Continua il nostro percorso di avvicinamento al World Congress for Climate Justice con questo saggio che ripercorre le vicende della “Timber War” del Nord California tra gli anni ‘80 e ‘90 del Novecento, con particolare riguardo per la figura di Judi Bari, attivista del movimento Earth First! e organizzatrice del sindacato IWW Local 1. Nella ricostruzione dei presupposti sociali e politici del conflitto si evidenziano le contraddizioni tra capitale, lavoro e ambiente, insieme alle possibilità di costruzione di un movimento che integri i temi dell’ecologia con quelli dell’anticapitalismo e dell’eco-femminismo.
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Introduzione
Il movimento per la giustizia climatica che ha avuto inizio nel 2019 con le mobilitazioni globali del venerdì e con la nascita di nuovi soggetti dell’ambientalismo radicale come Extinction Rebellion, ha riportato l’attenzione globale sui temi della crisi ecologica. L’urgenza e la sostanziale indisponibilità al compromesso con le istituzioni screditate dal fallimento reiterato del Protocollo di Kyoto nel e dell’Accordo di Parigi nel 2015 ha riproposto sulla scena internazionale un ambientalismo radicale che ricorda per certi aspetti quello europeo e Nord Americano degli anni ’80, che aveva come slogan “No compromise” e come mezzi l’azione diretta e il sabotaggio (ribattezzato “ecotage”). I protagonisti di quella ondata di ambientalismo radicale, nello specifico il movimento “Earth first!” e le organizzazioni non governative “Greenpeace” e “Rain Forest Network”, nascevano dalla delusione per l’inefficacia delle associazioni ambientali nate nel decennio precedente e condividevano una sensibilità che si può ritrovare nell’adesione alle tesi della “ecologia profonda” di Arne Naess (Devall, 1991). Non stupisce, quindi, che per certi aspetti, quella sensibilità sia ancora presente e continui ad influenzare questi gruppi, in particolare Extintion Rebellion (Harms, 2022; Westell e Bunting 2020).
D’altra parte, il riaprirsi della frattura politica fra movimenti e istituzioni ha riproposto anche le contraddizioni sottese ad un sistema-mondo strutturalmente costruito sulla crescita economica e sullo sfruttamento di ampie fasce di popolazione. Il conflitto tra ambiente e lavoro che si era delineato proprio negli anni ‘80 nei termini di una opposizione tra salvaguardia della natura e difesa dei posti di lavoro si ripresenta oggi dietro le promesse di riconversione ecologica del capitalismo verde. Le soluzioni che combinino crescita economica, transizione ecologica e salvaguardia del lavoro, in una formula “Win, win, win”, sembrano prolungare l’illusione di poter rimandare nel tempo e nello spazio il problema di un’economia capitalistica strutturalmente insostenibile (Saave e Muraca, 2021). Allo stesso tempo, però, il tema della decrescita, cioè di soluzioni che svincolino le questioni ambientali e sociali dall’accumulazione di profitto capitalista, trova spazio nei movimenti per la giustizia climatica che hanno cercato alleanze con la tradizione delle lotte anticoloniali nel Sud globale.
Alla luce di queste considerazioni, il ruolo dei maggiori sindacati continua ad essere contraddittorio. Se da un lato il sostegno di International Labour Organization (ILO) al modello della “Just transition” sembra voler dare credito alle soluzioni della crescita verde (Saget, Luu, and Karimova 2021), dall’altro l’adesione di questi sindacati ai progetti di riconversione come il Green New Deal è stato piuttosto incerto. Le esitazioni sono state giustificate in nome della difesa dei posti di lavoro, ma le analisi rivelano anche preoccupazioni per la perdita del potere contrattuale del sindacato stesso (Vachon, 2021; Stevis, 2021).
La transizione ecologica, dunque, coinvolge gli aspetti più profondi su cui si basano le nostre società. Non solo i sistemi di welfare basati sulla redistribuzione dei profitti prodotti dalla crescita economica, ma anche i presupposti delle istituzioni democratiche costruite sull’idea di una volontà generale libera perché concentrata solo sul presente (Deriu, 2022). Di fronte a questi limiti oggettivi, niente può garantirci dal fatto che le popolazioni poste nella condizione di dover scegliere tra crescita economica e democrazia preferiscano la prima illudendosi di poter salvaguardare quel che resta del lavoro e del welfare e quindi decidano di costituirsi come “società fortezze” per conservare quel benessere basato sul divario coloniale del mondo (Deriu, 2022).
