Che cosa mai volevano i carnefici dell’Inquisizione, si domanda Baudrillard nel breve saggio Territorio e metamorfosi? Una confessione che istituisse una causalità dolce, una causalità rassicurante – bisogna far dire all’accusatə la sua colpevolezza, per poi illustrare a tuttə che la colpa risiede più lontano, o più vicino, in un emendabile principio del male. L’annichilimento di questo male nel supplizio inflitto è conseguenza naturale – non perversa e nemmeno espiatoria – dell’aver incarnato il male, di averlo portato in essere laddove esso è solo mancanza. «Chi è responsabile della crisi climatica?», si chiede oggi Jason W. Moore nella prefazione a Oltre la giustizia climatica. Verso un’ecologia della rivoluzione, tradotto e curato da Gennaro Avallone per i tipi di ombre corte. «Chi è responsabile della crisi climatica?», chiede la Buona Scienza, che non esita a rispondersi, e a risponderci, che il colpevole è l’essere umano, l’Uomo o l’Anthropos, che probabilmente nemmeno volendo ha introdotto, nel corpo immacolato e vergine della Natura, un principio di corruzione e di disfacimento. L’annichilimento di questo male, dice la Buona Scienza e conferma l’ambientalismo dei ricchi (espressione che Moore mutua da Dauvergne), è conseguenza naturale – non perversa né espiatoria: impareremo mai qualcosa da quella crisi che è l’Antropocene, abbiamo mai imparato qualcosa dalle zoonosi, dalle pandemie? – di una mancanza sostanziale, insita nella natura tarlata dell’Uomo: che guasta quella Natura che Lui Stesso abita, rendendola inferno in Terra e che ora richiede che Questi debba apprendere una nuova morigeratezza dei costumi per poter sopravvivere.

È proprio questa confessione di colpevolezza e di responsabilità che Moore immediatamente sconfessa per reindirizzare altrove: «Si scopre che dire “È stato l’uomo!” Può oscurare tanto quanto chiarire. C’è un mondo di differenze politiche fra il dire “Sono stati gli esseri umani!” e “Sono stati alcuni esseri umani!”» (p.  21). Di più: parlare di cambiamento climatico antropogenico è un’accusa rivolta proprio a coloro che del cambiamento climatico sono anzitutto vittime. «Si può individuare un’alternativa più accurata? Certo. La nostra è un’epoca di crisi climatica capitalogenica» (p. 21). La crisi climatica è fatto dal (del) capitale, certamente non suo sottoprodotto né un effetto collaterale, ma una – naturale? ineludibile? – conseguenza di un sistema imperialistico ed estrattivo che ha giocato la propria sussistenza su un doppio processo di valorizzazione e di svalorizzazione, creando nature a buon mercato attraverso una continua espansione delle sue frontiere sino alla ricostituzione di una planetaria Pangea (il Capitale riunisce ciò che era stato diviso, o meglio: dividendo e separando, uniforma a sé), nuova terra immediatamente appropriata attraverso quella rete di saperi-poteri che sono stati, e sono tutt’ora, genere, razza e specie (nominando non individui sovrani né liberi ma creature ancora bisognose di indirizzo e disciplina, il Capitale se ne legittima la gestione). Questa storia è ciò che l’Antropocene provvede a occultare, raccontando di un’umanità sempre uguale a sé stessa (il suo cammino in avanti: il Progresso) e una Natura presa in cicli regolari e stagionali (Natura meccanica e muta) – quella Natura la cui elaborazione concettuale è andata rifinendosi dopo il 1492: «Insieme di oggetti da scoprire, identificare e assicurare per l’accumulazione», «non semplicemente una nuova “idea”», ma «una strategia di potere» (p. 44).

Capitalocene, allora, è innanzitutto protesta contro il dettame dell’egemonia: non nominare il sistema così che possa mantenersi nella propria ideologica necessità. Il risultato è un’insensata conta dei corpi sterminati, corpi femminilizzati, razzializzati e disabilizzati, corpi animalizzati e naturalizzati, cui non è stata data voce nel capitolo della Storia – insegna però Gramsci dal suo carcere che il silenzio per noi è gorgoglio e stridio dellə subalternə di cui non vogliamo, né possiamo, restituire un registro; che la sola meccanicità (dei cicli naturali), che la pura spontaneità (l’Animale, il Selvaggio, la Donna e il Folle) è fraintendimento di una soggettività che si prepara invece a colpire o a restituire il colpo. Ed è qui, oltre le barricate e le casematte del Capitale, che si vuole unico sistema possibile, sistema senza alternative e la cui fine è addirittura impensabile, che si apre la riflessione di Moore, ricerca che lo studioso «propone da circa due decenni, all’interno del world-ecology research network», «con l’obiettivo di comprendere i processi storici e strutturali che hanno dato vita nel tempo, specificamente dalla fine del 1400 in avanti, con l’affermazione dell’ecologia-mondo capitalistica, a tale inferno planetario» (p. 8). Quello che abbiamo sinora conosciuto è un rapporto socio-ecologico che ha istituito, e continua a istituire, altre vite come risorse da cui disporre, se possibile, o da annullare, se esaurite o se diventano ostacolo alla ri/produzione. Ancora Baudrillard in Territorio e metamorfosi: in quale altro modo intendere quell’ultima espansione di frontiera, mai solo materiale ma anche simbolica, che è fra tutte il benessere animale – ennesimo psichismo della bestia da soma che deriva «soltanto dall’impossibilità di sfruttare a morte (gli operai), di incarcerare a morte (i detenuti), di ingrassare a morte (le bestie)»; in quale altro modo intendere il corpo ancora e sempre condotto all’interrogazione della scienza perché ne possa estrarre quel male, quel po’ di resistenza che ancora sembra opporre, se pur con la protesta silente, con la malattia, con il suicidio?

