Alcune riflessioni di Giuliano Spagnul a partire dal libro di Donna Haraway “Chtulucene: Vivere su un pianeta infetto”, recentemente pubblicato per Nero Editions – Collana Not.

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…in un pianeta infetto, danneggiato, irritabile (1).

“La cultura del disastro alimenta speranze raggianti e infinita disperazione e, per quanto mi riguarda, ne ho abbastanza.” (2) Occorrerà continuare a dirlo e a dircelo, sempre in modo non innocente (3), come Donna Haraway continua a farlo da decenni, perché la fede per una tecnologia riparatrice o il pensiero che ormai i giochi siano già fatti non permette di “restare  a contatto con il problema” (4). Pensare che “il nostro fallimento con la catastrofe del riscaldamento globale” non sia altro che “la conseguenza del moto cieco della vita lungo la strada più in discesa, a cui non importa se finisce col precipizio” (5) rischia di diventare una parte importante del problema del riscaldamento globale quanto le cause concrete del fenomeno. Donna Haraway combatte (con, insieme, a fianco a tante e tanti compagne/i di strada) proprio questo tipo di cecità o, per dirla con Hanna Arendt,  assenza di pensiero (6). Le cose stanno così perché il mondo è così e non potrebbe essere altrimenti. Possiamo solo prepararci (armarci?) a ciò che è per sua natura inevitabile. Sulla tecnologia che dovrebbe riparare i propri guai, che sia una fede laica o religiosa, per la Haraway non può che risultare “comica” (7). Ma cosa è lo Chthulucene? Da non confondere con lo Cthulhu “mostro misogino da incubo razziale creato dallo scrittore di FS H. P. Lovecraft”, potremmo forse dire che è una forza che si oppone alla distruttività dell’Antropocene e del Capitalocene; le due definizioni più usate per identificare le dimensioni spazio temporali in cui ci troviamo costretti a vivere e a morire in “questi tempi osceni”. La prima, pur ancora utile, da usare “con parsimonia” mentre la seconda è sicuramente la più aderente alla realtà e cioè al fatto, incontrovertibile, che “non è stato l’Uomo Specie a dettare le condizioni della Terza Era del Carbonio o dell’Era nucleare.” Chthulucene, che rimanda a un mondo ctonio (della terra, o meglio ancora della profondità della terra), non è la definizione dell’era in cui siamo entrati, piuttosto è “una tipologia di tempo e spazio utile per imparare a restare a contatto con il vivere e il morire in forma responso-abile su una Terra danneggiata e ferita”. Alle ere dell’Uomo sopra tutto e del Capitale sopra tutto le “creature ctonie”, “esseri della Terra, al contempo antichi e appena nati” dai confini biologici porosi (che non si sottraggono al rischio che li espone la non appartenenza a una qualche ideologia o a una qualche identità) contrappongono qualcosa di paradossale. Un’epoca, o un passaggio d’epoca, in cui alla ricerca di una nuova idea (una nuova utopia?) si predilige la ricerca delle nuove idee necessarie per poter pensare le nuove idee. Un rovesciamento del nostro modo di pensare, quello a cui siamo tenacemente attaccati e che ci fa continuamente  desiderare che nuove utopie, come d’incanto, nascano all’orizzonte. O che ci fa rimpiangere quelle vecchie, che pur erano qualcosa, e che forse, insistendo, chissà… Avere a che fare con Donna Haraway vuol dire, come avverte la traduttrice Claudia Durastanti, aver a che fare con una scrittura “complicata e positivamente ambigua” e la difficoltà maggiore nel tradurla “sta in quanta ambiguità preservare e quanta sacrificare”. È ovvio, così, che da sempre i suoi libri si sono prestati ad un uso forse un po’ troppo disinvolto, volto più a ricavare facili e accattivanti slogan che cercare di prendere sul serio le