Per questo, nel quadro brevemente tratteggiato, può risultare di un certo interesse ripercorrere le vicende svoltesi a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 nel Nord della California, note con il nome di “Timber war” e che hanno riguardato il destino delle ultime foreste primarie presenti nel Nord America. Questo conflitto ha visto contrapposti movimenti ambientalisti, grandi corporation, taglialegna, comunità locali e apparati di sicurezza statale. Di particolare rilevanza è stato il ruolo svolto da Judi Bari, una delle principali organizzatrici di quella stagione di lotte, la cui riflessione ha saputo combinare le ragioni di un ambientalismo senza compromessi con le rivendicazioni dei lavoratori, in un’ottica eco-femminista.
1. “Timber war”: una genealogia del movimento altermondialista
I primi segnali dell’apertura di un conflitto che avrebbe contrapposto ambientalisti e lavoratori si hanno nel 1978 con l’approvazione dell’allargamento all’Oregon delle aree del Parco Nazionale. In quella occasione, il supporto al progetto da parte del principale sindacato dei taglialegna, l’International Woodworkers of America (IWA) viene contestato dagli iscritti in una concitata assemblea nazionale, che porta alla sostituzione dei dirigenti (Loomis, 2021).
Il momento di svolta, però, arriva al volgere del decennio con l’elezione di Ronald Reagan, il quale durante la campagna elettorale aveva preso posizioni dichiaratamente avverse alle normative per la tutela ambientale. Le principali compagnie proprietarie delle foreste primarie avevano interpretato la sua elezione come un sostanziale via libera per il taglio indiscriminato e avevano accelerato il processo per poter realizzare i maggiori profitti cercando di batter sul tempo le leggi attuative per la protezione. Sul versante dell’ambientalismo ciò si era tradotto in una rivendicazione degli obiettivi raggiunti nel decennio precedente, indipendentemente dalle considerazioni riguardo alla ricollocazione dei lavoratori (Loomis 2021; Braggs 2012: p. 34).
Nel 1980, all’intensificarsi di questo scontro, viene fondato il movimento “Earth first!” (EF!) da alcuni attivisti fuoriusciti da associazioni come Sierra Club, accusate di essere troppo disponibili al compromesso e inefficaci nella tutela delle aree naturali. Le campagne di EF! si basavano sul principio dell’azione diretta: blocchi stradali, abbracciare gli alberi o piantarvi chiodi e il sabotaggio degli automezzi dei taglialegna. Mentre, nessuna differenza si faceva tra i grandi proprietari delle foreste e i loro dipendenti. Anzi, alcuni esponenti rivendicavano apertamente la propria “misantropia” in nome di un malthusianesimo piuttosto feroce (Shantz, 2002).
Nel 1986 lo scontro si accende anche nella California del Nord, quando la MAXXAM, una compagnia finanziaria, acquista la Pacific Lumber (una delle principali proprietarie di foreste) in una operazione di speculazione finanziaria con l’intenzione di liquidare il capitale (ovvero gli alberi) quanto prima possibile e ridurre i costi del lavoro delocalizzando la lavorazione del legno. Va precisato che non si tratta di un caso isolato perché in modo simile si comportano le quattro principali compagnie proprietarie delle foreste primarie dell’area (Bari, 1994, pag. 11).
Nell’ambito sindacale, la capacità di contrattazione risulta molto indebolita, dato che la IWA accetta un contratto che prevede la riduzione dei dipendenti e un taglio degli stipendi del 25%, sulla base di un impegno, poi non mantenuto, della Louisiana-Pacific di reintegrarli dopo 3 anni. Accetta anche che le compagnie facciano ricorso ai lavoratori a contratto (gyppo loggers) con il sistema dei subappalti che accelerano la dismissione della forza lavoro regolare e minano alla base la capacità del sindacato stesso di rappresentare i lavoratori (Loomis 2021; Braggs, 2012: p. 31; Bari 1994: p. 156).
