducia nel “margine di energia” della comunità, come lo definiva Mumford, nel ruolo non adattivo, ma “insurgent” delle pratiche di vita
Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e le eventuali figure di riferimento nell’ambito di tale percorso?
Considero la mia storia personale come una storia abbastanza minore rispetto a quella di altre figure, più tranquilla da un certo punto di vista, meno drammatica, forse persino più felice. L’impegno politico e culturale nasce quando ero uno studente fuorisede che veniva dalla Sardegna, iscritto alla facoltà di Architettura, arrivato qui a Firenze nel ’65-’66, poi bloccato per motivi di salute per un anno. Quindi, i primi incontri con la politica vengono grosso modo prima del ’68, già nel ’67 con la partecipazione ad una serie di attività che ora non saprei ricostruire in tutti i dettagli, non avrei la memoria per farlo: in quel periodo erano sui temi delle lotte studentesche, ma anche su altre questioni, quella del Vietnam in particolare. Come ambito di riflessione più collettiva c’era il circolo “Che Guevara”, del quale facevano parte prevalentemente studenti universitari e intellettuali che vivevano a Firenze: non aveva una connotazione operaista, diciamo che era un luogo di riflessione su quello che accadeva nel mondo. C’erano suggestioni internazionaliste, attenzione per i problemi della rivoluzione nel Terzo Mondo, come allora era consentito chiamare. E c’erano anche le prime forme di organizzazione studentesca nella facoltà di Architettura, che è stata dalla fine degli anni ’60, negli anni ’70 e ’80 la facoltà trainante del movimento politico studentesco a Firenze, assieme a quella di Lettere ma con connotazioni diverse. Infatti, una parte del movimento degli studenti di Architettura sarà fino ai primi anni ’70 legato a Potere Operaio in modo organico, nel senso che i leader del movimento studentesco di Architettura erano tutti aderenti a PO. Dovessi citare dei riferimenti, naturalmente ci saranno state in quel periodo le letture che si facevano più in generale nell’ambito della sinistra giovanile; però, se dovessi ricordare un flash, forse è quello delle grandi manifestazioni che c’erano state nel ’67 e poi nei primi mesi del ’68 sul tema del Vietnam. Questo tema è stato importante in quel periodo, come catalizzatore organizzativo e politico. Un flash nella memoria, un episodio che è stato per molti importante, è riferito ad una famosa manifestazione che si svolse a Firenze, che si concluse in piazza Strozzi e alla quale partecipò Franco Fortini, il quale finì l’intervento dicendo “guerra no, guerriglia sì”, che poi diventò uno slogan diffuso nel movimento. Fu una specie di scossa politico-poetica, perché prima di arrivare a quello slogan non ricordo cosa Fortini disse, però rammento che fu un intervento appunto insieme poetico, galvanizzante e motivante.
