Giorgio Griziotti, autore del libro Neurocapitalismo. Mediazioni tecnologiche e linee di fuga (Mimesis, 2016), ha scritto alcune note intorno al saggio di Sara Baranzoni e Paolo Vignola “Biforcare alla radice. Su alcuni disagi dell’accelerazione”, tratto dal libro Moneta, rivoluzione, filosofia dell’avvenire. Nietzsche e la politica accelerazionista in Deleuze, Foucault, Klossowski, Guattari (Obsolete Capitalism Free Press-Rizosfera, 2016). Il testo di Baranzoni e Vignola è stato proposto da Effimera come lettura d’agosto.

Pubblichiamo le considerazioni di Griziotti, congiuntamente alla risposta dei due autori di “Biforcare alla radice”. Si tratta di una discussione teorico-politica estremamente importante, che pone l’accento su temi dirimenti: dal ruolo delle tecnologie e delle sue interazioni con l’umano alla proletarizzazione del General Intellect (precariato neoliberale attuale).

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Intorno al saggio “Biforcare alla radice”. Alcuni appunti di Giorgio Griziotti

Sono molto riconoscente a Sara Baranzoni e Paolo Vignola che scrivendo il loro interessante saggio mi hanno spinto ad affrontare il nodo dell’accelerazionismo.

Avevo implicitamente e forse inconsciamente criticato la scelta operata da Srnicek e Williams nel Manifesto per una politica accelerazionista

[1] di focalizzare proprio su quella grandezza vettoriale che è al centro della biopolitica capitalista per prescrivere le soggettività.

Il capitalismo della Silicon Valley, in particolare, basa il proprio potere proprio sulla sua maestria algoritmica nel manipolare le dinamiche dello spazio-tempo all’interno del Bioipermedia che ho descritto come “l’ambito in cui il corpo nella sua integralità si connette ai dispositivi di rete in modo talmente intimo da entrare in una simbiosi in cui avvengono modificazioni e simulazioni reciproche”[2]. Il che mi sembra corrispondere perfettamente a questa ben articolata descrizione di “Biforcare alla radice”:

“società digitalizzata, o società automatica, basata sull’automazione della produzione e sulla governamentalità algoritmica degli individui. Infine, e a proposito dei saperi corporei, con i sensori wearables, i senseables, i dispositivi ambientali di cattura e trattamento dei dati, nonché le biotecnologie di potenziamento cognitivo, la proletarizzazione per mano tecnologica sembra raggiungere persino le radici fisiologiche della sensibilità e l’affettività, e con esse le condizioni di possibilità del saper-vivere e delle altre forme di sapere (saperi teorici e saper-fare)”.[3]

Torniamo all’accelerazionismo: “Biforcare alla radice” ci conduce ad esaminare sotto diversi aspetti quanto sia rischioso e contraddittorio cercare di battersi proprio nella dimensione dominata dal nemico sperando di uscirne vincitori. È un po’ lo stesso limite che possiamo trovare talvolta nei discorsi più radicali sulla decrescita.  Anche qui si rischia di allinearsi, anche se in senso opposto, su un altro dei vettori della governance.

Criticando accelerazionismo e decrescita non si tratta di allinearsi con il mantra della crescita organizzata (a favore della finanza), né di ostacolare a qualsiasi diffusione tecnologica in modo indiscriminato.  La priorità pero non è di correre dietro le irraggiungibili accelerazioni dell’High Frequency Trading borsistico o della società del controllo automatico ma il trovare le dimensioni autonome con i loro vettori portanti che il nemico non si aspetta, dove tra l’altro ci saranno certo decrescite (per esempio dell’enorme complesso che governa l’energia fossile) e fork tecnologici non dettati dall’ossessione di profitto e rendita. Qui però rileggendo il Manifesto ed anche il lungo articolo ad esso dedicato da Toni Negri[4] mi assale una volta di più il dubbio che il “nostro” principio del “dentro contro” che oggi diventa “dentro-contro la sussunzione vitale”, non tenga più la strada, che si stia trasformando in una contraddizione nei termini. Questo forse sarebbe un aspetto da sviluppare e discutere in futuro.

Il saggio di Baranzoni e Vignola mette anche bene in luce l’errore del Manifesto di obliterare come perdente il localismo e l’orizzontalità della “folk politics” il che porterebbe a disseccare mortalmente l’humus, così minacciato dall’inquinamento capitalista, indispensabile all’emergere di una strategia politica di autonomia non sussunta.  A contrario l’auspicio del Manifesto di sentirsi a proprio agio “con una modernità fatta di astrazione, complessità, globalità e tecnologia”[5] pare più una condizione per integrarsi individualmente nel mondo ipercompetitivo e sfruttato del “creative labour” che non un’indicazione politica di “sinistra”.