sue ambigue e potenzialmente pericolose teorizzazioni sul che fare in questi tempi difficili e sempre più estremi da fine del mondo. È forse per questo che nel proporre oggi di “sostituire il compost al postuman(esim)o”, cioè quel vero e proprio verminaio di esseri e entità umane e non-umane che nella loro ibridazione potrebbero “sbriciolare e sfilacciare l’umano in quanto Homo, questa fantasia malata di un amministratore delegato perennemente intento ad autorealizzarsi e a distruggere il pianeta”, molti non possano far a meno di pensare a una sorta di pentimento (8). O, ancora di più, un “prendere con filosofia” la sconfitta (9). Di ben altra potenza preferire “essere cyborg che dee” (10). La potenza che questo slogan emanava con la visione di un’ibridazione con la tecnologia, anzi con la tecnoscienza (11), rendeva possibile concepire “un’alternativa radicale che eluda la strettoia di una scelta tra rifugio nel naturale e abbandono al progresso” e ancora “consegnare un linguaggio nuovo, un nuovo corredo di immagini, a femminismo e marxismo.” (12) Ma in realtà il cyborg della Haraway è stato, sin dall’inizio, “un ironico mito politico fedele al femminismo, al socialismo e al materialismo”. Un’ironia “che investe contraddizioni che non sono riducibili a un tutto più vasto neanche dialetticamente, descrive la tensione che si produce tenendo insieme cose magari vere e necessarie ma incompatibili.” (13) Insomma è un mito da prendere con le molle e con cui star molto attenti a non cadere nella trappola del prometeico e del superumano. Ciò ovviamente non significa che la figura del cyborg sia stata eliminata e sostituita con altro (14), quanto piuttosto che la necessità di costruire storie si sia imposta, in un qualche modo, a quella di inventare miti. E qui forse ha giocato l’influenza, più volte riconosciuta, di Isabelle Stengers, con la sua esigenza di creare parole (e chi più di Donna Haraway) “che avranno solo il senso di provocare la loro reinvenzione; parole la cui più alta ambizione è di diventare ingredienti di storie che, senza di esse, sarebbero forse state un po’ diverse.” (15) Quindi più che a “un nuovo immaginario a cui attingere per pensare in maniera diversa” (16) i tempi in cui viviamo “sono tempi in cui dobbiamo pensare, tempi di urgenza che hanno bisogno di storie”. Perciò dobbiamo rivolgere la nostra attenzione a ciò che va a costruire l’immaginario: le parole, i pensieri, le idee che lo formano. Haraway riprende questo vero e proprio mantra dall’antropologa Marylin Strathern e coniuga l’importanza di “capire quali idee usiamo per pensare altre idee” con il “capire quali storie raccontano altre storie”, piuttosto che “quali pensieri pensano altri pensieri” o “quali figure raffigurano figure, (…) sistemi sistematizzano sistemi” e così via. Pensare ciò che costruisce prima del costruito. Sapere che i mattoni di ciò che si va a costruire devono essere costruiti a loro volta e che saranno determinanti. Sembra la scoperta dell’acqua calda, ma è un’acqua rivoluzionaria. È la via d’uscita dall’impasse che ha attraversato gli anni dell’orda d’oro: cambiare l’uomo per cambiare il mondo o viceversa? (17) L’urgenza della crisi avviata da una sempre più emergente consapevolezza che “la natura a buon mercato è davvero finita” ci impone di concentrare la nostra attenzione, la nostra energia a quei “processi che ampliano l’immaginazione e possono cambiare la storia”. E su questi processi Donna Haraway attiva una tessitura “né laica né religiosa” in cui intrecciare pratiche condivise tra umani e non umani per imparare a “con-divenire” e “non divenire e basta”. Perché noi “ci relazioniamo, conosciamo, pensiamo e mondeggiamo, raccontiamo storie