Non ricordo bene i passaggi organizzativi, che tendo a dimenticare; però, al circolo “Che Guevara”, che si riuniva in qualche cantina o in qualche pianoterra verso la fascia ottocentesca dei viali, partecipavano molte persone che poi avrebbero assunto un ruolo nel movimento studentesco e nelle organizzazioni operaiste. All’interno di quel movimento c’erano anche alcuni personaggi che erano più grandi di me (bastavano 3 o 4 anni allora per sentire una differenza), e quindi provenivano da esperienze differenti, cioè avevano svolto lavoro politico negli anni ’63-’64-’65. Si tratta di soggetti organicamente più legati al movimento operaista, conoscevano Alquati, il gruppo torinese e veneto, ed erano Lapo Berti, Claudio Greppi, ma non solo loro, c’erano Franco Gori, Guido De Masi (che diventerà direttore della Fondazione Michelucci e poi morirà ancora giovane) e altre persone. Il gruppo di Potere Operaio si formerà successivamente, non ricordo bene quando, credo subito nel ’68, e manterrà sempre questa doppia articolazione al suo interno, data appunto dall’unione di due percorsi: un percorso di derivazione operaista, impersonato da Lapo, da Claudio e poi da altri più giovani che facevano riferimento a loro, e da un gruppo di persone più giovani di età che provenivano dal movimento studentesco. Il leader di questo secondo filone era Michelangelo Caponetto, e vi appartenevamo io, Giovanni Contini, Francesco Pardi, tra quelli che avete intervistato, e molti altri. Potere Operaio fiorentino nasce un po’ dalla combinazione di queste esperienze, la cui convivenza non è stata sempre pacifica. Nella terminologia semplificata di quel periodo il gruppo chiamiamolo operaista (anche se poi eravamo operaisti tutti, ma diciamo il gruppo più anziano, legato anche ad esperienze nazionali) era la destra del Potere Operaio fiorentino, mentre il gruppo proveniente dal movimento studentesco era la sinistra. Quindi, anche i riferimenti nazionali seguivano questa logica: il gruppo che aveva già una tradizione intellettuale, letture più sistematiche, ragionamenti che avevano trovato espressione in Quaderni Rossi, Classe Operaia, faceva più lavoro di riflessione e anche di organizzazione del pensiero politico; invece, il gruppo che proveniva dal movimento studentesco è stato sempre legato alle attività di lavoro politico diretto nelle occasioni che allora si presentavano, nelle università ma anche nelle fabbriche che erano allora dei punti di intervento, la Pignone, la Galileo, alcune altre fabbriche dell’hinterland di Firenze e di Scandicci. In realtà, da un punto di vista organizzativo, il gruppo che proveniva dal movimento studentesco ha sempre controllato Potere Operaio, con una dialettica un po’ dura: per quello che valevano allora gli esecutivi, i segretari, il gruppo movimentista ha sempre controllato l’organizzazione. Tra l’altro quello di PO fiorentino era un gruppo relativamente grosso, mentre i gruppi di Potere Operaio nazionale non erano molto consistenti, tranne quello romano. Noi eravamo abbastanza simili ai romani perché, così come Piperno, anche noi provenivamo dal movimento studentesco. In parte ciò valeva anche per Bologna, ma in misura minore, perché lì il movimento era molto più frastagliato e in ogni caso non era controllato da Potere Operaio. Erano comunque queste tre le sedi nelle quali la presenza di PO si poteva definire di massa, senza esagerare, perché a Firenze c’era pure una forte presenza di Lotta Continua.
Nel corso del ’67-’68-’69, ma direi fino al ’72, il ruolo della facoltà di Architettura è stato centrale nelle lotte fiorentine, a livello studentesco ma anche come polmone e luogo di organizzazione e di formazione. Durante una lunghissima occupazione del ’68, una delle più lunghe in Italia, Architettura è senza dubbio stata un luogo di formazione politica. Questo processo di formazione funzionava così: i più giovani avevano un ruolo di riferimento organizzativo, politico nei confronti del movimento, e le persone più anziane (alcune delle quali lavoravano anche nel campo dell’architettura e dell’urbanistica, come Claudio Greppi, Raimondo Innocenti, e altre persone meno conosciute ma che erano legate per amicizia e per affinità culturali al gruppo degli operaisti) avevano una funzione di orientamento del pensiero. Quindi, i primi momenti di consolidamento di forme di riflessione politica più matura e organizzata avvenivano in seminari ai quali partecipavano appunto Greppi e altre persone che venivano da fuori, con temi certamente derivanti dal pensiero operaista, ma che venivano declinati in modo tale da incontrare pure gli interessi degli architetti, e quindi in quelle parti che riguardano l’organizzazione del territorio, della città, il tema della pianificazione. Per esempio, gli scritti di Alquati sul piano, che riguardavano il tema della pianificazione in fabbrica, venivano declinati ed estesi al tema della pianificazione della città, della società, venivano letti come una sorta di cornice di pensiero e intellettuale che poteva poi produrre ricerche sulle questioni della casa, in generale dell’organizzazione del territorio ecc. In parte ciò avveniva con alcuni scritti di Greppi, uno scritto di Pedrolli, che era un docente della nostra facoltà che ha fiancheggiato per qualche anno il movimento senza condividerlo del tutto, e che aveva scritto un articolo sui Quaderni Rossi. Ho ancora vecchi materiali di quel periodo che risentono di quel modo di parlare e di riflettere, anche se quel tipo di produzione politica e intellettuale era un’affiliazione indiretta del pensiero dei Quaderni Rossi e probabilmente avveniva all’oscuro dei Quaderni Rossi medesimi: era una specie di produzione locale di pensiero critico sul tema della città e del territorio che assumeva alcuni paradigmi di quella letteratura come paradigmi di orientamento.
