Sulle conseguenze della digitalizzazione secondo la sinistra radicale: Anna Stiede parla dell’“amichevole mostro del progresso” e della sfera della riproduzione. Di chi è il lavoro che confluisce nei nuovi sfavillanti prodotti della digitalizzazione?
Traduzione da Neues Deutschland a cura di Berlin Migrant Strikers
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Mentre c’è chi mette in discussione il credo dogmatico nel progresso tecnologico, portando avanti la questione ecologica e la difesa dei dati a sostegno della propria critica, altri vedono nell’accelerazione del progresso tecnologico i primi segnali dell’arrivo del comunismo. In questo periodo di guerre globali e tendenze fascistoidi, ci troviamo nel mezzo di una trasformazione del capitalismo di portata storica, dovuta alla tecnologia. Come reagisce la sinistra a tutto ciò?
Di fronte a tali cambiamenti dei rapporti di (ri)produzione, la sinistra rimane, se non del tutto muta, quantomeno incapace di agire. Sicuramente ha ragione Tom Strohschneider, che di recente in questo giornale ha lanciato un appello ad occuparsi di come potrebbe essere sprigionato il potenziale emancipatore della nuova tecnologia. Ma il suo appello non si spinge abbastanza in là.
Per poterci appropriare della tecnologia per scopi progressisti e di sinistra, dobbiamo domandarci cosa spinge milioni di persone a vivere la propria socialità nello spazio digitale attraverso dispositivi tecnologici – e cosa li porta anche a sprecare il proprio tempo con giochi come Pokèmon Go. Una spiegazione potrebbe essere questa: il nuovo Zeitgeist ingloba anche la sfera della cura di sé. Mentre nel “mondo analogo” la socialità collettiva si disfa e mentre assistiamo al declino del mutuo soccorso, della cura, dell’assistenza e della formazione, evidentemente nei nuovi mondi digitali gli individui ritrovano una nuova forma di socialità e di legami. Le lacune della vita offline vengono dunque riempite su Facebook e Instagram. Qui le persone riconquistano una sorta di appagamento estemporaneo dei propri desideri: le emozioni possono venire condivise con il mondo intero, il bisogno di buon cibo o di un servizio di pulizie a basso costo viene appagato attraverso delle app. Nello stress della quotidianità tutto viene così rimesso in ordine senza difficoltà, attraverso il proprio smartphone.
Allo stesso tempo, attraverso il nostro agire nel mondo digitale – uplodiamo film, generiamo dati, “produciamo” contenuti – viene creato valore d’uso, per il quale però viene realizzato sempre meno valore di scambio. I dibattiti su questo tema ormai da tempo sono arrivati anche nei media mainstream. Come ad esempio constatato anche da Paul Mason (“Postcapitalism”) o dal postoperaista italiano Franco “Bifo” Berardi, tutto ciò richiede un forte riallineamento della sinistra verso “datate” idee femministe circa il ruolo del lavoro di riproduzione.
Inoltre, nemmeno le nuove possibilità che la digitalizzazione offre al networking politico, allo scambio, alla gestione dei processi democratici, alla mobilitazione anticapitalista e a pratiche resistenti, possono distrarci dal fatto che questo progresso continua ad essere fondato su condizioni di sfruttamento della natura e della forza lavoro umana. Simon Poelchau ha recentemente menzionato le miserabili condizioni di lavoro dei/delle cloudworkers. Basti pensare alle condizioni di lavoro nell’ambito della consegna di cibo a domicilio e dei servizi di pulizie o dei/delle babysitter, per giungere a simili conclusioni.
Se movimenti, organizzazioni e partiti di sinistra vogliono evitare di cadere nel pessimismo tecnologico – cosa che non sarebbe affatto intelligente – questi devono addentrarsi nella tana del leone e scoprire sulla propria pelle cosa è che attira alla caccia dei simpatici mostri Pokèmon che proprio da quella tana escono. Dobbiamo ricercare i bisogni che a quanto pare vengono appagati nei social e attraverso le app, analizzare le condizioni di lavoro delle app di food-delivering e sviluppare prospettive di organizzazione per e con i cloudworkers.
Soprattutto però, si dovrebbero andare a guardare esperienze in cui si discute e si prova ad utilizzare la tecnologia in modo conviviale, life-friendly e collettivo. Suggerimenti a riguardo arrivano ad esempio dalle esperta di care Andrea Vetter o da approcci pedagogici come la “pedagogia di Reggio Emilia” in Italia, secondo la quale sono stati riformati gli asili comunali della città.
Allo stato attuale sia i rapporti di produzione che il consumo individualizzato dei nuovi prodotti digitali contribuiscono tendenzialmente all’acuirsi delle divisioni sociali invece di rafforzare il bene comune, la solidarietà e la sfera pubblica. Il mondo tecnologico di San Francisco ci mostra questo trend: la nuova economia non ha bisogno di altro, non crea indotto economico come invece accadeva nei settori “tradizionali” di produzione industriale. La gentrificazione, portata avanti dai ben pagati lavori dell’economia digitale, spossessa e caccia dai centri delle città coloro che con il loro lavoro tengono insieme la società: infermier*, insegnanti, commercianti, operatori e operatrici sociali. Rivendicazioni progressiste, a volte anche femministe, vengono cooptate dalle imprese e rese “prodotti” con cui realizzare ottimi profitti.
Nel mezzo di tal cambiamenti, la cura (di sé), in quanto pratica sociale, locale e associativa, può rappresentare un legame politico – una qualità che essa non ha nella forma di servizio per l’appagamento individuale e privatizzato. La liberazione non dimora nella fuga nei mondi digitali, nel passatempo individualizzato, nella ricerca di “offerte” convenienti e facili da usufruire. La liberazione è da ricercare invece nell’apprendimento collettivo, nella ricerca di una vita in cui un surplus di tempo libero viene reso possibile in quanto pratica collettiva.
Tutto ciò non esclude assolutamente l’appagamento digitale di desideri e bisogni. Si tratterà però di sviluppare forme di appagamento sempre nuove e basate sui criteri politici di solidarietà, ridistribuzione, cooperativismo, autodeterminazione democratica e femminismo. E si tratterà anche di invertire l’attuale trend verso la concentrazione di ricchezza e di ridistribuire i guadagni verso coloro che li realizzano effettivamente – i e le care-workers.
*Anna Stiede è autrice free-lancer e formatrice politica, lavora in un collettivo, abita a Berlino ed è interessata alle lotte sociali in Europa contro austerità e crisi. Oltre all’interesse per i movimenti sociali, le lotte sul lavoro e economie solidali, si occupa di analisi femministe della crisi e di politica della memoria antifascista.
Immagine in apertura: Gareth Williams, Lyme Regis, The wall, The Eyes Have It!, da Flickr
[…] Articolo di Anna Stiede apparso su Effimera il 28.IX.2016, per leggerlo tutto clicca qui. […]