“Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo… si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest’urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti… A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent’altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire”.
(Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, 1827, Cap. XIX)
In un’intervista apparsa sulle pagine on-line de “La repubblica” del 21 febbraio, i genitori di Giulio Regeni chiedono rispetto per il proprio figlio, prima barbaramente torturato e poi ucciso in Egitto circa tre settimane fa. Hanno preso la parola perché, immagino, non ne potevano più di leggere certe accuse infamanti, più o meno velate, che buona parte dei media mainstream italiani (e su tutti principalmente “La Stampa”) hanno lanciato nei confronti di Giulio in questi giorni: prima spia italiana, poi “amico” degli islamisti, poi ancora giovane un po’ ingenuo mandato allo sbaraglio dalle ciniche docenti anglosassoni con le quali stava portando avanti il suo progetto di ricerca, poi infine possibile informatore o fiancheggiatore (magari a sua insaputa) dei servizi di intelligence britannici. Anche per farla finita con questo ciarpame bisogna scrivere qualcosa su questa vicenda triste, paradigmatica e avvilente.
Questa è una vicenda triste non solo per la morte di un ragazzo di 28 anni, che aveva tutta la vita davanti e che con tutto il suo entusiasmo, la sua passione, la sua “partigianeria accademica” (per dirla con Hobsbawm), cercava di studiare “scientificamente” i movimenti sociali e sindacali che avevano caratterizzato le cosiddette “primavere arabe”. E, sempre citando il grande storico britannico, Giulio ha pagato la sua serietà e rigorosità scientifica, il non essersi voluto chiudere nelle quattro pareti di una camera d’albergo o di una stanza in condivisione, ma di essere andato a farla “sul campo” questa ricerca, andando a conoscere e a intervistare gli uomini e le donne protagonisti/e dei fenomeni che Giulio indagava. Una idea e una pratica che forse qualcuno definirà “velleitaria”, di analizzare, informare, ricercare, creare coscienza in modo autonomo, andando ad investigare luoghi dove nessuno osa spingersi e argomenti che nessuno ha il coraggio di aggredire. Giulio ha pagato con la vita la sua indipendenza intellettuale, ma anche la sua precarietà esistenziale, e la sua drammatica parabola sembra simboleggiare il destino del precariato intellettuale contemporaneo, stretto fra il dover rinunciare al suo sogno di studio e di ricerca e l’accettare “sfide” (in primis quella dell’emigrazione) che possono portarlo su terreni in cui le minime garanzie (anche di incolumità fisica) sono assenti. La morte di Regeni (e quello che è successo dopo) è triste anche perché dimostra ancora una volta – se ancora ce ne fosse bisogno – il carattere sciacallistico-morboso della maggior parte dei mezzi d’informazione nostrani, sempre alla ricerca del torbido, dell’ambiguo, dello “sporco”, di qualcosa che garantisca un “click” in più sul sito o una copia venduta in più in edicola.
Questa vicenda è però anche paradigmatica, perché il semplice saccheggio del raziocinio collettivo non può essere la sola spiegazione del comportamento di giornali e telegiornali sull’assassinio di Giulio. È incredibile come niente (salvo qualche rara eccezione) sia stato scritto o detto sui rapporti economico politici del governo italiano con lo Stato di polizia egiziano: l’Italia è per l’Egitto il maggior partner economico e ha vastissime presenze attraverso colossi come l’Eni o Italcementi. In più, l’Egitto è, dal punto di vista politico-militare, la migliore “testa di ponte” per un’eventuale intervento militare in Libia. Sui rapporti fra servizi di sicurezza, poi, basta solo ricordare la drammatica e vergognosa vicenda di Abu Omar, rapito nel 2003 a Milano da agenti della Cia con la complicità di quelli dell’allora Sismi, poi trasferito in Egitto dove fu torturato e solo più tardi definitivamente liberato nel 2007. Una sorte anche peggiore di quella toccata ad Abu Omar ha colpito in questi anni centinaia di cittadine e cittadini egiziane/i, colpevoli di non essere “in linea” con il regime di Al-Sisi, come l’attivista socialista Shaimaa El-Sabbagh, uccisa durante un corteo per il quarto anniversario della “rivoluzione di Piazza Tahrir” il 15 gennaio 2015. Ecco che quindi nei giorni successivi alla scoperta del cadavere di Giulio, i soliti media mainstream ci hanno inondato di informazioni (tutte da verificare), ipotesi, rivelazioni, congetture, falsità e solo timide denunce del regime militare egiziano e di come, con il pretesto della guerra al terrorismo islamista, tortura, reprime e uccide esponenti dei movimenti di opposizione sociale e politica. Ma soprattutto, nessuna parola sulle responsabilità politiche del governo italiano nell’intrattenere relazioni così strette con questa dittatura. Un governo italiano che, al di là di pelose prese di posizione generiche e formali (come quella, arrivata venti giorni dopo la morte del giovane ricercatore, del capo del governo, Matteo Renzi), niente di concreto sul piano investigativo. Né tanto meno su quello delle pressioni politiche sul regime egiziano. Anzi, il mettere sullo stesso piano la morte di Giulio Regeni con quella di Valeria Solesin, fa parte proprio di quella strategia tesa ad annacquare tutto, a fare un gran minestrone nel quale non ci si capisca più niente, e dove debba rimanere solo la barbarie del terrorismo fondamentalista, e non quella delle dittature militari pro-atlantiste come quella egiziana corroborate dall’opportunismo e dal sostegno delle post-democrazie occidentali, come quella italiana. D’altronde, in questo Paese c’è una vasta tradizione storica, a livello di potere, su come insabbiare, depistare, occultare, spostare l’attenzione su capri espiatori, per poi pian piano cercare di far cadere tutto nel dimenticatoio. Dal cosiddetto “armadio della vergogna” alla cosiddetta “trattativa Stato-mafia”, lo Stato italiano e i suoi apparati non accettano lezioni da nessuno.
E infine, questa è una vicenda avvilente. Perché proprio di fronte ai grandi “misteri italiani” (come li ha definiti in una trasmissione televisiva di successo lo scrittore Carlo Lucarelli), di fronte alla “ragione di Stato” che si fa “segreto”, il movimento dell’opposizione sociale ha in questo Paese scritto alcune delle pagine più belle della sua storia (basti pensare alle mobilitazioni sulla strage di Piazza Fontana a Milano, su quella di Piazza della Loggia a Brescia, su quella alla stazione di Bologna, su Gladio). Un movimento che, al di là di differenze, limiti, errori, era mosso da una profonda visione critica dell’esistente e da una altrettanto profonda visione di quale mondo, di quale società voleva costruire. Oggi, se non fosse per qualche significativa eccezione, sull’omicidio di Giulio Regeni avrebbero prevalso le improbabili, quanto indimostrate, visioni complottistiche (che fanno il paio con lo scandalismo mainstream), quando non il silenzio. Unica iniziativa di rilievo (duole dirlo) è stata quella di Amnesty International attraverso le pagine de “La Repubblica”. Questa mancata reazione dà forse un nuovo esempio della debolezza e dello stato di impotenza in cui versa la coscienza critica in questo Paese narcotizzato: ci sono affari da garantire, diplomazie da rispettare, summit in cui farsi fotografare, imprese da ingrassare, ipocriti discorsi sulla “democrazia” da tenere, mentre un giovane ricercatore ventottenne può essere rapito, torturato a morte (con orecchie mozzate, scosse elettriche, botte) e buttato lungo una strada al Cairo…
Immagine in apertura: manifestazione davanti all’ambascita italiana al Cairo, Egypt, Saturday, 6 febbraio 2016.
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