“La natura miserabile della guerra in Ucraina ha rapidamente trovato il suo equivalente nella miseria cognitiva della sua rappresentazione per il pubblico occidentale. I media mainstream ci ammanniscono la storia della nazione ucraina che eroicamente resiste all’aggressione di Putin, ed è vero che gli Ucraini difendono la loro terra eroicamente, e possiamo solo sperare che spezzino la schiena degli invasori russi. Ma c’è un enorme non detto in questa storia. Gli Ucraini sono stati costretti contro la loro volontà a combattere questa guerra e adesso la combattono ma non solo per se stessi: debbono combattere per conto dell’Occidente.”
(Boris Buden: The West at War: On the Self-Enclosure of the Liberal Mind, e-flux journal, 126, April 2022)
Pensiero ed emozione
Quando ho visto la copertina dell’Economist del 2 Aprile mi sono preoccupato. Il titolo era perentorio: Why Ukraine must win.
L’Economist spiega perché l’Ucraina deve vincere, con un argomento che mi sembra paradossale: la vittoria dell’Ucraina può garantire la sicurezza in Europa, mentre parrebbe vero il contrario: la strategia americana aveva l’obiettivo di spingere l’Ucraina alla guerra contro il colosso russo, per ottenere insieme un’ulteriore umiliazione della Russia, e la distruzione dell’Unione europea come esperimento politico post-nazionale.
Il primo obiettivo potrebbe forse essere ottenuto grazie al bagno di sangue cui Biden ha spinto russi ed ucraini, ma non ne trarremmo grande giovamento, perché se cade Putin non sarà un pacifista a sostituirlo, e la Russia potrebbe reagire all’umiliazione ulteriore usando l’arma finale.
L’obiettivo di distruggere l’Unione europea è invece pienamente ottenuto.
È il primo successo del Presidente Biden, che aveva accumulato un’impressionante serie di rovesci su tutti i fronti, esterni (Afghanistan) e interni (Build Back Better, eccetera).
Biden ha spinto alla guerra l’Ucraina nella speranza (dichiarata in modo esplicito da Hillary Clinton in un’intervista del gennaio 2022) di far cadere in una trappola la Russia di Putin, ma non è certo che questa guerra permetterà ai democratici di ottenere la maggioranza alle elezioni di Novembre. Al momento si direbbe di no. Per quanto la maggioranza degli elettori americani manifesti un’ostilità crescente verso la Russia, ed esprima sentimenti bellicisti, non sembra che quella maggioranza sia contenta dell’operato di Biden, né che abbia intenzione di votare per i democratici alle prossime elezioni.
Nello stesso numero dell’Economist leggo anche Of bureaucrats and lovers, un articolo firmato da Charlemagne che incita l’Unione europea a rimuovere tutti gli ostacoli burocratici all’ingresso dell’Ucraina in nome dell’emozione.
Facciamola finita con i cavilli burocratici, ammettiamo l’Ucraina nell’Unione ormai trasformata in un’appendice retorica della NATO, e non se ne parli più.
Questo è un punto cruciale: l’emozione, anzi le emozioni hanno giocato un ruolo decisivo nella precipitazione della crisi. Da una prete l’emozione di paura nei confronti dell’aggressività russa, emozione di solidarietà con la resistenza del popolo ucraino contro gli invasori. Emozione del ritrovarsi uniti nella resistenza contro l’invasore. Altre emozioni però militano dall’altra parte: l’umiliazione dei russi che da trent’anni sono trattati come sconfitti da punire e da circondare, e anche l’emozione dell’orgoglio nazionale ritrovato di un popolo che vede in Putin il simbolo di una riscossa nazionale.
La disfatta dell’universalismo
Conosciamo il valore dell’emozione nei processi di identificazione collettiva, ma sarebbe opportuno ricordare che nella storia il prevalere dell’emozione può coincidere con la disattivazione del pensiero.
Si intreccia qui un nodo di questioni che hanno attraversato il mondo europeo dal Romanticismo in poi: emozione e pensiero, differenza culturale e universalità della ragione.
L’illuminismo afferma principi universali della Ragione, ma in nome della (sua) Ragione l’Occidente ha imposto il suo potere culturale ed economico, e ha fatto della scienza e della tecnica strumenti di dominio coloniale.