Un effetto possibile di questo cortocircuito tra il pensiero operaista e questa caratterizzazione del gruppo di militanti fiorentini nell’ambito della facoltà di Architettura ha portato a delle esperienze interessanti nell’organizzazione della città, a varie iniziative sul tema del rapporto fabbrica-quartiere, fabbrica-città, a partire da un’azione di fiancheggiamento politico-organizzativo di contraddizioni sul tema della casa, le lotte del cosiddetto centro sfrattati, cose particolarmente acute a Firenze in quel periodo anche se non come oggi. E’ anche vero che si trattava di temi su cui lavoravano tutti in quel periodo, da Potere Operaio a Lotta Continua ad Avanguardia Operaia. Diciamo che c’era un orientamento verso i temi che si possono chiamare “urbanistici”, abitativi e di organizzazione della città, che sono sempre stati una componente del gruppo di persone che ruotavano attorno all’organizzazione di Potere Operaio a Firenze. Naturalmente questo ha portato anche nei rapporti nazionali a privilegiare e consolidare relazioni con alcune figure particolari: per esempio, iniziava già allora un primo rapporto con Alberto Magnaghi, e saranno quelle relazioni che poi porteranno all’esperienza di Quaderni del Territorio. La rivista nasce essenzialmente dall’azione di Alberto Magnaghi a Milano e a Torino, dal libro Città fabbrica, che mi pare sia del ’68. Quindi, il gruppo di Firenze partecipa a questo percorso, anche se non in un ruolo così importante come quello di Milano: comunque scriviamo alcune cose, facciamo una ricerca anche noi sugli argomenti legati al tema della città-fabbrica, contribuiamo alla rivista e a quel filone di studi fin dai suoi inizi.
Quali sono stati, secondo te, i limiti e le ricchezze dei percorsi che hai qui tratteggiato? Quanto tale analisi può essere utile nell’individuare dei nodi aperti nel presente?
Fino a tutto il ’71 io do un giudizio molto positivo del nostro lavoro all’interno di Potere Operaio, anche dentro il filone operaista nazionale. Col senno di poi in molte riflessioni sul passato si vedono solo gli errori: però, l’esperienza che avevamo messo in piedi aveva alcune connotazioni di saggezza di comportamento, di capacità di interpretazione meno ideologica dei bisogni dei referenti del nostro lavoro, in particolare gli studenti, una capacità anche di coinvolgere studenti disagiati, quelli poveri, di motivarli. Ora non so bene come spiegarlo, però diciamo che nel lavoro fatto in quel periodo riuscivamo a mantenere aperta l’idea (che allora ci sembrava ragionevole) di una prospettiva di cambiamento rivoluzionario della società, agendo in modo positivo in questa direzione; ma ciò era temperato da una saggezza pratica nel lavoro politico quotidiano, positivamente condizionato direi dalle esigenze concrete del movimento. Il nostro movimento ha sempre avuto la capacità di parlare alle persone, di essere riconosciuto come interlocutore affidabile anche al di là del gruppo, anche al di là della formalità politica e organizzativa. Avevamo duttilità di pensiero, una certa capacità di lavorare i concetti e le teorie direttamente nel lavoro politico. E io direi ciò sia per quanto riguarda gli studenti, in modo prevalente (quella studentesca era in realtà l’attività più significativa), sia in qualche esperienza di contatto con le fabbriche, anche se il loro coinvolgimento si è svolto a Firenze sempre e solo a livello di avanguardie e di piccoli gruppi che avevano a loro volta un rapporto positivo con un quadro più ampio di operai, però non era confrontabile il lavoro che si faceva nelle fabbriche fiorentine con quello di altre situazioni nazionali. La capacità di lavoro saggio e la saggezza nel gestire il rapporto con i soggetti dell’azione politica ha fatto di