Mi rendo conto di avere due problemi, nel provare a scrivere di Mark Fisher. Il primo è la sensazione di non essere in grado di parlare del suo lavoro con la stessa eleganza con cui ne scriveva lui. La tentazione di lasciar parlare le sue parole però inciampa nel secondo problema, che è difficile citare il suo lavoro, perché ogni paragrafo è indissolubilmente legato al precedente e al successivo a trasformare le sue parole in un magma che avvolge il lettore e lo induce a un’esplorazione integrale, ragion per cui spesso chi inizia a leggere il lavoro di Mark Fisher ci si addentra e dentro vi resta, sentendovisi toccato. Il fatto è che il lavoro di Mark Fisher è come una sorta di diario intimo abitato da fantasmi in cui i racconti in prima persona riescono a mostrare con straordinaria precisione le crepe del mondo neo-liberale, quel covo di vampiri che nei suoi diari emergeva in modo tanto preciso da umiliare in un sol colpo il linguaggio sordo della scienza politica. Mark Fisher parte sempre da se, nei suoi scritti, esattamente come insegna la tradizione femminista. Il suo partire da sé, tuttavia, è inusuale, nei nostri giorni. L’epoca neo-liberale ci ha insegnato il self-branding, quell’arte presentar se stessi che si fonda anzitutto sulla capacità di rifuggire gli angoli oscuri della nostra vita per ammaliare, promuovere e vendersi. Mark Fisher faceva l’opposto. Lui scavava dentro gli angoli oscuri e le passioni subdole, nel tentativo di mostrare in controluce la violenza con cui l’epoca neo-liberale ci forgia come isolati imprenditori di sè pieni di lividi inflitti o subiti.

Il lavoro di Mark Fisher non è stato tradotto in Italiano, a parte qualche testo breve. Uno dei suoi testi brevi più noti in Italiano è Good for nothing, due splendide pagine pubblicate originariamente in Occupied Times e tradotte in Italiano qui e qui. Good for nothing è il racconto della depressione di Mark Fisher, quel tormento interiore che per molti anni lo costringe a episodi di auto-lesioniamo, periodi di auto-reclusione e altri di internamento, lontano dal mondo se non per fare la spesa e poi tornare a nascondersi, per non incontrare nessuno. Non è su questo, tuttavia, che vorrei soffermarmi né è su questo, credo, che ci dovremmo soffermare. Mark Fisher, infatti, parlava dei suoi angoli oscuri per consentire a tutti di ammettere l’indicibile: che stare bene è una questione di classe, ormai. In un certo senso, Mark Fisher parlava dei suoi mondi oscuri in un atto di generosità: metteva se stesso a nudo per consentire ad altri di dissociarsi dalla religione dell’efficienza e del successo che ha contagiato anche la sinistra radicale. In un mondo che crede ancora nell’esistenza di un modo di essere giusto e uno sbagliato, di un modo di essere sano e uno patologico, Mark Fisher condivideva la patologia per disarmare il comando a dimostrarsi normali. In una circostanza ha parlato di scomunica, a indicare come la violenza degli sguardi e delle pratiche di esclusione non fosse limitata alla violenza dall’alto ma assoldasse complici dal basso, incluso nei circoli del pensiero critico, spingendolo a mettere in guardia da pratiche di abuso reciproco e a ripetere che bisognava riscrivere il significato della cura e della solidarietà. In modo straniante e significativo, è a partire dalla sensibilità vibrante e percettiva di quella che normalmente definiamo patologia che diventava possibile dissacrare la religione dell’efficienza e creare uno spazio leggero in cui tutto tornasse possibile, il dissacrante e il superfluo, l’eccentrico e il giocoso, insomma l’innocenza, pur con quella goffa incapacità di dispiegarsi chi non vi è mai stato abituato. In quest’ottica non ha senso partire dal male di Mark Fisher, perché l’intero suo lavoro, la sensibilità gentile che ne caratterizza gli scritti, ha sempre inteso dimostrare che l’origine del male dei nostri tempi non va ricercata nell’anima ma altrove, nella violenza invisibile che scandisce la vita quotidiana e in cui la malattia pare in ultima analisi semplicemente un chiaroscuro, il sintomo della violenza della società neo-liberale.