In questo contesto, inoltre, i due principali sindacati del settore l’IWA e l’Unione dei Carpentieri (UCB) si prestano ad appoggiare la propaganda padronale che intende attribuire la responsabilità della perdita di lavoro e salari alla legislazione ambientale. Nello specifico, tra le varie iniziative, la più significativa è quella che ha come slogan “Salva un taglialegna, mangia un gufo”. Questa campagna si riferiva alla richiesta degli ambientalisti che l’autorità pubblica dichiarasse le foreste primarie habitat indispensabile per la salvaguardia del gufo maculato, una specie a rischio di estinzione.
Lo scontro si era, quindi, cristallizzato tra lavoro e ambiente, con le istituzioni locali di fatto incapaci di fermare il taglio indiscriminato, né la perdita di posti di lavoro. Mentre cresceva l’attività di EF!, le tensioni aumentavano, anche per il caso di un taglialegna ferito dai chiodi infilati negli alberi per evitarne il taglio (tree-spiking). In questo contesto, Judi Bari, che partecipava attivamente alle mobilitazioni di EF!, aveva cominciato ad organizzare i lavoratori del legno in un sindacato che tentava di unire le richieste dei due fronti: “Earth first! – IWW Local 1”.[1] Tra il 1988 e 1990 il tentativo di riattivare lo spirito rivoluzionario del sindacato dei primi del Novecento si era gradualmente radicato nei lavoratori delusi dal comportamento di altri sindacati e coinvolti a partire dai problemi legati alla sicurezza, come gli incidenti per l’uso di sostanze chimiche nella lavorazione del legno. In particolare, Judi Bari rappresentò 5 lavoratori che erano stati intossicati da PCB di fronte alla commissione locale per la salute dei lavoratori (OSHA) (Bari 1994: p. 67).
Un anno cruciale risulta il 1990, quando l’attività del gruppo EF! della California del Nord passerà da un attivismo di poche decine di persone ad un movimento di massa nella prima “Redwood Summer”, una campagna ideata da Judi Bari sul modello della “Mississipi Summer” del movimento per i diritti civili degli afroamericani. Sono da menzionare alcune tappe di questo anno cruciale: l’ufficiale rinuncia della sezione “Earth First!” della California del Nord alla pratica di chiodare gli alberi a seguito della richiesta esplicita di alcuni lavoratori vicini alle istanze del gruppo ambientalista; il licenziamento da parte della Louisiana Pacific (L-P) di 195 lavoratori della segheria per delocalizzare la produzione in Messico; la successiva occupazione della Contea da parte del gruppo “Earth First! – IWW Local 1” per chiedere di intervenire contro la L-P e sequestrarne la proprietà; la promozione da parte di Judi Bari e Darryl Cherney della Redwood Summer nelle Università californiane che portò all’attentato contro di loro con una bomba piazzata sotto il sedile della loro auto. La notizia dell’attentato e la successiva accusa da parte dell’FBI di essere loro stessi responsabili del trasporto dell’esplosivo portò l’attenzione a livello nazionale e ciò trasformò la mobilitazione in un movimento di massa (Bari J. 1995: p. 66-80; Shantz 1999, 2002).
L’anno successivo, grazie all’attenzione raggiunta, si arriva alla protezione del gufo maculato. Un altro passaggio decisivo sarà l’approvazione nel 1993 del Piano per le foreste del presidente Clinton che prevedeva la protezione del 70% delle foreste primarie nella California del Nord, ma garantiva alle imprese la possibilità di delocalizzare le lavorazioni, mentre poco o nulla era previsto per la ricollocazione dei lavoratori del legname. Questo piano ha sancito le contraddizioni in campo dato che nessun costo fu attribuito alla proprietà, mentre le ragioni dei lavoratori sono rimaste pressocché inascoltate, in particolare la perdita di posti di lavoro nelle città che avevano un’economia prevalente nel taglio e lavorazione del legname (Loomis, 2015: p. 229). Inoltre, pur portando alla protezione delle foreste, le politiche ambientali non hanno, però, avuto effetto positivo sugli impatti globali dato che il consumo complessivo della materia prima “legno” da parte degli USA è continuato ad aumentare sostenuto dalle importazioni da Paesi del Sud globale (Loomis 2015 pag. 230).