La tensione tra universalità della ragione e particolarità della cultura è al centro di un libro che Alain Finkielkraut pubblicò nei primi anni ’80: La defaite de la pensée. Tema del libro è il rapporto tra pensiero e cultura nella tarda modernità. La cultura (nel senso romantico di Kultur, ovvero differenza identitaria radicata nel passato storico di un Volk) riemerge come fattore dominante nella storia post-moderna, diceva Finkielkraut, e la sua potenza sovrasta il pensiero universalizzante fino ad annichilirlo, fino a portare l’emozione del particolare al governo del mondo. Solo la forza può regolare i rapporti fra particolare e particolare, poiché l’universale della Ragione è cancellato dalla Cultura.
Il caso vuole che nello stesso numero dell’Economist compaia anche un editoriale che si chiama Back to the dark ages. Qui si parla del destino dell’Afghanistan dopo la guerra, o piuttosto dopo la sconfitta degli occidentali, il loro ritiro, e il ritorno dei Talebani al governo del paese. Ma il ritorno all’epoca oscura non riguarda soltanto l’Afghanistan, riguarda anche l’Europa, poiché oscuro è il dominio della Kultur sulla Ragione.
La questione dell’Illuminismo, della sua fine o del suo ripensamento, è da molto tempo al centro della scena intellettuale. Nel 1947 Horkheimer e Adorno scrivevano, nella premessa alla Dialettica dell’Illuminismo: “Non abbiamo il minimo dubbio che la libertà della società è inseparabile dal pensiero illuministico. Ma riteniamo di aver compreso che il concetto stesso … implica il germe di quella regressione che oggi si verifica ovunque. Se l’Illuminismo non accoglie in sé la coscienza di questo momento regressivo firma la propria condanna. Se la riflessione sull’aspetto distruttivo del progresso è lasciata ai suoi nemici, il pensiero ciecamente pragmatizzato perde il suo carattere superante e conservante insieme, e quindi anche il suo rapporto alla verità.” (Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1966, pagina 5).
Lasciamo perdere il linguaggio hegeliano di queste righe, cerchiamo di coglierne l’essenziale: se l’intenzione universalistica che animò l’Illuminismo viene ridotta al razionalismo calcolante del capitalismo, possiamo star certi che le forze dell’oscurantismo finiranno per prevalere e distruggere ogni possibile universalità, e quindi la pace.
Cosa significa vincere?
Non si può non condividere l’emozione di rabbia e di rivolta per l’invasione russa e per le atrocità che la guerra di aggressione comporta. Ma sarebbe una bella cosa se quell’emozione non obnubilasse la capacità di pensiero.
A leggere la stampa italiana, e più generalmente occidentale, per non parlare delle cronache televisive, si percepisce un’euforia giovanile che pervade gli animatori dello spettacolo, gente che per lo più ha la mia età, ma è ringalluzzita dall’odio. Vecchi maoisti da tempo convertiti alla pace sociale sembrano rinvigoriti dall’insperato macello. Ma l’entusiasmo per l’eroica tenzone non riesce a mascherare il cinismo di chi partecipa alla battaglia con il telecomando tra le mani.
Urgentemente occorra schierarsi, prendere posizione a favore di uno dei due contendenti, e cancellate sono le cause, il contesto, la prospettiva, le conseguenze.
C’è un pullulare di patrioti romantici che sembrano usciti da una poesia di Aleardo Aleardi. Ci sono esempi di patetico estremismo come quello della vecchia spia stalinista convertita al craxismo prima e al berlusconismo poi che ora esalta il battaglione Azov descrivendolo com un manipolo eroico di “guerrieri di leggenda”.
Ma non c’è solo questa paccottiglia. C’è anche un autentico doloroso disorientamento nei miei avvizziti coetanei. Per esempio in un’intervista a La Repubblica Erri De Luca propone un paragone che mi pare condivisibile: il popolo ucraino reagisce alla violenza russa come il popolo napoletano reagì alla violenza dei tedeschi in ritirata. Ma Erri dimentica il contesto, che invece non è irrilevante: nessuno avrebbe potuto fermare l’insurrezione dei napoletani in quei giorni di rabbia liberatoria, ma ora la situazione è diversa: qualcuno potrebbe fermare, o almeno sforzarsi di fermare, la carneficina che l’invasione russa ha scatenato e che la NATO ha fomentato e continua a fomentare. Le quattro giornate di Napoli avvicinarono la fine del massacro. La resistenza ucraina armata dalla NATO può invece estendere il massacro ed aggravarlo.