attraverso altre storie e insieme ad altre storie, altri mondi, altre conoscenze, altri pensieri, altri desideri. E così fan tutte le creature della Terra, compresi noi.” È una nuova coscienza che non anela né a un “desiderio di salvezza o di una qualche politica ottimista, né un cieco quietismo” ma, piuttosto, a imparare a “vivere tra le rovine” del qui e ora, in una storia “sinctonia” che non sia un racconto eroico ma storia “di ciò che esiste e progredisce.” Chthulucene è un’opera su cui occorrerebbe dire moltissimo, mi limiterò qui ad aggiungere un confronto tra una storia antica e una immaginata dalla Haraway nel suo racconto di FS (18) sui bambini del compost che chiude il libro. Quei bambini che hanno sentito l’esigenza di migrare verso luoghi distrutti e collaborare con partner umani e non umani per guarire quei luoghi, costruire reti, sentieri e intrecci per un mondo nuovamente abitabile.” Questi nuovi abitanti appartengono a “ogni classe sociale, colore, casta, religione, laicità e regione, questi membri degli insediamenti diversificati emergenti sulla terra hanno vissuto in base a poche pratiche, semplici ma trasformative, che a loro volta hanno attratto – sono diventate estremamente contagiose per – molti altri popoli e comunità, sia migranti, sia stanziali.” Altri umani, circa duemila anni fa, in quell’impero romano che si è sempre vantato di grande tolleranza religiosa, si riunivano tra loro (senza distinzione tra liberi e schiavi, patrizi e plebei, uomini e donne, vecchi e bambini) per praticare riti bacchici che gli storici dell’epoca, da Livio a Plauto, non potevano non stigmatizzare come scandalosi pasticciacci o tipici esempi di disordine e follia. Se si pensa all’incapacità (o alla scarsa volontà) dei romani di intervenire con serie riforme al problema sempre più urgente delle rivolte servili, che tanti danni sia materiali che umani procuravano, (19) non possiamo non stupirci della tempestività del Senato romano che nel 186 a.C., nell’arco di una sola notte, (concordemente e senza preoccuparsi di quali interessi particolari andava a coinvolgere) emanò un editto che rendeva fuorilegge i baccanali comminando una serie di pene capitali, esili, incarcerazioni ed espropri di beni. (20)È questa una delle tante storie del tempo del Chthulucene, quell’”altrove” in un “altroquando che è stato, è ancora, e potrebbe essere in futuro”. Una storia la cui “pericolosità sociale (…) –che era tale almeno agli occhi dell’élite del potere- doveva essere rappresentata, nel complesso, dalla larga base di consensi, che per la prima volta unificava le diverse forme di marginalizzazione sociale.” (21) La favola harawayana delle Camille è ovviamente di un altro tipo, immagina altri rischi, altre sovversioni, altre pericolose commistioni, diverse da quell’ordine di inversione dei riti bacchici “rappresentato dalla danza, in quanto modello espressivo contrapposto al normale gestire quotidiano; dalla celebrazione notturna del rito, in quanto contrapposto allo svolgersi diurno delle attività quotidiane; dell’assunzione di ruoli sessuali invertiti, dal godimento di cibi, di bevande e di comportamenti erotici al di fuori della norma; dall’ascesa superindividuale di chi è ‘posseduto’ e ‘rapito dagli dei’, che passa da una condizione di dipendenza a una autorità; e infine dalla solidarietà di gruppo, contrapposta al rischio di atomizzazione individuale all’interno di una società in crisi.” (22) Di fatto non possiamo non scorgere nel “pervertimento” (23) di questi riti la stessa forza ibridatrice di “mostruosità” auspicata da Donna Haraway come possibilità generatrice di storie capaci di creare nuove storie per “reagire alla disperazione con la rinascita”.