Good for nothing nasce qui, quale testo meraviglioso in cui raccontava la voce interiore che ha accompagnato la sua vita. “La mia depressione è stata sempre collegata alla convinzione che ero letteralmente un buono a nulla”, scrive. I suoi ricordi parlano della traiettoria precaria dei suoi primi trenta-quarant’anni – un processo scandito da una voce interiore che ripeteva sempre la stessa cosa: “buono a nulla”. Il problema è che questa voce non nasce dalla chimica della mente o nel disagio famigliare, come vuole la psicanalisi, ma piuttosto nel progetto di ri-subordinare la società che da trent’anni cerca di presentarsi non tanto come espressione della violenza delle classi dominanti ma come conseguenza dell’inettitudine delle classi dominate, di quei buoni a nulla costretti a vendersi per due lire perché, ci viene detto ripetutamente, ciascuno di noi vale troppo poco per pretendere di più.

In un testo chiamato Wounds of class ricordava una conversazione con la madre, una signora di Barrow-in-Furness, nel Nord-Ovest inglese, dove lui l’andava a trovare qualche settimana dopo la morte del padre, tra i laghi. Racconta che per qualche motivo aveva voglia di cenare in una di quelle pittoresche sale da the di Hawkshead o Cartmel. Questa idea, scrive, “ha messo mia mamma a disagio. Non ha detto nulla direttamente, naturalmente, ma è diventato chiaro che stava cercando  una via di fuga e di convincerci ad andare a mangiare qualcosa di generico a Ambleside Garden Centre.

[…] Io e mia sorella siamo ormai in gran parte ignari a queste cose, avendo vissuto all’estero sufficientemente a lungo da non essere intimiditi dalle sale da the di Hazelmere. Ma abbiamo dimenticato che mia mamma è quella che è, e che mio padre nonostante il suo fare in apparenza spaccone era lo stesso, perseguitato dalla paura e dalla vergogna in luoghi come quelli, dal senso di non appartenere lì, di essere intrusi, di essere giudicati e pervasi dall’ansia che in qualche modo avrebbero fatto qualcosa di sbagliato, avrebbero dimostrato di non conoscere qualche pezzo vitale di galateo e che la loro inferiorità, la loro posizione, il loro ruolo di casalinga e domestica e di assistente a domicilio, di ragazzo che ha lasciato la scuola a quattordici anni appena finito di poppare il latte per trovarsi a lavorare in un cantiere navale direttamente dalle case popolari di Glasgow, tutto questo sarebbe ritornato come uno spettro non appena li avessero annusati e iniziati a deridere”.

E allora forse quella voce non nasceva nella sua mente né nel disagio famigliare. Sono ferite di classe, scrive, quelle che abbiamo dentro. Si tratta di ferite che non se ne vanno a prescindere dal lavoro, dallo stipendio, da quello che ti accade nella vita ma sono destinate a rimanere in vita sino a che permangono inalterate le relazioni esistenti di potere. La depressione è il volto oscuro dell’epoca neo-liberale ed essere in grado di disconoscerla è a sua volta un privilegio di classe, l’espressione stessa della modalità con cui decidiamo di fare nostre le regole della competizione o di fare del loro superamento la nostra missione, a seconda della capacità di godere all’idea del prossimo che cade a terra perché ci regala l’impressione sadica e impagabile di essere meglio di lui, o del bisogno tormentato di capire in che modo si rifiutano le dannate regole di questo gioco, regole che sono l’humus stesso dell’ideologia del merito e solo in spregio alle quali è possibile minimamente sperare di essere in grado di creare uno spazio diverso in cui respirare. In questo senso il problema non era solo il progetto di ri-subordinazione delle classi dominanti ma lo straordinario, tragico successo di questa pornografia della prevaricazione in ogni anfratto della vita sociale, in quella religione dell’individualità di cui ovunque si rinvedono le tracce, incluso in quelle chiese della sinistra in cui esiste ancora un dogma di self-branding che trasuda di sopraffazione.

Da K-punk a Capitalist realism dal titolo del suo libro del 2009 – il suo lavoro potrebbe essere visto come il tentativo di rintracciare nel nostro mondo la mappa dell’elemento straniante da cui deriva il bisogno di rifuggire il mondo. La luce neon dei centri commerciali, l’amnesia della nostra generazione, la pornografia della povertà, i cartelli keep calm letteralmente ovunque, i monoblocchi in lamiera, la polizia in tenuta anti-sommossa, le prescrizioni di antidepressivi, il genio dei cultural studies che era Mark Fisher si rivela qui, nella capacità di rinvenire nel mondo l’origine del male che si muove dentro – le forze che agiscono contro una società in crisi di panico e costretta ad andare a lavoro, un lavoro che odia, per sempre. Il realismo capitalista è questo, il segnale cinico di doverci adattare al mondo perché non c’è alternativa, perché non c’è denaro dunque bisogna fare sacrifici – perché devi adeguarti alla tua condizione di subalternità, per sempre.