Firenze per un certo periodo un piccolo punto di emigrazione e di prestito di alcuni militanti in situazioni di carenza di attivisti politici. Per esempio, un gruppo di fiorentini ha lavorato per alcuni mesi e forse anni a Torino: era una sorta di prestazione fornita a PO nazionale che in genere aveva scarsezza di militanti nelle sedi che non avevano un rapporto positivo con situazioni di massa. Lavoravano a Torino un mio amico molto caro come Giovanni Cossu, e poi Paolo Albani, Pietro Laureano e anche altre persone. Giovanni Cossu, che come me veniva dalla Sardegna (abbiamo fatto una vita assieme), era un grandissimo militante davanti alle porte delle fabbriche, all’altezza di quelli di Lotta Continua, cioè capace di fare capannelli, comizi volanti, di parlare e convincere, anche di declinare il linguaggio di Potere Operaio (che è sempre stato molto difficile) in modo che fosse comprensibile, con la capacità di entrare in contatto con i sardi di Mirafiori o con i meridionali o con gli altri. Un simile prestito di un nostro gruppo di militanti (uno dei quali era sempre Giovanni Cossu, che era il più bravo di tutti in questo tipo di operazioni, ma anche Flavia, la più bella donna di Potere Operaio fiorentino e altri) lo facemmo a Napoli, e anche lì i nostri compagni funzionavano a tempo pieno. Questa cosa può sembrare banale, ma vista col senno di poi è significativa; ciò è probabilmente all’origine di un’idea del gruppo di Potere Operaio e in generale dell’ambiente fiorentino come meno rilevante da un punto di vista dell’impulso dato al pensiero politico alto rispetto a Padova, dove c’erano Ferrari Bravo, Toni, Gambino e tutti gli altri, rispetto a Torino, a Milano o a Roma con Piperno. Il gruppo di Firenze veniva considerato più pragmatico, se si vuole anche meno colto, meno teoricamente attrezzato: però, aveva questa connotazione intanto più di massa, perché eravamo tanti in un certo periodo, forse ad un certo punto qualche centinaia proprio come militanti, ma ciascuno con situazioni che ci consentivano di avere come riferimento nella città un insieme di realtà significative a livello di “massa”. Questo era un aspetto di saggezza che secondo me c’è sempre stato, fino direi al ’71-’72, e cioè fino a che funzionò dentro Potere Operaio il gruppo di persone più giovani di Greppi, di Lapo e degli altri, ma meno giovani di quelli che sarebbero venuti dopo. Il gruppo era collocato su posizioni radicali, quindi faceva parte della sinistra di PO: gli piaceva Toni quando Toni era di sinistra, gli piaceva Piperno quando era più cattivo di Toni, ma a un certo punto facevamo più riferimento al primo che al secondo. C’era una tensione verso una visione chiamiamola rivoluzionaria in quegli anni, che però questo gruppo intermedio ha sempre tenuto con saggezza. Invece, quelli più giovani ancora hanno poi imparato la lezione in modo più radicale, e allora tra il ’71 e il ’72 nelle stesse situazioni nelle quali, anche positivamente, si incarnava l’attività che facevamo allora (in alcuni quartieri degradati, in alcune situazioni più spinte) è probabile che si sia anche formata una tensione sotterranea verso pratiche più aggressive e successivamente forse più armate. Queste sono poi sfuggite, però appena prima di scomparire Potere Operaio è stato forse in contatto con queste situazioni: ma non so dire molto di questo, perché il gruppo di persone di cui ho raccontato ora la storia ha sospeso il proprio ruolo dirigente proprio in quel momento, si è fermato, lasciando ad altri la responsabilità organizzativa del movimento. Non era possibile neanche fare altrimenti, perché non venivamo più riconosciuti come riferimento: forse eravamo troppo saggi, abbiamo mantenuto quella saggezza anche in quel periodo, e forse per