Quando il 28 aprile scorso in Francia sono stati arrestati 7 esuli politici italiani accusati di reati di quasi mezzo secolo fa, un ex giornalista de «il manifesto», Carlo Bonini, ora approdato alla più confortevole tastata de «la Repubblica», veniva a spiegarci che così si chiudevano gli anni ’70. Proprio in questi giorni un dossier sempre da lui curato e pubblicato sullo stesso quotidiano, si intitola La guerra è finita. Ora, a parte che quella «guerra» è finita da almeno un trentennio, come ha benissimo illustrato il bel libro di Monica Galfré[1], e come penso se ne siano resi conto un po’ tutti, a partire proprio da chi la lotta armata a sinistra l’aveva praticata, è su questo concetto di “chiudere” gli anni ’70 che va incentrata una riflessione non banale.
Innanzitutto, pare che proprio i fatti di questi giorni smentiscano le sicure certezze di Bonini: dopo la gogna mediatica fatta subire a Cesare Battisti, a cui sta seguendo il trattamento disumano in carcere che ha costretto l’ex militante dei Proletari armati per il comunismo a un drammatico sciopero della fame dalle conseguenze imprevedibili, dopo l’operazione Ombre rosse contro i sette di Parigi, ecco l’accanimento su Paolo Persichetti: quest’ultimo, che ha “fatto i conti con la giustizia” scontando circa 15 anni di carcere, ora svolge l’attività di ricercatore indipendente, ha collaborato o collabora con giornali come il Manifesto e il Riformista ed è attivo sul terreno di una corretta ricostruzione storica del fenomeno brigatista. Un attento lavoro di ricostruzione, il cui primo volume, curato insieme agli storici Marco Clementi ed Elisa Santalena[2], era stato pubblicato nel 2017.
Il 12 giugno la Procura di Roma ha notificato a Persichetti l’accusa di «divulgazione di materiale riservato acquisito e/o elaborato dalla Commissione Parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio dell’on. Aldo Moro». La perquisizione domiciliare alla quale Persichetti è stato sottoposto, durata 8 ore, ha avuto come esito il sequestro di telefoni cellulari e di ogni altro tipo di materiale informatico (computers, tablet, notebook, smartphone, hard-disk, pendrive, supporti magnetici, ottici e video, fotocamere e videocamere e zone di cloud storage), oltre che di documentazione medica relativa al figlio disabile dell’ex militante. In buona sostanza, tutto il materiale documentale che Persichetti aveva raccolto in anni di ricerche presso i principali archivi pubblici (e quindi con l’autorizzazione delle autorità degli stessi, altro che «materiale riservato»), ma anche gli appunti e le bozze del suo secondo libro che sarebbe dovuto uscire a breve.
L’accusa è talmente ridicola (associazione sovversiva con finalità di terrorismo e favoreggiamento) che sinceramente si fa fatica a capirne il senso. Peraltro la stessa situazione si era verificata circa tre mesi fa, quando la Procura di Bergamo aveva fatto perquisire le case di due ex militanti di formazioni armate di sinistra negli anni Settanta, ora molto attivi nelle mobilitazioni pubbliche contro la gestione scellerata della pandemia da parte della Regione, che tanti morti proprio a Bergamo aveva creato. I due sono accusati dei reati di cui all’articolo 270bis del Codice penale (associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico), 612 (minacce) e 339 (aggravante per lesione minacciate), all’interno dell’indagine su una serie di minacce arrivate ad esponenti della Confindustria locale fra il giugno e il settembre del 2020.
Nel caso di Persichetti, poi, si va veramente oltre il ridicolo, in quanto secondo gli investigatori da cinque anni sarebbe attiva in Italia un’organizzazione sovversiva di cui però non si conoscono ancora il nome, i programmi, i testi e proclami pubblici e soprattutto le azioni concrete (e violente, soprattutto, perché senza di quelle il 270 bis non potrebbe configurarsi).
Perché tutti questi accanimenti se, come scrive Bonini, «abbiamo chiuso con gli anni ’70»? Perché questo ritorno di fiamma nell’affibbiare l’art. 270bis a chiunque? Perché questo accanimento contro persone che da più di 40 anni si trovano all’estero e che non si sono più resi protagonisti di atti di violenza politica, men che meno armata? Perché questi trattamenti disumani in carcere (41 bis, AS2, ecc.)? Perché dopo mezzo secolo non si vuole fare i conti veramente con gli anni ’70, non si vuole trovare una soluzione politica al duro conflitto politico che si svolse in Italia, mentre per i fascisti repubblichini ci si mise solo un anno dopo la Liberazione (amnistia Togliatti)?
Una prima, immediata e facile risposta, può risiedere nello spirito di vendetta che oggi domina la repressione dei conflitti politici e sociali nel nostro Paese. Una seconda spiegazione potrebbe risiedere, nel caso di Persichetti, nell’impedire qualsiasi ricostruzione delle vicende della lotta armata di sinistra in Italia che metta in discussione le fantasiose ipotesi che da decenni le varie commissioni parlamentari sul caso Moro cercano maldestramente di accreditare, con i gruppi armati di sinistra presentati come burattini i fili dei quali venivano mossi da chissà quale servizio segreto (nazionale o straniero che fosse). Una terza possibile risposta, è quella più legata all’oggi, meno immediata ma forse più suggestiva. Una doppia risposta: da una parte, come nel 1979 durante il «Teorema Calogero» e l’operazione «7 aprile», così come nel caso del licenziamenti dei «61» alla Fiat nell’ottobre, si tratta di far passare l’assioma «lotte sociali = violenza politica = terrorismo»; dall’altra rendere tollerabile la tortura nelle carceri, la repressione anche immotivata di ogni forma di dissenso, le morti degli immigrati vittime di razzismo (suicidi nei Cpr o a casa loro), i pestaggi alla Pinkerton dei lavoratori in sciopero, il divieto di poter ricevere la visita del proprio veterinario di fiducia perché valsusino, l’irruzione nelle nostre case e il sequestro discrezionale di qualsiasi materiale, fosse anch’essa documentazione d’archivio, di ricerca.
In una società che si vorrebbe normalizzata, dove non si deve più essere cittadini/e, ma sudditi/e, lo spauracchio degli «anni di piombo» è sempre una carta che la politica dominante non esita di giocare. Per cui, mentre da una parte si attacca la libertà di ricerca storica sul periodo (magari sequestrando un bell’archivio con un’accusa evergreen di “terrorismo”), dall’altra ci si ostina in misure e atteggiamenti persecutori su persone e per fatti di 50 anni fa, per giustificare la presunta legittimità di politiche che alimentano sfruttamento, diseguaglianza e razzismo.
Contro tutto ciò sarebbe opportuno indignarsi e mobilitarsi.
NOTE
[1] M. Galfré, La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980-1987, Laterza, Roma-Bari, 2014.
[2] M. Clementi, P. Persichetti, E. Santalena, Brigate rosse. Dalle fabbriche alla «campagna di primavera». Vol. I, DeriveApprodi, Roma, 2017.
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