In vigore in Italia dall’inizio di novembre, l’istituto del coprifuoco, apice di tutte le metafore belliche delle quali si è fatto abuso in questo periodo, è anche il contrassegno più vistoso del rischio di scivolare irreversibilmente verso forme di controllo e di selezione dei corpi che si muovono nello spazio pubblico. Gli slogan femministi di alcuni anni fa sulla bellezza delle notti (“la notte ci piace”) e sul “riprendersi le notti”, e con esse la libertà di muoversi nelle strade della città, senza paure, non possono non tornare alla memoria. Normare, vietare le notti significa minare un aspetto essenziale della autonomia dell’individuo. Because the nigth belongs to lovers, belongs to us. Lo scopo del presente, e perdurante, dispositivo “coprifuoco” è quello di generare separazioni e gerarchie che dipendono non tanto (o non solo) dalla preoccupazione per la “salute pubblica” quanto piuttosto da ciò che viene inteso come morale e utile alla produzione e all’ordine costituito (stato, chiesa, famiglia), rispetto a ciò che viene ritenuto amorale ed eccedente (la vita non essenziale). In questo articolo, Luciana Apicella e Sara Gandini, a partire dai risultati di una serie di studi, ci inducono a riflettere seriamente sul problema: è necessario prestare cura a un’idea di salute e di benessere più largo e che molto ci interroga sul senso della vita, come suggerito dall’OMS. Senza notti, senza incontri, senza tempi vuoti che ci aprano alla casualità, alla possibilità, all’esperienza, la nostra esistenza assume non il sapore ideale della tranquillità ma quello della noia, della ripetitività di giorni tutti uguali, tra lavoro e mura domestiche, e dell’eterodirezione. Si rischia, allora, come purtroppo sempre più spesso accade, di morire anche per disperazione

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Nei lunghi mesi dell’emergenza sanitaria, accanto alle sacrosante e universalmente condivise disposizioni per arginare il contagio – riassumibili nelle linee guida dell’OMS di distanziamento interpersonale, igiene delle mani, adeguato utilizzo di dispositivi di protezione individuale – sono stati adottati una serie di altri provvedimenti più ascrivibili alla sfera del mandato morale che non a quella dell’efficacia sanitaria, quantificabile e dimostrabile, delle coercizioni stesse, in una logica di progressivo restringimento dell’esistenza allo spazio dell’essenziale. Gli spazi del superfluo, insomma, sono stati progressivamente erosi, in quanto sacrificabili senza – almeno all’apparenza – eccessivi costi, limitando l’esistenza ai movimenti essenziali, tradotti per lo più nel tragitto casa-lavoro-casa. A nulla vale eccepire che gli spazi citati siano poi quelli che si sono dimostrati maggiormente impattanti in termini di diffusione del contagio, coi focolai domestici e lavorativi che rappresentano una fetta importante del totale: a chi voglia enunciare questo dato, ormai ampiamente dimostrato, si controbatte che il virus è stato portato comunque da “fuori”, intendendo con il “fuori” lo spazio della socialità extra-familiare ed extra-lavorativa, superflua, appunto, e anzi colpevolmente orientata alla ricerca del piacere. Nessuno si domanda per quale motivo il movimento dovrebbe essere unidirezionale: chi ha portato il virus in quel “fuori? Il fuori è sempre e comunque colpevole, nessuna possibilità di appello.

Alla medesima sfera etica pertiene, oggi, la querelle sul coprifuoco, accettata come misura da difendere ad ogni costo da una fetta importante di popolazione, anche al di là dell’efficacia sanitaria, della quale raramente viene chiesto conto: lo spazio della sera è lo spazio del superfluo, quindi del sacrificabile, cui peraltro a cascata si sommano una serie di effetti secondari giudicati desiderabili, in un’ottica di decoro: niente più schiamazzi notturni, niente più frotte di giovani per strada, niente più “evasione”, poiché il momento chiede contrizione, rispetto, una sorta di lutto interiore da manifestare sempre e comunque, come simbolo di adesione, e finanche strategia laterale, ma efficace,  alla lotta contro il virus. Chi osa manifestare nostalgie di quegli attimi in cui, svestiti gli abiti del lavoro, si entra in una dimensione di tempo differente, fatta di lentezza, condivisione, socialità, svago, viene bollato sbrigativamente con i più fantasiosi epiteti.

Un’interessante convinzione che si è radicata, circa il coprifuoco, è quella che la sua efficacia abbia una sorta di auto-evidenza, che non importa dimostrare, per il fatto che “ce l’hanno tutti”: questo d’altra parte è il messaggio che viene veicolato dalla quasi totalità dei media. Abbiamo voluto fare una ricerca per capire se l’assunto fosse vero, e abbiamo verificato che, dei 27 paesi dell’Unione Europea, 12 hanno adottato la misura del coprifuoco: si stratta, oltre che dell’Italia, di Austria, Belgio, Cipro, Francia, Germania, Grecia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna e Ungheria. Quindici invece non lo hanno: si tratta di Bulgaria, Repubblica Ceca, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Svezia; ad essi si aggiungono, extra UE, Islanda, Liechtenstein, Norvegia. La maggioranza dei paesi europei, dunque, non ha il coprifuoco.