In ogni caso, le azioni di Earth First! continuarono, come pure i tentativi di alleanza con i sindacati e le mobilitazioni contro la MAXXAM. La “Redwood Summer” nel corso degli anni ‘90 diventò il terreno di formazione di una nuova generazione di attivisti, fino a coinvolgere 12.000 persone nell’estate del 1998 (Braggs, 2012: p. 112). Inoltre, il giornale “Earth First!”, venduto tra i simpatizzanti diffusi in tutti gli USA, collegava le diverse campagne per la tutela della natura selvaggia con il contrasto alle attività di lobbying delle compagnie private. Inoltre, allargava lo sguardo alle lotte nel Sud globale, come il nascente movimento Zapatista.[2] Nel corso del 1999 sono presenti nel giornale diversi articoli che spiegano l’importanza del summit dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) che si svolgerà a dicembre a Seattle. Il contributo di EF! al blocco del summit, meglio noto come la “battaglia di Seattle”, è ampiamente riconosciuto, sia nell’organizzare la “Direct Action Network”, sia nel nascente “Black bloc” (Graeber, 2009; Peck, 2020; Solnit, 2000).
In conclusione, l’azione del gruppo Californiano di EF! a metà anni ‘90 e la riflessione di Judi Bari sul rapporto tra ecologia profonda, eco-femminismo e anarco-sindacalismo è stata una parte fondamentale della costruzione del movimento altermondialista.[3]
2. Il sindacato nelle lotte ambientali nella “Redwood Forest”: nocività, lavoro, comunità
Le azioni del sindacato dei taglialegna nello scontro degli anni ‘80 ci restituiscono un’immagine distorta rispetto alla loro sensibilità, dimostrata nel tempo riguardo alle questioni ambientali. Infatti, esiste una lunga tradizione di lotte sindacali legate alle condizioni ambientali dei lavoratori e diversi tentativi di ottenere leggi a tutela sia dei lavoratori che delle foreste (Loomis, 2021). La storia si può far risalire all’attività del sindacato rivoluzionario Industrial Workers of the World (IWW) che riuscì agli inizi del ‘900 a organizzare i lavoratori con un approccio comunitario, rivendicando il miglioramento delle condizioni di vita nella foresta, la salubrità degli spazi, del cibo, dei servizi igienici e denunciando l’inquinamento prodotto dalle lavorazioni (Loomis, 2021; Cartosio, 2007).
Dopo la violenta repressione del sindacato tra il 1917 e il 1920 (red scare), una nuova organizzazione radicale si forma nel 1935 da una scissione del sindacato dei Carpentieri (UBC): l’International Woodworker of America (IWA). Ma a differenza della struttura a rete e non gerarchica dell’IWW, l’IWA ha una struttura verticistica paragonabile a quella degli altri sindacati del tempo (Loomis, 2021).
Tra il 1935 e il 1947 la leadership comunista dell’IWA, sfruttando l’impegno di Roosevelt per la salvaguardia delle risorse nazionali, propone la pianificazione pubblica per la gestione sostenibile della foresta grazie alla consulenza di un professionista del corpo forestale, Ellery Foster (la cosiddetta “Agenda Foster”). Un piano che prevede una forte regolazione delle aziende e l’acquisizione nazionale dei terreni disboscati per un lavoro di riforestazione (Loomis, 2021).
Nel 1947, con il Maccartismo, la segreteria comunista viene esautorata e si dimette anche Foster. Il sindacato si affilia all’AFL-CIO, il più grande degli USA, che nella sua storia ha avuto un atteggiamento più corporativo e conciliante verso la grande proprietà e il governo. La tradizione ambientalista dell’IWA, però, non si esaurisce, ma sposta l’attenzione verso il tema della nocività producendo nel 1977 il piano “Total work enviroment” che deve garantire le procedure di sicurezza nei luoghi di lavoro e ridurre i rischi di inquinamento ambientale. Inoltre, i vertici continuano a collaborare al progetto di espansione dei parchi nazionali cercando di ottenere la salvaguardia dei lavoratori del legno (Loomis, 2015: p. 123).