Il saggio è senza dubbio il risultato di un profondo lavoro di ricerca e costruzione che si basa su solide fondamenta (Marx, Nietzsche), punti di riferimento illuminanti e ormai classici (Deleuze, Guattari, Prigogine e Stengers) o contemporanei come Maurizio Lazzarato, Bifo e, naturalmente, Bernard Stiegler. Il pensiero ed il lavoro di Stiegler, che apprezzo molto, mi hanno spesso ispirato e sono vicini alla corrente di pensiero neo-operaista. Il saggio riprende, ampliandoli e sviluppandoli, alcuni essenziali concetti stiegleriani e mi dà anche l’opportunità di qualche osservazione su punti sui quali da tempo desidero approfondire il dibattito.

Il primo riguarda l’uso del termine “proletarizzazione” che nel saggio e in generale nei concetti di Stiegler mi pare stia a significare il risultato della sussunzione vitale delle moltitudini operata dal capitalismo cognitivo. Il “consumatore perde il saper vivere, annullato dal marketing, ed il lavoratore cognitivo la sua stessa vita mentale formattata dai sistemi informatici del cosiddetto capitalismo cognitivo”[6].

Si tratta di una constatazione che entra fortemente in risonanza con le tesi da me sostenute in Neurocapitalismo, così come quest’altro interessante ampliamento del pensiero stiegleriano: se a livello individuale viene proletarizzata la vita mentale, e se il capitalismo cognitivo si basa sullo sfruttamento della cooperazione tra i cervelli, a livello collettivo ciò che viene proletarizzato, ossia privato del proprio sapere sociale, è niente di meno che il General Intellect.[7]

Non sono del tutto convinto però quando si definiscono questi processi come “proletarizzazione” perché a mio parere non si tratta tanto o solo di una questione epistemologica ma anche politica.

In primo luogo: il termine proletariato, nell’immaginario collettivo rimanda ad un’altra epoca. Il fatto di possedere solo prole e lavoro salariato che caratterizzavano il proletariato all’epoca di Marx e sotto il capitalismo industriale non sembrano più adeguati per descrivere la situazione attuale.

I digital natives di paesi cosiddetti emergenti, pagati un centesimo di dollaro da Facebook per mettere “mi piace” ad una qualsiasi “promozione” a pagamento di Pagine FB non hanno nessun lavoro salariato e probabilmente poca prole e questa osservazione può facilmente essere estesa al precariato del mondo intero.

Forse varrebbe la pena di coniare un termine più corrispondente e storicamente non connotato o semplicemente utilizzare “sussunzione vitale”?

In secondo luogo: si ha talvolta l’impressione che, nel discorso di Stiegler, questa “proletarizzazione” diciamo cognitiva sia un processo ineluttabile. Nonostante l’innegabile compulsione a divenire il proprio profilo, nonostante il disaggiustamento “dovuto ad una trasformazione repentina del sistema tecnico, in cui l’individuazione psico-fisiologica e quella sociale non riescono a stare al passo con l’individuazione tecnologica”[8] l’ambiente bioipermediatico non è a senso unico.

Certo “il capitalismo (contemporaneo) ha imparato a preferire la differenza all’uniformità, i flussi alle unità, gli arrangiamenti mobili ai sistemi fissi comprendendo che il nomadismo è più produttivo delle sedentarietà”[9]. Gli ambienti, per riprendere il Foucault delle lezioni sulla sicurezza, sono lo spazio del concatenamento degli effetti e delle cause e in particolare il Bioipermedia “è il piano della biopolitica e delle tecnologie della sicurezza, delle incertezze e delle catastrofi ma anche quello delle biforcazioni e quindi della possibilità che le cose cambino[10]”.

Azzarderei, per aprire uno spiraglio nel fronte della tempesta che ci minaccia (ed è inevitabile, aggiungerebbe Bifo…), che l’ambiente attuale è potenzialmente più favorevole all’emergere di forme d’organizzazione autonoma di quanti siano esistiti in epoche precedenti, ma anche qui non si tratta di porsi sul piano dell’accelerazionismo.
Non sono queste note il luogo per sviluppare tale tesi ma ricordo solo le contraddizioni beanti che si spalancano davanti alla nemesi storica del capitalismo per parafrasare quanto Christian Marazzi evocava a proposito della fine del lavoro salariato. Il formarsi di un’individuazione in cui la separazione fra neuro-psico-fisiologico e tecnologico si riduce (l’avvento del postumano e il “divenire macchina” direbbe Braidotti[11], di cui però non condivido l’ottimismo incondizionato sull’emergere di una nuova etica non capitalista) apre la strada a prospettive che ancora non conosciamo ma assistiamo a nuove forme di lotta metropolitana e, con la presa di coscienza della separazione fra reddito e lavoro, della necessità di battersi per un vero reddito sociale garantito. Queste sono le non-conclusioni a cui sono arrivato in Neurocapitalismo e che mi paiono ancora valide nel senso che, nonostante le imprevisibili accelerazioni (e non l’accelerazionismo) di cui la storia ha il segreto, i tempi oggi paiono lunghi e ci sono seri dubbi di riuscire ad evitare la tempesta che incombe. E in queste non-conclusioni mi riavvicino a quelle di “Biforcazioni” anche senza entrare nell’affascinante ma complesso discorso sull’entropia né a quello di “un’ordine nelle fluttuazioni” che ricorda le teorie dei cicli come quella di Kondrat’ev, ripresa da Mason in Postcapitalismo.

