“Dell’agire efficace bisogna dire che esso comporta a volte una certa violenza: quanta esattamente? […] Quando è il caso di decidere come comportarci, regoliamoci come fanno le cuoche con il sale: “Quanto basta” […] Quanto basta per combattere senza odiare, quanto serve per disfare senza distruggere”

(Muraro, 2012)

Questo scritto in prima persona è uno scritto nato e nutrito da un noi. Come Non una di meno Torino, la settimana scorsa ci siamo riunit quasi ogni sera, con notizie che scombinavano continuamente gli scenari che man mano immaginavamo. Credo si possa affermare che Non una di meno sia stato l’unico spazio di attivazione che ha saputo mettere al centro lo smarrimento per quanto sta accadendo, la sensazione di disorientamento, la frustrazione, l’empatia…In una parola: la vulnerabilità, e farne discorso politico. E ha saputo immediatamente immaginare pratiche nuove che vogliono provare ad essere all’altezza di un universo senza risposte. Certo, per quel che ho visto e vissuto io, non è stato facile: quel che ha fatto la differenza è stata l’intelligenza collettiva, la cooperazione. Questo è il primo nodo. Siamo di fronte a una collettività reale, a una Rete che si interroga collettivamente e si confronta a livello nazionale.

Da quando nel nord Italia si sono manifestati i primi casi abbiamo visto il proliferare di contributi al dibattito, riflessioni, commenti sui social network inizialmente per lo più maschili – come spesso accade, anche le tempistiche con cui si prende parola sono interessate da differenze di genere – successivamente hanno preso parola in modo significativo anche le donne. Tra i contributi molto interessanti Vanessa Bilancetti riflette sulla paura di morire come grande rimosso delle società occidentali.

Inutile girarci attorno: è evidente che non siamo preparati a questo scenario. Ma non siamo uguali nel non esserlo. La postura femminista il suo essere soggetto imprevisto, il suo non era previsto che sopravvivessimo (per alcune/u più di altre) fanno certamente la differenza nel modo di approcciarsi alla comparsa, alla diffusione e alle misure di contenimento del Covid-19. Il dibattito si è polarizzato inizialmente tra chi cercava di minimizzare/negare i rischi che stiamo correndo e chi al contrario invitava a non sottovalutare la situazione. Tra i commenti da social network abbiamo letto i tentativi (inutili) di fare classifiche: fa più morti l’Ilva, l’insicurezza sul lavoro o il Corona virus? Parte della galassia dei collettivi femministi non è stata immune dal promuovere questo tipo di retorica rispetto al patriarcato e ai femminicidi. E qui di nuovo un aspetto da sottolineare: la paura di vedersi potenzialmente sottratta la possibilità di dare visibilità massima a una situazione di violenza estrema com’è quella maschile sulle donne e di genere ha creato immediatamente difficoltà e frustrazione ma qui c’è stata la forza collettiva. Quella difficoltà e quella frustrazione sono state messe al centro del discorso. Sono state collettivizzate e immediatamente politicizzate. Non sono state rimosse. Come scrive Non una di meno Pisa, “il fatto di non poter essere lì dove ci si abbraccia, dove ci si tiene per mano, dove si canta a squarciagola” è un problema ma l’8 marzo non vogliamo rimanere in silenzio.

Le riunioni sono state, allora, le occasioni per condividere e per immaginare insieme pratiche che sapessero informare senza allarmismi ma non sottovalutando, tutelare chi non potrà o non se la sentirà di essere in piazza pensando a modalità alternative per far sentire la voce di tutt. Collettivizzare la cura vuol dire anche questo. Prendersi cura dei nostri percorsi di lotta, non alienarci al contesto circostante ma metterci in ascolto. Quali sono i bisogni? I timori? Dal punto di vista materiale: su quali soggetti sono scaricati i costi? Questa situazione sta mettendo al centro molti dei discorsi che Non una di meno porta avanti da anni: in una parola mette in evidenza la contraddizione legata alla riproduzione sociale come la intende Fraser.

