Il testo che segue è la recensione al libro di Massimo Filippi “M49. Un orso in fuga dall’umanità”, Ortica Editrice, 2022.

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Sento sul collo il fiato caldo della Legge, li sento che fanno le loro mosse…

William Seward Burroughs

…mosse da guardie, l’arresto, mosse da guardiani, l’osservazione perpetua di quel corpo ingabbiato che non sa cosa farsene della legge…

 

mi chiedi della legge che cazzo me ne frega della legge

Nanni Balestrini

…cosa può farsene delle leggi degli uomini un orso se non trasgredirle? La sua animalità è tutta nell’azione delle passioni gioiose, nell’istinto e non nella tristezza di una specie di patto da osservare a qualsiasi condizione e le condizioni, lo vediamo, peggiorano sempre. Infatti M49 – maschio 49 in codice umano così squallidamente umano – segue il suo istinto e scappa dal suo recinto in Trentino ben due volte tra il 2019 e il 2020, tanto che l’allora ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare (e nonché un militare) Sergio Costa, in uno slancio di quanto-ci-brucia-a-noi-guardie-chi-fugge, lo apostrofò con il nome di Papillon, rimandando al celebre Henri Charrière… ma lo si può chiamare come si vuole, lui trasgredirà sempre la legge e il suo momento di attuazione, il presente. M49 ci ha mostrato una insoddisfazione per il presente imposto che dovremmo far nostra e questa presa di posizione contro un’umanità in marcia emerge con forza nelle pagine di M49 Un orso in fuga dall’umanità (Ortica editrice 2022) di Massimo Filippi, tra i più lucidi teorici dell’antispecismo in Italia, che con questo agile libro ci mostra anche una propensione sperimentale alla narrazione.

Rewind. Anni Novanta. L’Unione Europea finanzia il progetto Life Ursus, presentato dalla Provincia Autonoma di Trento, dall’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica e dal Parco Naturale Adamello Brenta. L’obiettivo è reintrodurre l’orso bruno nelle Alpi centro-orientali, «la catena montuosa più densamente popolata e più antropizzata del mondo», ci ricorda Pietro Bianchi (Dinamopress). Solo qualche mese fa in Abruzzo è morto l’orso Juan Carrito, investito da un’automobile. Bisognerebbe spiegare agli amministratori che reintrodurre gli animali selvatici a scopi elettorali crea inevitabilmente tragedie, mentre potrebbero cominciare a sfoltire le colate di asfalto e cemento, quel vecchio vizio di cancerizzare la vita di chi umano non è (e di chi non considerano tale). Questo dato, l’antropizzazione, sommato alla pessima gestione a firma Lega, ha creato le condizioni per uno scontro-rimpallo politico tra il leghista Maurizio Fugatti e il ministro Costa, scontro che ha visto al centro le rocambolesche fughe di M49, l’orso che segue le sue pulsione e i suoi istinti, i suoi desideri e il libro di cui ci apprestiamo a scrivere comincia proprio così: «Materia di questo libro è il desiderio. Forse, però, sarebbe meglio dire, al plurale indefinito, i desideri» (p. 12). Per le sue fughe M49 ha rischiato la soppressione ma poi, si sa, l’uomo sa anche essere “buono” e quindi M49 si è preso un ergastolo ostativo che lo costringe tutt’oggi all’apatia, alla tristezza a vita, a guardare una parete per ogni secondo presente, sempre uguale.

 

È importante non accontentarsi di lasciare che le rivoluzioni fallite restino solo dei momenti limitati. Invece dovremmo pensarle come se fossero dei progetti per un mondo migliore…

José Esteban Muñoz

 