Sgomberato il campo dall’equivoco del mero dato numerico (“il coprifuoco lo hanno tutti, quindi significa che è misura efficace”), siamo volute andare oltre, consce del fatto che la nostra visione del coprifuoco quale strategia insensata, autoritaria e moralistica, molto più che sanitaria, avrebbe potuto determinare un difetto del nostro sguardo, un bias cognitivo, per così dire: abbiamo dunque voluto cercare quali fossero le evidenze scientifiche che riguardano l’efficacia del coprifuoco.

Il primo studio che abbiamo trovato è tedesco (https://www.uni-giessen.de/fbz/fb02/fb/professuren/vwl/goetz/forschung/publikationenordner/arbeitspapiere/Curfews) e valuta le differenze nella crescita dell’incidenza e nel cambiamento di mobilità tra le contee che hanno implementato un coprifuoco notturno durante il periodo di osservazione, e quelli che non lo hanno fatto. Tutti i loro modelli suggeriscono che non ci sono prove di differenze significative nella diffusione della pandemia con l’entrata in vigore dei coprifuoco notturni. Gli autori non hanno trovato prove che i cambiamenti di mobilità differiscano, con il coprifuoco notturno, e non trovano evidenze statisticamente significative che il coprifuoco notturno abbia avuto un impatto sulla diffusione della pandemia.

Uno studio francese mostra che hanno avuto addirittura effetti negativi, incentivando le concentrazioni di persone negli stessi orari

https://www.sciencedirect.com/…/pii/S016344532100044X…

Un lavoro pubblicato recentemente su MedRxiv, quindi non ancora revisionato (peer reviewed), ma presentato dal Corriere della sera come studio a sostegno del coprifuoco, presenta una ricerca condotta da alcune delle maggiori università europee e indica che in 7 paesi europei il coprifuoco notturno sembra avere avuto un effetto moderato, attorno al 13% (la chiusura delle scuole attorno al 7%) ma gli autori specificano che l’effetto stimato non è attribuibile solo al coprifuoco e che non sono stati in grado di separare gli effetti delle singole misure.

In molti paesi stanno discutendo sulle evidenze dell’efficacia del coprifuoco sulla diffusione del virus perché non sono per nulla chiare: https://www.dw.com/…/fact-check-how…/a-57172102

https://www.mcgill.ca/…/covid-19…/do-curfews-work

https://science.thewire.in/…/covid-19-curfew-spread…/

Si tratta di evidenze che rafforzano la convinzione circa l’esistenza di una sorta di frame narrativo all’interno del quale ogni misura coercitiva e costrittiva degli spazi del superfluo abbia efficacia in sé, in quanto colpisce tutto ciò che esula dal perimetro della legittimità morale (la casa, il lavoro) e che diventa pertanto sacrificabile in nome del supremo interesse della salute. Un’osservazione che trova conferma in un recente studio (https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0022103120304248?fbclid=IwAR2lFREtgiHFUIZ2Fp8LaC-GPL1KGUzvg-NlcxxnpC3TuLzEh3gLFmFJPGk#bb0295) che mostra come l’approccio moralistico agli sforzi di contenimento del virus basati sulla salute (cioè, per ridurre i decessi e le malattie da Covid-19, o eliminare il virus) ha generato asimmetrie percettive nella valutazione dei costi umani.  Gli autori hanno mostrato che gli sforzi per controllare o eliminare Covid19 siano intrisi di moralità, portando però gli individui ad accettarlo senza alcun indugio, mettendo da parte o trascurando totalmente i potenziali costi collaterali di tali sforzi, che pure esistono e sono dimostrati dall’ampia letteratura disponibile: dal mancato accesso alle cure o agli screening per altre malattie – tradotti in eccesso di mortalità per cause non Covid – a un disagio psicologico e psichico che si diffonde, colpendo con maggior intensità alcune fasce di popolazione, come per esempio i giovani e giovanissimi.

È tempo dunque di uscire da un orizzonte di senso che vede nell’approccio autoritario ed eticamente orientato l’unica possibilità di gestione della crisi pandemica, o peggio che riduce la stessa a una contrapposizione partitica e ideologica. Riaffermare l’essenzialità del superfluo, tornando all’assunto di partenza, significa volersi rifare alla definizione, mai spesso evidenziata quanto meriterebbe, che di salute dà l’Organizzazione Mondiale della Sanità come “uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale” e non semplicemente “assenza di malattie o infermità”. La vita relazionale, la cultura, l’arte, lo sport, sono cruciali nel concorrere alla piena espressione dello stato di salute così inteso. E soprattutto nel momento in cui un vaccino efficace diventa ampiamente disponibile, i costi umani derivanti dalle strategie di eliminazione del Covid-19, come i “morti per disperazione”, possono superare gli effetti diretti sulla salute del Covid-19, ed è ora che se ne cominci a parlare.

 

Immagine in apertura: Martha Rosler, Cleaning the Drapes from the series House Beautiful: Bringing the War Home,1967-72

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