questo siamo stati accantonati, almeno io sono stato accantonato. E quindi in modo naturale siamo poi stati fuori dal terrorismo, dalla diaspora di alcuni nostri militanti nelle formazioni che hanno praticato la lotta armata, qui con qualche iniziativa non così drammatica (ma qualcuna sì, qualcuno dei più giovani è entrato nella cronaca nazionale). Abbiamo subito anche noi il 7 aprile qualche mese dopo, il 21 dicembre è stato infatti la sua coda fiorentina, siamo stati inquisiti tutti: non siamo stati arrestati perché a Firenze non c’era Calogero, e perché tutto sommato i magistrati inquirenti avevano una rappresentazione abbastanza esatta di cosa accadeva, sapevano bene chi faceva che cosa, e quindi avevano un quadro piuttosto preciso delle responsabilità. Questo è il motivo per cui nessuno di noi è stato in carcere, tranne il periodo in cui Michelangelo Caponetto è stato arrestato per una sciocchezza di movimento, in quanto denunciato da un professore. Ma nessuno di noi, di quelli che non passeranno alla lotta armata, finirà dentro; andrà in galera qualcuno degli altri, ma si tratta di altre storie che poi hanno raccolto flussi diversi. Io quindi so poco di questo periodo, di che cosa in altre sedi in rapporto a questo passaggio significativo abbiano fatto Oreste o Toni o altri.
Gli sviluppi successivi, la lotta armata appunto, poi il movimento del ’77, avverranno all’interno dell’ambito costruito negli anni precedenti, quindi con un ruolo ancora rilevante della facoltà di Architettura, però fuori da un rapporto con il personale politico operaista di PO che aveva lavorato fino al ’71-’72. E nel ’74-’75-’76-’77 il nostro è diventato più che altro un gruppo di riflessione politica e di azione intellettuale nell’università. Come sempre quando si parla di alcune cose poi magari si vedono dei fili che non si notavano prima: forse questa caratteristica, questo interesse verso le piccole cose significative che avvengono nelle città è una costante di tutta l’attività politica e intellettuale di un gruppo di persone da Potere Operaio a Quaderni del Territorio ad oggi. Non so cosa abbia detto Magnaghi nella sua intervista, ma questa vicenda poi riparte addirittura nel 1989 e ’90. Si riprendono i contatti con Alberto, si scrivono delle cose, si organizzano dei convegni, e gli anni ’90 sono caratterizzati da un insieme di iniziative, di riflessioni, di azioni, di libri scritti, di esperienze fatte che sono riassunte nel libro di Magnaghi Il progetto locale, che nasce appunto da tutto questo. Negli anni ’90 si riprende in fondo quella saggezza, si riprende la città come campo d’azione, il territorio come soggetto attivo, l’idea della trasformazione nella quale la rottura non c’è, questo aspetto della rottura non ce lo poniamo più. Noi oggi (credo infatti di poter parlare anche per conto di Alberto e di altri che lavorano su questo terreno) non ci poniamo il problema della rivoluzione: ci poniamo il problema del rafforzamento delle forme di costruzione sociale della città, di soddisfazione nell’azione diretta dei bisogni dei nuovi cittadini, dagli immigrati alle esperienze di partecipazione nei quartieri, ai laboratori con i bambini. Insomma, in fondo quella saggezza di una volta è oggi all’origine di una serie di attività, di laboratori, di progettazione partecipata, di costruzione sociale del piano (queste sono le parole che utilizziamo): i cantieri sociali e l’idea della loro costruzione hanno caratterizzato il nostro lavoro negli anni ’90. E poi ci siamo trovati alla fine del decennio ad essere avvicinati dagli altri che hanno riletto queste cose che ci sembravano molto di destra, molto tranquille per noi; per esempio, anche Carta guarda a queste questioni, l’espressione cantieri sociali l’avevamo