Termino proprio prendendo spunto dal “divenire macchina” di cui  sopra per accennare più brevemente ad un  secondo ed ultimo punto da discutere. Parto da questa citazione: la tecnica, in quanto materia inorganica organizzata dall’uomo, è per Stiegler la «prosecuzione della vita con altri mezzi rispetto alla vita», ossia un agente di evoluzione non darwiniana…[12]

Ora mi pare che ciò che contraddistingue la fase attuale sia proprio il fatto che questa separazione netta evocata da Stiegler stia sfumando, e che il “divenire macchina” dell’uomo sia tale perché esiste ormai un continuum fra inorganico ed organico come ne esiste uno fra innato ed acquisito e fra natura e cultura. La teoria simondoniana della nascita simultanea e sfasata all’alba della civilizzazione di pensiero tecnico e religione arriva probabilmente ad una svolta epocale:

“i punti/momenti-chiave del mondo primitivo si staccano dal fondo per diventare tecnicità che si cristallizza in oggetto strumentale ed efficace che funziona dappertutto. …. nel diventare oggetti tecnici i punti-chiave del mondo magico preistorico perdono “la loro capacità di formare una rete e il loro potere di influenza a distanza sulla realtà che li attornia”[13].

Nell’entrare a far parte del vivente e nel costituire una rete che ha un potere d’influenza sulla realtà gli oggetti tecnici rimettono in discussione fra l’altro il pensiero religioso, e forse qui c’è una chiave di comprensione dello squilibrio che genera le due necropolitiche (neoliberista ed integralista per essere brevi)  che si affrontano oggi a livello globale; ma anche di prospettive di un’equivalente portata positiva…

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Risposta di Sara Baranzoni e Paolo Vignola

Caro Giorgio e cari tutti,

innanzitutto grazie per il testo che hai scritto, perché dimostra un autentico interesse rispetto non solo al tema dell’accelerazionismo, ma a quello di “come rispondere” al manifesto accelerazionista. Nel “come rispondere” si trova allora anche la questione del “come pensare” politicamente e teoreticamente la tecnologia. Siamo sostanzialmente d’accordo con quello che hai scritto, e la tua ci pare la prospettiva più saggia, per non dire onesta, politicamente e strategicamente. A questo punto, ci viene però da dirti che il tuo discorso sia proprio e precisamente “farmacologico”, nel senso che Stiegler dà a questa parola e al pharmakon di platonica/derridiana memoria (rimedio e veleno al tempo stesso). Perché diciamo che “ci viene da dirtelo”? Perché ci pare che nel concetto di proletarizzazione sviluppato da Stiegler, proletarizzazione indotta da qualsiasi tecnologia, tu non voglia dare importanza, nel discorso di Stiegler, alle chances di soggettivazione (o individuazione, nel senso di Simondon) che queste stesse tecnologie inevitabilmente offrono. Tu stesso, all’interno del tuo discorso e della tua prospettiva, lo affermi, e chiaramente secondo noi a ragione.

Per te il problema forse risiede nel concetto stesso di proletarizzazione in relazione con la tecnologia, ragion per cui proviamo a darti due elementi in più al fine di comprenderne la portata. (Per quanto è ormai diventato quasi un lavoro per noi descrivere i concetti stiegleriani, non siamo gli alfieri di Stiegler (o non integralmente), ma lo conosciamo piuttosto bene e da anni cerchiamo di costruire qualcosa di comune e condiviso tra chi reputiamo essere politicamente e teoreticamente interessante: ecco il perché del concatenamento Bifo-Stiegler-Lazzarato).