 

Note

(1): Sopravvivere su un pianeta infetto è il sottotitolo dell’ultimo libro di Donna Haraway, Chthulucene, Nero edizioni, 2019. Arts of Living on a Damaged Planet è il titolo di una conferenza di Anna Tsing citata nel libro della Haraway. Il pianeta irritabileè il titolo di un romanzo di Paolo Volponi, tra i più pulp dei romanzi di FS non statunitense in cui il capitalismo viene presentato come la sintesi perfetta tra il denaro e la merda (su questo romanzo e autore purtroppo molto dimenticato: https://not.neroeditions.com/paolo-volponi-pianeta-irritabile/

(2): da Chthulucenecome tutte le altre citazioni se non specificate altrimenti.

(3): come il cyborg che “non è innocente, non è nato in un giardino, non cerca un’identità unitaria e quindi non genera antagonistici dualismi senza fine (o fino alla fine del mondo).” Donna Haraway, Manifesto cyborg, Feltrinelli 1995, pag. 82.

(4): “Questo libro cerca di argomentare e praticare l’idea che, quando si respinge questo tipo di atteggiamento rispetto al futuro, si resta a contatto con il problema in maniera più seria e vitale.”

(5): Massimo Sandal, Cronaca di un’apocalisse annunciata, dall’eloquente sottotitolo Riscaldamento globale: non ce la possiamo fare, ma probabilmente non ce l’avremmo fatta in ogni caso. https://www.esquire.com/it/news/attualita/a23813538/riscaldamento-globale-apocalisse-climatica/

(6): “mi rivolgo all’analisi che Hannah Arendt ha dedicato al criminale nazista Adolf Eichmann e alla sua incapacità di pensare. La “banalità del male” consisteva proprio in quella resa del pensiero, una resa simile a quella che potrebbe far avverare il disastro dell’Antropocene, con i suoi sempre più numerosi genocidi e specicidi.”

(7): Basta pensare alla tragicomica del Mose di Venezia.

(8): Roberto Paura http://www.quadernidaltritempi.eu/donna-haraway-chthulucene-promesse-mostri-antropocene/

(9): Viola Carofalo http://www.scienzaefilosofia.com/2019/06/29/cyborg-arrugginiti-e-animali-potenti-donna-haraway-alla-ricerca-di-un-mito-per-lantropocene/

(10): Donna Haraway, Manifesto Cyborg, cit. pag. 84.

(11): “La tecnoscienza eccede in modo singolare la distinzione tra scienza e tecnologia, come quella tra natura e società, soggetti e oggetti, naturale e artificiale, tutte opposizioni che strutturano quel tempo immaginario detto modernità. Uso il termine tecnoscienza per indicare una mutazione del racconto storico, simile a quelle mutazioni che marcano la differenza tra il senso del tempo nelle cronache europee medievali e le storie di salvezza, secolarizzate e cumulative, della modernità.” D. Haraway, Testimone modesta, Feltrinelli, 2000,  pag. 30

(12): V. Carofalo, cit.

(13): D. Haraway, Manifesto Cyborg, cit. pag. 39

(14): l’accentuazione, soprattutto nella storia finale delle ‘Camille’, sul discorso della manipolazione genetica “è vista come metafora positiva per l’indagine delle trasformazioni del soggetto politico, in un tessuto teorico più ampio di quello del cyborg.” Loretta Borrelli in Il salto del cyborg, di prossima pubblicazione in Un’Ambigua Utopia n. 10.

(15): Isabelle Stengers, Cosmopolitiche, Sossella, 2005 pag. 22

(16) Valentina Bortolami,  http://universa.padovauniversitypress.it/system/files/papers/2018-1-12.pdf

(17): A questo proposito vedi: http://effimera.org/le-radici-disputa-ancora-antropocene-eo-capitalocene-giuliano-spagnul/

(18) “FS è una figura onnipotente in questo libro, e sta per fantascienza, fabula speculativa, femminismo speculativo e fatto scientifico”, e come spiega la nota del traduttore italiano vanno aggiunte anche “le figure di filo che si creano nel gioco della matassa”, il comune Ripiglino.

(19) Delle  rivolte servili  tra il II° e I° secolo a.C. possiamo ricordare quelle del 136-132 e 104-101 in Sicilia e quella più famosa del 72-71 di Spartaco che coinvolse l’Italia continentale.

(20) Clara Gallini, Protesta e integrazione nella Roma antica, Laterza, Bari, 1970.

(21): C. Gallini, cit. pag. 43

(22): C. Gallini, cit. pag. 61

(23): “La concorrenza tra l’erotismo di gruppo -ed eventualmente ‘pervertito’- dei baccanali e quello istituzionalizzato della cortigiana, socialmente accettato perché in funzione di un sistema familiare riproduttivo e patriarcale, è indice del fatto che nel nuovo rituale è presente una risposta di tipo eversivo.” C. Gallini, cit. pag. 62

 

Immagine di copertina: «Endosymbiosis, tribute to Lynn Margulis», Shoshanah Dubiner, 2012

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