usata noi e l’hanno poi ripresa loro. Noi ci facciamo osservare senza molto impegno diretto, perché a questo punto siamo abbastanza scettici sulle grandi costruzioni, sulle grandi narrazioni: siamo interessati alle piccole narrazioni, alle piccole cose, almeno io Forse non tanto perché pensiamo che siano quelle giuste da fare, ma perché pensiamo che siano le uniche che riusciamo a fare. Io parlo di me e di altri, alcune cose poi le penso solo io e alcune solo gli altri. Comunque, è un campo nel quale raccogliamo frutti che ci sembrano abbastanza puri, utili, poco utilizzabili dagli altri e non ci poniamo molte domande su quante conseguenze e quali gradi di efficacia abbiano.
Questa è una sintesi rapidissima, in quanto bisognerebbe riempire tutto il periodo dal ’72-’73 fino al ’90. Quello è un periodo per molti di noi di lavoro, anche di lavoro privato attivo, mai di riflusso, staccati però dai drammi. Tranne Alberto che è stato in carcere accusato ingiustamente, siamo stati staccati dal dramma del terrorismo, quindi anche abbastanza indifferenti ad esso, io non l’ho vissuto in prima persona e dunque non ho neanche sofferto. Una cosa interessante è costituita da un discorso sulle generazioni. C’è una prima generazione di persone che hanno la stessa età e che, come dicevo prima, hanno avuto dimestichezza intellettuale con Tronti, Alquati, Asor Rosa, Cacciari, nel periodo proprio operaista. C’è poi questa seconda generazione di cui ho parlato, la quale è arrivata a Potere Operaio e anche poi all’esperienza operaista, però a partire dal movimento studentesco. E poi accennavo a una terza generazione: bastano 3 o 4 anni, 2 o 3 a volte per spiegare biografie di vita molto differenti, e anche biografie di vita drammatica o non drammatica. Ciò tranne le persone che sanno essere sempre in continuità, Toni Negri ad esempio è sempre presente; invece, altri hanno traiettorie più spezzettate. La cosa interessante è che successivamente abbiamo ritrovato alcune traiettorie che prima avevano sofferto il dramma della lotta armata. Ci sono alcuni di quelli più giovani di Potere Operaio che poi hanno fatto delle esperienze di partecipazione a Prima Linea o all’UCC, che sono stati in carcere, anche molto a lungo, anche 14 anni in qualche caso, e che poi sono usciti dalla galera. Ci sono dei destini diversi, delle persone che sono state in carcere e la cui vita successivamente può prendere una direzione oppure può prenderne un’altra. C’è chi è così segnato da questa esperienza da non uscirne mai, chiuso in una sorta di storia così importante per cui poi uno dopo il carcere non riesce che a lavorare in rapporto a quella che è stata la sua esperienza dentro; e invece ci sono alcune persone che non hanno sofferto di questo problema del reducismo. Alberto è una di queste: lui ha sofferto il carcere in un modo drammatico, anche fisicamente, però poi la sua vita è nuova, libera, non deve confrontarsi con quell’esperienza. E non solo Alberto, ma anche altre persone hanno avuto questa esperienza qui a Firenze: alcuni compagni più giovani in galera hanno conosciuto il mondo concreto dei bisogni dei carcerati e non solo, poi una volta che sono usciti, senza perdere la loro carica alternativa, hanno recuperato la saggezza. Per cui ora lavorano per esempio alla Fondazione Michelucci, a contatto con i problemi dei nomadi, degli stranieri, lavorano sulle questioni dell’immigrazione, della casa, dell’autocostruzione, e lavorano in questi campi in modo attivo, concreto, professionale, convinto, senza dovere dimostrare niente a se stessi, con una vita che è proseguita e che è migliorata. Una vita che è stata capace di andare avanti insomma, e quindi cercando altri stimoli, altre letture, altre influenze: questo è importante.