Uno dei limiti delle analisi riguardo l’eventuale stato di eccezione o meno, il fatto di schiacciare tutto sul possibile uso strumentale che lo stato può fare di questa situazione è messo in evidenza molto chiaramente da Emma GainsforthIn questa difficoltà pensare che tutto sia biopolitico, o bio qualcosa, non mi aiuta. Non mi aiuta pensare che lo Stato stia usando il virus per renderci più tristi”. Non mi aiuta una chiamata a resistere, ad attraversare comunque le piazze e i luoghi pubblici infettandoli”. I paradigmi servono come strumenti oppure corrono il rischio di risultare stanchi refrain.

Continua Gainsforth “Ho la sensazione che a volte facciamo precedere i discorsi al sentire, e siamo spaesati di fronte a tutto quello che non riusciamo ad anticipare, prevedere, rassicurare”. Forse il punto è che questi discorsi non tengono adeguatamente conto dell’emotività delle persone a cui dovrebbero parlare, delle relazioni, della cura e degli affetti che sono aspetti politici a tutti gli effetti. Sono discorsi che non sono intrisi di quel sentire. Rischiano di risultare alieni alle preoccupazioni che animano la maggior parte delle persone e a volte rischiano di cedere a una fredda razionalità che diventa incomunicabilità, quando non cinismo. Ma a differenza di Gainsforth non credo sia perché “pensiamo troppo, abbiamo letto troppo, studiato troppo, che ci siamo armati di discorsi che poi ci rendono difficilissimo entrare in contatto davvero con la realtà”.

A me per esempio leggere ha aiutato molto ad approfondire e a mettermi in relazione con le altre riflessioni – eccome se ho letto! –  ma quel che per me ha fatto la differenza è che non l’ho fatto da sola. Ho letto pezzi condivisi da compagni e amiche su chat di gruppo, abbiamo discusso collettivamente a partire dai contributi pubblicati sui vari siti e soprattutto abbiamo costruito una comunicazione delle iniziative che sentiamo l’urgenza di realizzare e provare, per quanto possibile, a rendere attraversabili e solidali. Ci siamo interrogate su cosa potesse voler dire in questo momento rendere attraversabile un’iniziativa. Ci ha aiutato a immaginare diverse modalità per prendere parte alla mobilitazione femminista e transfemminista. Credo dipenda dalla postura con cui leggiamo, pensiamo ecc ecc che se vuole essere immediatamente trasformativa e rivoluzionare lo stato di cose presenti non può prescindere dal sentirle sulla propria pelle e dall’attribuire loro una valenza politica.

Una delle sfide in gioco è che questa postura di tipo relazionale esca dal recinto dei femminismi e contamini quanto più possibile i discorsi e le pratiche politiche: quel che è certo è che siamo di fronte a un tempo in cui si manifestano tutti i limiti di alcune modalità di intendere la politica. Nel bene e nel male siamo chiamati a organizzare le nostre esistenze in modi diversi poiché ormai è chiaro che i vecchi modelli (che non rimpiangiamo) non sono né sostenibili né accessibili. C’è la necessità di ricostruire delle collettività in cui riconoscersi altrimenti l’unico orizzonte possibile continuerà ad essere l’individualismo e in tal senso credo che a poco servano i discorsi colpevolizzanti nei confronti dei singoli accusati di volta in volta di irrazionalità, di stupidità, di egoismo. Il disprezzo per le persone che trasuda da molti commenti in rete non credo sia utile a cambiare di segno gli eventi; diversamente una maggior comprensione e atteggiamento meno sprezzante e giudicante forse potrebbe aiutare a comprendere meglio le contraddizioni e a creare un orizzonte di fiducia.

Mai come adesso è stato evidente che da soli non ci si salva… Ci sono tutte le premesse per costruire un racconto nuovo.