Lo schiacciamento, quindi, sugli argomenti della proprietà in tema di tutela ambientale, più che un destino del sindacato appare il segnale più evidente del suo indebolimento e un punto di svolta verso la sconfitta dei lavoratori. D’altronde, la diminuzione dell’occupazione è un fenomeno di lungo periodo che non ha a che fare direttamente con le leggi di protezione ambientale, ma riguarda la delocalizzazione delle lavorazioni secondarie e i processi di automazione cominciati già negli anni ‘60. Non è da sottovalutare, però, anche la rottura tra la base e i vertici dell’IWA su questi temi, influenzata sia dall’acuirsi della crisi, sia dall’atteggiamento di altri sindacati come l’Unione dei Carpentieri (UBC) da sempre contrari al Parco Nazionale. Questo scollamento, come già detto, portò nel 1978 alla contestazione dell’allargamento del Parco nazionale (Redwood National Park), a cui seguì l’elezione di nuovi dirigenti che rifiutarono le politiche ambientali degli anni passati (Loomis, 2021 e 2015).
Dunque, la nuova segreteria dell’IWA avrà le sue responsabilità nella costruzione del conflitto tra ambientalisti e lavoratori della “Timber war”, in quanto firmerà una serie di accordi al ribasso con la proprietà e successivamente darà sostegno alle campagne padronali contro gli ambientalisti e le leggi per la protezione ambientale. Inoltre, nelle interviste e nei resoconti di Judi Bari, il sindacato è presentato più volte come corrotto e inefficace nel difendere i diritti dei suoi affiliati (Bari, 1994: pp. 16/17; 67; 136; 156).
Il contributo di Judi Bari alla comprensione del conflitto è rilevante, come gli sforzi di promuovere una soluzione che combini le ragioni degli ambientalisti con quelle dei lavoratori. Si tratta di una riflessione intellettuale che accompagna l’azione politica; quindi, i suoi scritti sono sempre calati nella situazione da affrontare. L’unico testo di carattere generale è Revolutionary ecology, del 1995. Mentre, la lunga esperienza come attivista per la giustizia sociale nell’ambito del suo lavoro di carpentiere è alla base della sintesi proposta tra movimento sindacale e ambientale.
Nel più ampio contesto nord-americano, la riflessione sul rapporto tra lotte sociali e ambientali, il dibattito nel mondo ambientalista a fine anni ‘80 è polarizzato tra le riflessioni di Murray Bookchin e quelle Dave Foreman (fondatore di Earth First!).[4] Il primo viene dalla tradizione socialista e quindi considera l’ecologia come un ripensamento delle rivendicazioni sociali, mantenendo comunque una visione sostanzialmente antropocentrica. Per il secondo, invece, l’opposizione Natura/Società è irrisolvibile e le ragioni della natura richiedono un ridimensionamento di quelle umane. Le due visioni, pur rimanendo antitetiche, presentano una certa consonanza nella poca considerazione del ruolo attribuito ai lavoratori e alle loro organizzazioni. Per Foreman addirittura non esisterebbero differenze tra i lavoratori e i loro datori di lavoro, mentre Bookchin li considera eccessivamente compromessi nel sistema keynesiano per poter svolgere ancora un ruolo trasformativo che per lui è ormai affidato alle assemblee popolari delle comunità locali (Bookchin 1985; Shantz 1999).
La distanza tra i due è profonda, in quanto il fondatore di Earth First! derivava la sua difesa della wilderness dai movimenti conservazionisti, come il Sierra Club, da cui si era dissociato per il giudizio negativo riguardo all’efficacia delle azioni. Quindi, l’attenzione del movimento era focalizzata sull’urgenza di creare delle zone da cui escludere le attività degli esseri umani, senza riguardo particolare per la popolazione locale. Per Foreman il dualismo Natura/Società doveva risolversi a favore della prima anche nel caso in cui ciò dovesse mettere in discussione il benessere umano (Braggs, 2012: p. 66). Il mantenimento di questo dualismo era funzionale ad un approccio sostanzialmente conservatore dal punto di vista sociale. Si trattava, inoltre, di un sentire diffuso all’interno di EF!, che metteva l’accento sul problema della crescita della popolazione e si esprimeva nei termini della “misantropia”, prestando il fianco a visioni suprematiste.