Un altro aspetto significativo è che non siamo mai stati comunisti nel senso tradizionale del termine. Naturalmente abbiamo detto delle cose tremende, perché ho l’impressione che molto spesso usavamo dei gerghi sapendo che erano convenzionali. Se dovessi pensare alle cose che scrivevamo e dicevamo in quel periodo, io sono convinto che riguardandole ora sarei capace di distinguere ciò che dicevo perché era un codice linguistico di autoriconoscimento dalle cose che pensavo davvero. E le cose che pensavo davvero non erano la dittatura del proletariato (che peraltro è un’espressione che non ho mai usato). Non ho mai letto Lenin per esempio, allora mi vergognavo, poi ho scoperto che avevo guadagnato tempo nel non leggerlo; ho invece letto i Grundrisse, naturalmente. Quindi, scopri dopo che sei stato selettivo, che hai letto i Grundrisse e non Lenin e che senza saperlo hai valorizzato del marxismo il filone più libertario, meno ideologico, più aperto alla comprensione, meno fossilizzato, che sei stato meno comunista e meno marxista di quello che pensavi e che eri molto più anarchico e socialista, e marxiano e libertario. Ma te ne accorgi dopo, dal modo in cui poi la tua vita ha filtrato nelle svolte che gli hai dato e anche nelle letture che hai fatto: si tratta dunque di una riflessione a posteriori.
Una breve parentesi: dopo la rottura di Potere Operaio, in occasione della seconda occupazione della Fiat, nella tipografia di PO a Firenze era stato fatto Fuori dalle Linee, una sorta di quotidiano gratuito di cui ne uscirono pochi numeri e che era un tentativo di continuazione di un certo discorso politico da parte della componente piperniana.
Ad occuparsi della tipografia era soprattutto Michelangelo Caponetto. Un’altra caratteristica del gruppo fiorentino era questa specie di concretezza, per cui molte cose si facevano a Firenze perché qui si riusciva a farle. A Firenze è stato fatto anche il giornale Potere Operaio per un certo periodo, che veniva per quattro quinti scritto da Oreste, però anche noi scrivevamo molto, traducevamo i materiali che venivano dalle altre sedi. Eravamo bravi come giornalisti, io e Pardi per esempio. Tra le altre cose funzionava anche questa tipografia. Però, sul periodo di Fuori dalle Linee non so dire molto, io non ho partecipato a quell’esperienza.
L’esperienza dei Quaderni del Territorio.
Quaderni del Territorio era una rivista che è nata nelle facoltà di Architettura, anche se non era solo di architetti, ma qui il problema naturalmente non è professionale. Intanto, col senno di poi, è abbastanza interessante il fatto che si chiamasse già allora Quaderni del Territorio: si pensi agli sviluppi successivi del tema del territorio. Molte discussioni oggi sul tema dell’arcipelago, sul tema del ruolo attivo del territorio, sulla dimensione del locale nei processi di globalizzazione, in fondo erano molto anticipati in quei numeri, anche se naturalmente a rileggerli oggi quegli articoli ci sembreranno ingenui. Secondo me ciò che c’era in nuce nei Quaderni del Territorio era l’attenzione per il ruolo che svolgono i contesti locali. Abbiamo sviluppato già allora l’idea dei luoghi come contesti in cui è possibile precipitare energie positive, organizzare nuove comunità, si direbbe oggi nuove forme di legame sociale. Questi temi sono tornati oggi, forse in modo diverso, nel mio lavoro. Credo nella capacità di trasformazione del territorio e della società locale, ho fiducia nel “margine di energia” della comunità, come lo definiva Mumford, nel ruolo non adattivo, ma “insurgent” delle pratiche di vita. Insurgent non significa insurrezionale, e nemmeno antagonista; è un termine che deriva da Patrick Geddes, grande planner e intellettuale del primo Novecento. Ecco, ora mi occupo delle forme di energia insorgente nelle città, nei territori, nelle comunità locali. Come vedi ho subito in questi ultimi anni influenze diverse da quel passato, per esempio alcuni filoni del libertarismo e del pensiero radicale di matrice anglosassone e americano, della sinistra radicale americana, nel campo del planning, che è il mio ambito di lavoro.