«Negli anni Ottanta il Nuovo Ambientalismo è stato sempre più in alleanza esplicita con il potere delle imprese e con il perseguimento di soluzioni orientate al mercato» (p. 51) – si pensi al lessico dell’“impronta ecologica” che muove l’attenzione sulla riduzione dei consumi individuali, spostandola da quella gigantesca falla che è invece un sistema che prevede e consente che l’1% più ricco sia responsabile del doppio delle emissioni dei 3,8 miliardi di umani che invece emettono molto ma molto meno («Il Pentagono è l’istituzione che nel mondo emette più gas a effetto serra», p. 57). Le civiltà non si esauriscono nei propri modi di ri/produzione, spiega Moore, ma sono complesse modalità di pensiero, formazioni ideologiche: mezzi della produzione intellettuale, per richiamare Marx ed Engels. E questi ultimi sono fondamentali perché il sistema rimanga in piedi: una simile, assurda diseguaglianza richiede per sé una ben precisa mistificazione narrativa. L’Antropocene ne è chiave di volta e ultima mandata; astrazione violenta dalle relazioni storiche che hanno modellato le relazioni tra gli esseri umani (raccontati come specie) e della biosfera nel suo complesso. Ultima mandata perché, tra l’altro, è un modello stantio di crisi planetaria, un modello che recupera la cosmologia già all’opera nella conquista del Nuovo Mondo (una Natura scopertasi nuda e una Civiltà finalmente giunta a redimerla, o a corromperla, che poi è lo stesso) e negli scritti di Malthus, in cui lo spettro della sovrappopolazione veniva agitato per imporre una nuova distribuzione degli spazi e dei recinti («Nella storia del capitalismo, c’è stato poco spazio nell’Anthropos per chiunque non fosse bianco, maschio e borghese», p. 24). Legittimazione discorsiva e scientifica, appunto, dell’oppressione violenta della subalternità. Il potenziale liberatorio di una parola come Capitalocene è di fungere da grimaldello, di scardinare le porte sul Capitale colto sul fatto e su ciò che fa fatto, sul Capitale visto come un’ecologia-mondo in grado di unificare, strutturando fra loro, strategie di dominio, messa a profitto, sfruttamento e creazione di nuovi ambienti da cui estrarre e in cui sversare.

Moore , insomma, lancia una sfida alla pretesa della Buona Scienza (grande alleata del Capitale, segnalava già Marx nei Manoscritti: «Si è intromessa tanto più praticamente nella vita dell’uomo mediante l’industria, e l’ha trasformata») e della filosofia che vedono l’umanità come agente geostorico – perché l’umanità non esiste, come non esiste l’animale, come non esiste la razza e il genere, feticci borghesi «che si elevano a livello di astrazioni dominanti […], idee che guidano e informano praticamente i progetti borghesi che giustificano ideologicamente e rendono strumentalmente possibile l’accumulazione senza fine del capitale» (p. 127). Al di là di queste fantasie, schiacciati dal giogo del Capitale, esistono corpi e soggettività, esiste quel biotariato che è amalgama politico inventato da Collis nella sua poesia Almost Islands e che è alleanza intessuta fra coloro che nella categoria di Altrə sono statə relegatə e che, però, fra loro non hanno forse in comune altro che l’oppressione subita, e ora un’enorme rabbia da manifestare, senza più misura.

Di questo sistema non sogniamo forse l’implosione piuttosto che l’esplosione? Sicuramente ci stiamo andando incontro, a piccoli e lunghi passi, come millepiedi; o vi veniamo condottə, in un mondo che ci è stato sempre raccontato come ciclo di reversione indefinita e infinita e inesauribile, e che invece adesso va verso una liberazione finale delle energie accumulate, delle energie accese, spese, uccise. Numerose sono state le crisi di questo sistema-mondo – a volte indipendenti dal sistema-mondo stesso: la Piccola Era Glaciale ha portato al crollo la civiltà feudale e del suo modo di vita, il lungo freddo del XVII secolo ha decretato la morte del sogno ancora medievale dell’imperium di stampo temporale o religioso, parcellizzando le sovranità statali e immettendole in un libero commercio infiammato dalle imminenti rivoluzioni agricole, scientifiche e industriali. Ma la crisi climatica contemporanea «porta con sé un’inversione epocale: dalla rete della vita come fonte di lavoro capace di avanzamento della produttività e riduzione dei costi alla rivolta di una vita contro le discipline del capitale, segnalando una sorta di “sciopero generale” biotariano. Questa è la Grande Implosione» (p. 111). La possibilità di una lotta di classe che smantelli finalmente la posizione della subalternità ripartita nelle sue forme di colonia, donna, bestia, nerə, schiavə, …, come avviene per il proletariato costretto ad abolire sé stesso: «Invocare il Capitalocene nello spirito di Marx ed Engels significa implicare l’internazionalismo socialista e la giustizia planetaria. Tale giustizia significa la liberazione di tutta la vita dalla tirannia del lavoro capitalista – o non è nulla. È una visione per un socialismo biotariano, per un Proletarocene» (p. 141). Salutando un’ultima volta Marx, che a sua volta richiamava Müntzer, anche la creatura dovrebbe diventare libera. E questa liberazione richiede uno sforzo, prima che muscolare, prima che umano e abile e razionale, testardo e immaginativo – questa è la prima protesta del biotariato. Questa è la sua voce: ora la senti? «Questo il motivo per cui l’immaginazione dialettica è più importante che mai» (p. 142).

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