L’azione di Judi Bari si colloca, invece, su di un piano diverso che coniuga le tesi dell’ecologia profonda con quelle del sindacalismo rivoluzionario. Dal suo punto di vista, Earth First! non può rimanere un movimento conservazionista; si tratta di espanderne le rivendicazioni per includere nella strategia di salvaguardia della natura la trasformazione di quel sistema sociale che produce la devastazione. Questa trasformazione deve passare da un coinvolgimento delle comunità che subiscono questi processi, a partire dalle difficili condizioni dei lavoratori del legno. Quindi, spinge il movimento a superare questo limite sottolineando che accettare gli attuali rapporti di proprietà delle grandi compagnie significa accettare il compromesso definitivo. Inoltre, porre sullo stesso piano la proprietà e i lavoratori significa non comprendere che questi ultimi subiscono le decisioni delle compagnie tanto quanto le foreste che devono abbattere (Bari, 1994: p. 55).[5]
Già dal 1988, con la fondazione della sezione IWW Local 1 coordinata con EF!, Judi Bari aveva cominciato questo dialogo con i lavoratori del legname. In un articolo del 1989, “Industrial worker”, analizza il ruolo delle compagnie e il potenziale di organizzazione, invitando gli attivisti a seguire l’esempio dello storico sindacato e farsi assumere da queste compagnie per far partire l’organizzazione dei lavoratori dall’interno. Ricorda che il lavoro di taglialegna è il più rischioso in termini di incidenti; riassume le condizioni contrattuali e i licenziamenti avvenuti; dà indicazioni sul fatto che l’organizzazione di questi lavoratori può partire dal comune sentire della violenza delle compagnie, ma si deve basare innanzitutto sulle questioni della nocività e delle condizioni di lavoro; sottolinea il fatto che i lavoratori possono contribuire alle iniziative di lotta fornendo informazioni dall’interno fondamentali per l’efficacia delle azioni di protesta (Bari, 1994: p. 11). Mentre il fondatore di EF! Dave Foreman abbandona il movimento, il rapporto con i taglialegna ha un momento di svolta nel 1990 con la rinuncia a mettere i chiodi negli alberi. Ciò ovviamente apre una spaccatura all’interno di EF! e Judi Bari sostiene l’inefficacia di questa modalità di sabotaggio in due lunghi articoli, in cui sostiene l’importanza della disobbedienza civile di massa (Bari, 1994: p. 264 e 271).
L’importanza del lavoro di Judi Bari in questo contesto sta non solo nell’aver creato i presupposti per un’alleanza tra ambientalisti e lavoratori, ma anche di averla sviluppata nella direzione di una pianificazione dal basso del ripristino delle foreste, prevedendo forme di taglio sostenibile (Bari, 1996). Il progetto corrisponde idealmente alla transizione verso un’economia dei beni comuni (Barca, 2023; Garcia-Lopez, 2021). L’occasione si presentò nel 1993 nell’ambito dell’implementazione del programma di Clinton per l’acquisizione della “Headwater Forest”. In quel contesto, l’IWW Local 1 elaborò un piano per la riqualificazione forestale che fu steso in collaborazione tra attivisti di EF!, lavoratori disoccupati e occupati del legname, e fu presentato alla commissione che si occupava di redigere il testo di legge. Obiettivo della proposta era stabilire che i lavoratori che avrebbero perso il lavoro a seguito dell’acquisizione pubblica delle foreste sarebbero stati occupati a tempo pieno nei lavori di ripristino delle fasce danneggiate dal taglio indiscriminato, oppure sarebbe stata finanziata la loro riconversione ad altre attività economiche locali. Il piano considerava i lavoratori come portatori di specifiche conoscenze del territorio e prevedeva una gestione degli ecosistemi che comprendesse anche la selezione futura per il taglio del legname. Si chiedeva, inoltre, che alle compagnie non fosse riconosciuto alcun indennizzo, ma che i fondi stabiliti a tale scopo fossero dirottati innanzitutto al rifinanziamento dei fondi pensione dei dipendenti che erano stati defraudati dalle speculazioni finanziarie della proprietà (Bari, 1996). Nella legge approvata si trova solo un cenno al tema, ma la questione continua ad essere dibattuta negli anni successivi.[6]
Il tentativo di Bari, per quanto limitato, mostra come un approccio di ecologia profonda non sia incompatibile con le ragioni dei lavoratori; evidenzia le potenzialità che questa alleanza può avere nel comprendere a fondo le ragioni del conflitto ambientale e nel costruire un più solido rapporto con le comunità locali. Dimostra che questa alleanza si può raggiungere mettendo il tema del lavoro nel contesto di una lotta trasformativa che preveda un cambio di paradigma negli equilibri tra lavoro di produzione e di riproduzione in un’ottica di beni comuni (Barca e Leonardi, 2018; Garcia-Lopez, 2021).