Durante un convegno organizzato da Carta l’anno passato tu hai parlato di “progetto cantierabile”. Cosa intendi con questo termine?
Volevo solo esprimere un concetto se si vuole banale, che mi sembrano oggi necessari progetti di trasformazione effettiva della realtà, che possano produrre risultati pratici, che si vedano nelle situazioni di conflitto e di contrasto sociale energie in azione, e che queste energie producano effetti materiali sull’organizzazione del territorio e della città. Progettare e costruire, la metafora del cantiere significa in fondo questa, un luogo di soggettività liberate, un contesto di innovazione.
A Firenze c’è un significativo movimento di lotta per la casa, molto attivo ed efficace nella sua azione, quindi seguo con simpatia quello che fanno. Poi loro sono completamente autonomi, come molti di quelli che lavorano su questi terreni sono un gruppo ferocemente geloso della propria autonomia. Dico quello che mi piacerebbe, perché probabilmente neanche loro controllano tutto quello che fanno: se le cose hanno un significato non le controlli, non le devi controllare, se le controlli del tutto vuol dire che non hanno un grande significato. Per esempio, un episodio di occupazione di case può avere diversi significati dal punto di vista politico: uno è quello di contrastare alcune logiche edilizie e immobiliari della città, di aprire conflitti, di determinare attraverso la meccanica dell’appropriazione di un immobile e della sua trasformazione un contrasto con le autorità, aprire una dialettica e via dicendo, il che è naturalmente una cosa assolutamente importante. Non è che questa cosa non mi interessi, sono felicissimo che ciò ci sia, che ci sia anche una struttura organizzata capace di lavorare su uno dei bisogni più drammatici soprattutto in una città come Firenze, che forse rispetto ad altre realtà vive sul tema della casa una drammaticità particolare per la combinazione di turismo e l’espulsione della popolazione dal centro storico. Quindi, questo tipo di iniziativa è assolutamente fantastica da questo punto di vista. Però, il mio interesse scatta quando la cosa diventa concreta e quando le occupazioni stanno in un punto della città e questo è un punto in cui, se lo osservi e lo analizzi, hai un pezzo di società che deve vivere. E allora, se quel pezzo di microsocietà deve vivere, bisogna intanto capire che pezzo di società è: allora scopri che sono immigrati oppure no, che sono diversi, che devono costruire qualche cosa per continuare a vivere, scopri che tra le case c’è uno spazio comune, che quello spazio comune può diventare qualcosa. Questi aspetti mi interessano della mobilitazione pura e semplice (che però naturalmente è il presupposto perché si sviluppi tutto il resto) che porta i movimenti ad occupare le case. Il che, lo ripeto ancora, è importantissimo perché senza le occupazioni di spazio pubblico, di giardini, di case, di immobili, di fabbriche e la loro trasformazione in case individuali o collettive, in spazi urbani autogestiti o in centri sociali, non ci sarebbe il resto. Però, poi alla fine quello che mi interessa è realmente quello che avviene dentro in termini fisici, luoghi che cambiano aspetto per il fatto di essere abitati, posson