Invece che “etimologicamente”, Stiegler recupera il concetto di proletarizzazione dalla lettura che Simondon fa dell’operaio alla catena e chiaramente da Marx. Solo che ciò che Stiegler trova in Marx e Simondon lui lo proietta a ritroso fino a Platone, e in particolare al dialogo del Fedro dove Socrate condanna la scrittura come falso rimedio per la memoria, dunque come pharmakon, appunto rimedio e veleno al tempo stesso. Ogni tecnologia è una forma di scrittura, e l’uso di ogni tecnologia fa perdere qualcosa al suo utente (memoria, sapere, capacità, individuazione, ecc.): in questo senso proletarizza. In un articolo Stiegler ha scritto che “la verità di Platone sta in Marx”, e ciò significherebbe che con il materialismo di Marx possiamo comprendere socialmente e politicamente il pharmakon, ma anche che il concetto di pharmakon è una lente (altro pharmakon, eheh) per la nostra lettura di Marx.

Proletarizzazione vuol dunque dire: perdita. Brutalmente, l’artigiano perde i mezzi di produzione e diventa operaio – e così perde il sapere. Oppure, la perdita d’individuazione di cui parla Simondon, causata dall’industrializzazione e da un rapporto alienante operaio-macchina, per Stiegler è una proletarizzazione. Non solo, ma l’uomo stesso, per essere uomo, deve in qualche misura proletarizzarsi dato che per essere uomo deve essere in relazione con qualcosa di esterno a lui che funge da supporto di memoria (dalla selce scheggiata in poi…). Qui si ritrova già l’ambivalenza del pharmakon e della proletarizzazione. Siamo ben lontani dall’antropologia filosofica tedesca (Gehlen, Plessner, ecc.), del resto conservatrice e reazionaria, che concepisce l’uomo come “mancante di”. Con Stiegler (come con Deleuze e Guattari) l’uomo, prima di essere uomo, non manca di nulla! è componendosi con la tecnica che incomincia a delegare qualcosa all’esterno e in questo senso a proletarizzarsi. Ma, ed ecco il pharmakon, proletarizzandosi accede a nuove possibilità di esistenza (sociali, politiche, cognitive, affettive, ecc.) offerte da quella che tu chiami “mediazione tecnologica”. Quel che succede agli albori dell’umanità, per Stiegler, succede sempre, chiaramente anche nel capitalismo – che per noi non ha inventato la proletarizzazione, ma ha “capito” come amministrarla, governarla, riprodurla, moltiplicarla. Ecco allora che quando dici che forse sarebbe meglio parlare di “sussunzione vitale” invece di proletarizzazione, siamo d’accordo ma fino a un certo punto. Siamo d’accordo perché la proletarizzazione all’epoca del capitalismo cognitivo si dà nei termini di una sussunzione vitale. Però quella che Stiegler vede in Platone non ha a che vedere con una forma di sussunzione capitalistica – è ciò che permette semmai tale sussunzione all’interno di un ambiente tecnico e sociale determinato. In tal senso, la proletarizzazione non è un concetto neutro o neutrale politicamente: è uno strumento, declinato nel modo che cerchiamo di spiegare, per comprendere e criticare il capitalismo in ogni epoca.

Quando scrivi che “per Stiegler la proletarizzazione è ineluttabile”, hai ragione, perché ci proletarizziamo e ci proletarizzano in continuazione. Però anche la deproletarizzazione, per Stiegler, è sempre dietro l’angolo, ed è quello che tu annunci o fai intravedere a più riprese nel tuo libro. Quel che probabilmente è difficile da cogliere di primo acchito è proprio l’ambivalenza del pharmakon, perché la ragione occidentale ha sempre dovuto procedere per coppie dicotomiche in cui una cosa escludeva l’altra. Il pharmakon è invece e precisamente la decostruzione di ogni dicotomia, per dirla con Derrida. Pensare politicamente la tecnologia in termini farmacologici è difficile, ma se non ho letto male il tuo libro, è quello che tu, come Stiegler e pochi altri, stai già facendo.

Un abbraccio a tutti,

Paolo e Sara

 

NOTE

[1] Alex Williams e Nick Srnicek , #ACCELERATE Manifesto per una politica accelerazionista, 2013. Traduzione Italiana M. Pasquinelli

[2] G. Griziotti, Neurocapitalismo. Mediazioni tecnologiche e linee di fuga, Mimesis, 2016, pag. 120

[3] Op. Cit. “Biforcare…”

[4] T. Negri, RIFLESSIONI SUL MANIFESTO PER UNA POLITICA ACCELERAZIONISTA, 2014

[5] Op. Cit. Manifesto…

[6] Op. Cit.

[7] Ibid.

[8] Ibid.

[9] Intervento di Stamatia Portanova alla presentazione di Neurocapitalismo all’ex asilo Filangeri Napoli – 28/06/2016.

[10] Ivi.  Intervento di Tiziana Terranova

[11] Braidotti, R. (2014). il Postumano. Roma: Derive Approdi.

[12] Op. Cit.

[13] Op. Cit. Neurocapitalismo P. 169

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