Massimo Filippi da un lato ci rammenta che la storia di M49 non è conclusa, la reclusione è insopportabilmente (al) presente, dall’altro però attraversa il territorio delle tracce perdute ma pur sempre lasciate da M49 che l’autore chiama sia unorso (è la storia di desideri ma anche di reclusioni) sia tra… la traccia nel mezzo che si svasa ovunque, che non si lascia seguire dagli umani, che trasgredisce e trasforma ogni legge in una contropartita (un avviso alle fuggiasche, come recita l’introduzione guida-alla-perdita): visibilizzare ciò che l’uomo-bianco nasconde e perché no, nascondere lui, per farla finita col giudizio suo. Filippi traccia brevemente la storia ma non focalizza il libro sulle vicende cronachistiche né si arroga il diritto di interpretare M49. No, l’autore traccia segni come unorso caca, graffia, ruglia trasformando la corsa libera dell’orso in un anatema che percorriamo parola per parola, segni-tracce in cui si assommano pratiche di resistenza (dai partigiani a unorsotra le montagne), sfaldamenti di steccati. La fuga di M49 tra le montagne diventa pratica e metodologia che può illuminare e che critica ogni centimetro conquistato da questi “matti” e “ridicoli” umani-bianchi-occidentali. Ci voleva unorso ma ora lo sappiamo bene che M49 è Daniza (orsa uccisa sempre nel Trentino) e Juan Carrito e tutti i battiti accelerati e poi spenti nei mattatoi. E così l’animalità si fa-disfa e rifà nelle sembianze di Antigone, delle partigiane, di chi trasforma i propri bordi – straborda – a chi sfugge: «Mai, ve lo ripeto, mai. Non mi avrete mai. Fatevene, vi prego, una ragione, l’unica che potrebbe forse servirvi. Anche dopo morto e dopo la morte vostra. Mai e poi mai e poi mai» (p. 40).

La voce-unorso che si fa seguire nella prima parte del libro, un io-bestia che fa liberazione nelle fughe, nella seconda parte del libro si trasforma in seconda persona, un’umana che empatizza coi margini-tutti e che continua l’anatema allargando la visuale, fuori dai monti si apre il mondo, s’aprono le sbarre e s’affollano le domande: «Mi domando perché quest’astio perenne, quest’inestinguibile livore rancoroso, per chi, potendo muoversi, si muove, talvolta serpeggiante, talaltra come vascello alla deriva, talaltra ancora in collettiva massa compatta. E, anche, mi domando – se possibile con perplessità ancor più grande e ancor maggiore angoscia – come sia stato possibile poter anche solo pensare d’inchiodare il moto e il senso a pochi metri quadri di latrina, regolamenti e recinzioni, in cui introvabili lande o città affaccendate diventano cloaca e fango, fetida e feroce oscurità con cicatrici sul lastrico e sfregi di incredula speranza schizzati addosso ai muri. Come nelle trincee, scarico ammorbante, violazione arrogante delle sinuose movenze dei mortali sensi, dell’insensata, interminabile tragedia dell’esistere fugace» (pp. 60-61). La storia si riavvolge e poi si dipana concentrandosi per lacerti sulle escluse dalla norma e sui danni delle norme e, personalmente, in questa parte mi è mancato il fiato per la rabbia. Obiettivo centrato. Accanto alle parole le immagini di Andrea Nurcis, “artista-contadino” che scava dal nero come per ararla quella pagina che urla.

 

Non c’è dentro, né spirito, né fuori o coscienza, nient’altro che il corpo così come lo si vede, un corpo che non cessa di essere, anche quando cade l’occhio che lo vede.

E questo corpo è un fatto.

Antonin Artaud

 

Un ci/si impersonale che turbina frammento per frammento tra le pagine inaugura la sezione più sperimentale del libro, la terza dal titolo Tra/me (e me) e le trame si dipanano in continui rizomi imprendibili, la scrittura apprende dalla fuga di unorso e si fa pura evasione: «…micromorte quotidiana che si dice in potenziante passività intra-agente, formula della decreazione che rifiuta l’ergersi colonizzante della troppo umana agency, quella che l’incompreso stato d’eccezione estende fino a fingere che sia diffuso privilegio dell’intero mondo animale, bieco antropocentrismo antropomorfizzante che non cessa di mettere a profitto la coatta trasposizione automatica dell’umano sulle bestie difformi per bloccare, con lugubre mossa, lo sfigurante trascorrere dell’in/comune faglia zoonotica verso una perenne, a-significante rivoluzione…» (p. 90). Scomparso il soggetto emittente ci si fa conduttori come metalli, ci scopriamo immediatamente operativi nelle pieghe e mentre gli occhi seguono le parole le gambe cominciano a muoversi, pezzi di fughe che s’avviano nonostante tutto, nonostante la «…mugghiante burrasca che, beffarda, cancella il capo devastante, per dare e tempo e spazio, in e a ciò che resta, alla schiuma che la coda fa impazzire nel gioco inebriante, nella memorabile partita, nello sfumato disparire che l’arma-bastone in tatto, appoggio o svolazzante bersaglio già trasforma, perché solo i morti e le morte possono perdonare […]» (p. 111).

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