“Viviamo in una cultura che è dominata da manipolazioni emotive di ogni genere”, diceva in questa splendida intervista a Beatrice Ferrara, “che operano mistificando e personalizzando le emozioni, promuovendo una certa ideologia dell’interiorità – l’idea cioè che l’interiorità sia completamente separata dal fuori. Io volevo muovermi nella direzione contraria: spersonalizzare le emozioni, o meglio cercare le radici impersonali del cosiddetto ‘personale’”.

Il sunto del lavoro di Fisher in un certo senso è qui – in quel tentativo di spersonalizzare le emozioni per liberarci della colpa, perché il male dei nostri tempi non nasce in noi. L’intero suo lavoro era proteso a svelarne le cause per liberarcene, riuscendo in questo modo a fare anche qualcosa di desueto, nella nostra epoca: perdonarsi e accogliere. Il risultato è che l’analisi di Mark Fisher non era solo amata. L’amore per i suoi scritti pareva somigliare talvolta a qualcosa come un bisogno, il bisogno di risuonare con qualche cosa di vero, quasi fosse un bisogno vitale.

È evidente in altri suoi scritti come fosse consapevole che questi spazi sono sempre più ristretti.

In un testo del 2013 emblematicamente titolato Exiting the vampire castle racconta il disagio crescente negli ambienti di sinistra, “il puzzo di cattiva coscienza e il moralismo da caccia alle streghe” di certe pratiche della sinistra contemporanea, talvolta inclini a pratiche simili a linciaggi pubblici per ricompattare il branco. “La ragione per cui non ho parlato prima di uno di questi incidenti, mi vergogno a dirlo, era la paura”, scrive. “I bulli erano in un’altra parte del parco giochi. Non volevo attirare la loro attenzione a me”. Il riferimento esplicito è a specifici episodi nella sinistra inglese, ma forse non si tratta di pratiche così isolate, fatte di “messe al bando” nei social network o in occasioni pubbliche che sembravano disegnare un contesto in cui “la classe è scomparsa ma la colpa e la paura sono onnipresenti – e non perché siamo terrorizzati dalla destra ma perché abbiamo permesso ai modi della soggettività borghese di contaminare i nostri movimenti”. Esistono due sinistre, scrive, la moralizing left, la sinistra colpevolizzante che è facile da riconoscere perché il suo scopo è “farti sempre sentire male con te stesso”. E la sinistra ironica, quella che non può giudicare nessuno perché è già malconcia di suo – quella che non si prende sul serio, perché non può, quella in cui molti si sentono a casa.

È facile, scrive, manipolare le emozioni, basta, ancora una volta, credere che esista un modo di essere giusto e uno sbagliato, un modo di essere sano e uno patologico e la scomunica è pronta. I moralizzatori fanno questo, quei personaggi dai lunghi sermoni e talvolta pedegree accademico il cui desiderio, scrive, ricorda quello del sacerdote cristiano “di condannare e scomunicare”. Il punto qui non è quali siano i temi in questione, il punto è il modo in cui rinveniva nelle stesse pratiche della sinistra quella capacità di agire la gerarchia tipica del mondo borghese. La tendenza al self-branding piuttosto che all’auto-ironia che lo portava a dire che il castello di vampiri avrebbe presto risucchiato tutte nostre le energie, non avessimo imparato a dissacrarlo. Non è forse un caso che negli ultimi scritti avesse una sorta di ossessione per i decaloghi, quasi fosse possibile, o forse meglio, quasi fosse divenuto necessario insegnare di nuovo la cura reciproca, se proprio non era più spontaneo. È talmente facile vedere la tragica coerenza di tutto questo che è meglio non farlo. Mi interessa il metodo, perché infondo c’era una regola sola: disarmare il comando a dimostrarsi normali. Spostare in là la barra del pudore per fare spazio agli esiliati del capitalismo realista e trasformare questa arma ridicola nell’unica arma invincibile che abbiamo.

Usciamo dalla casa dei vampiri. Per mano.

Immagine in apertura: Selma to Montgomery March, Alabama, 1965 by James Karales