In questo passaggio, secondo Judi Bari, non si può prescindere dal coinvolgimento diretto dei lavoratori a partire dai temi della nocività, del salario e dei diritti del lavoro.[7] Ma nell’articolare le rivendicazioni, dalla tutela del posto di lavoro alla trasformazione ecologica del lavoro stesso, la tradizione del sindacalismo rivoluzionario dell’IWW può essere ancora un modello a cui guardare.[8]
Al contrario, le strutture verticistiche dei sindacati corporativi sviluppatesi negli anni ‘30, come già analizzato nello studio di Charles Wright Mills[9], oppongono un limite interno alla saldatura rivoluzionaria dei due ambiti di rivendicazione, quello della produzione e quello della riproduzione (Barca e Leonardi, 2018). D’altra parte, un’organizzazione di base come l’IWW presenta limiti oggettivi di efficacia nella difficoltà di raggiungere la massa dei lavoratori. Nonostante questo, può diventare, come nella “Timber war”, un efficace strumento di moltiplicazione delle forze in campo.
4. Femminilizzazione della società e violenza strutturale
Il tema della violenza attraversa la storia e la riflessione di Judi Bari, entrando nel dibattito interno al movimento EF!, con lo scontro sulle tecniche di sabotaggio. Nell’articolo Feminization of Earth First!, l’autrice ricostruisce i motivi che l’hanno portata a partecipare alle attività del gruppo per la difesa delle foreste primarie. Da un lato la radicalità presentata dall’adesione alla filosofia della deep ecology e dall’altro la possibilità di partecipare ad un gruppo organizzato in modo non gerarchico (Bari, 1994: p. 219). Questa caratteristica per i fondatori di EF! derivava dalla stessa deep ecology, in quanto consideravano una delle cause della crisi ecologica il fatto di avere costruito una società gerarchica, ontologicamente in opposizione con le modalità organizzative della natura. Pertanto, a differenza di altre associazioni coeve come Greenpeace, EF! non aveva strutture formalizzate, ma considerava che fosse sufficiente un’adesione ideale alle tesi della deep ecology e l’impegno nell’azione diretta (Braggs, 2012: p. 37).
Lo scontro con i fondatori del movimento avviene sulla questione di cui abbiamo già parlato, cioè l’alleanza con i lavoratori del legno e la conseguente rinuncia alle azioni di inchiodare gli alberi che metteva a rischio l’incolumità dei lavoratori. Da qui prende avvio una riflessione che riguarda anche le strategie di movimento e gli equilibri di genere: da un lato, le azioni ardite ma solitarie di piccoli gruppi, dall’altro l’appello a un movimento di disobbedienza civile di massa (la Redwood Summer) radicato nelle comunità in cui si sta lottando. Nella prima fase le azioni di coraggio erano spesso guidate da maschi, nella seconda invece il ruolo delle donne era diventato prominente. Bisogna chiarire che Bari non rifiuta totalmente le tecniche di sabotaggio, che continua a considerare forme di lotta legittima, se non mettono a rischio le persone. Inoltre, non considera in modo essenzialista i tratti culturali maschili e femminili, ma reclama un riequilibrio che porti a valorizzare nei maschi come nelle femmine le caratteristiche oggi attribuite al genere femminile (Bari, 1994: p. 219).
Altro aspetto rilevante del dibattito interno è la presa di distanza rispetto alla misantropia esaltata da alcuni attivisti in nome del biocentrismo. Per Bari, infatti, il soggetto responsabile della catastrofe ecologica non è l’umanità in astratto, ma alcuni gruppi di esseri umani determinati storicamente, geograficamente e anche dal punto di vista del genere. Più precisamente è il maschio, bianco, portatore di una cultura tecnocratica. In questo senso, l’antropocentrismo va più precisamente identificato come andro-centrismo. Accusare tutta l’umanità di essere responsabile della crisi ecologica significa nascondere le reali responsabilità di quei soggetti e dimenticare le vittime che corrispondono a intere popolazioni, come nel caso degli indigeni (Bari, 1994: p. 82).
Infine, in un articolo del