In un’intervista del gennaio 2022 Hillary Clinton anticipò la possibilità di fare dell’Ucraina un nuovo Afghanistan per la Russia: grazie al sacrificio degli ucraini noi potremo vincere.
Ma cosa significa vincere?
Significa abbattere il nemico autocratico russo?
Purtroppo il regime di Putin interpreta un sentimento maggioritario nella popolazione di quel paese, e si fonda ormai su una narrazione della rinascita eroica dell’anima russa, violata ed umiliata dal globalismo. Anche loro vogliono vincere, e sono pronti a soffrire per vincere, forse anche più di noi.
Limes 3/22, (La fine della pace) pubblica un articolo agghiacciante di Vitalij Tretjakov, docente all’Università moscovita Lomonosov. Tretjiakov delinea la risorgenza dei valori tradizionali della nazione russa e paragona la decisione di Putin di invadere l’Ucraina alla decisione di Lenin di prendere il Palazzo d’Inverno.
“Lotteremo per il diritto di essere e rimanere Russia.” scrive Tretjakov, esaltando il valore eterno dell’identità, un fantasma che prende corpo attraverso la guerra.
Ma Tretjiakov aggiunge:
“ciò che sta accadendo interrompe il dominio globale geopolitico e finanziario dei paesi occidentali, mette in discussione il modello economico imposto ai paesi in via di sviluppo e al mondo intero negli ultimi decenni….
Gli eventi del febbraio e marzo 2022 sono paragonabili nella loro importanza storica e nelle loro ripercussioni globali a ciò che accadde in Russia nell’ottobre 1917. Qui non si tratta di socialismo, ma del fatto che la Russia, come nel 1917, si è liberata dal controllo politico economico ideologico e, cosa molto importante, psicologico dell’Occidente. In questo momento storico si tratta dell’ultima e decisiva battaglia. La vittoria della Russia è attesa non solo da milioni di suoi cittadini, ma anche da decine di paesi (segretamente anche da molti europei.” (Limes: Questa è la nostra rivoluzione d’ottobre).
Tretjiakov ha abbandonato ogni illusione universalistica, e sottolinea il fatto che quel che gli interessa non è il ritorno del socialismo sovietico, ma il ritorno della differenza nazionale, dell’orgogliosa essenza dell’anima russa.
Ma in nome di questa differenza, di questo diritto a essere quello che siamo (come se esistesse un’identità eterna, immodificabile e sacra della Nazione), anche Tretjiakov vuole vincere, e la sua sete di vendetta può entrare in risonanza con la sete di vendetta di una parte assai vasta dell’umanità umiliata.
Ci avete rotto con il vostro Sturm und Drang
Nello stesso (ricchissimo) numero di Limes c’è un articolo di Hu Chunchun: La Cina all’Europa: le sorti del mondo sono nelle tue mani.
Hu, che insegna germanistica all’Università di Shanghai, rivolge agli europei un discorsetto che somiglia a una ramanzina piuttosto brusca. Studioso del Romanticismo tedesco, Hu se la prende con lo Sturm und Drang dei nostri intellettuali da operetta.
“Un rapido sguardo alla storia del Vecchio Continente dall’inizio del XX secolo mi impone una riflessione che probabilmente verrà categoricamente respinta dai colleghi e dalle colleghe europee. Da un lato l’Europa si pone come faro della civiltà moderna; dall’altro ha portato più volte l’umanità sull’orlo della distruzione. La cultura europea pare possedere i tratti di un Giano bifronte: un volto orrendo di barbarie mascherato da una sacra facciata di valori e idee assoluti.” (Limes, pag. 63).
Hu Chunchun compie uno spostamento dell’ottica geo-politica, o piuttosto geo-culturale: dalla centralità bianca (euro-russa-americana) al policentrismo post-colonial, le cui implicazioni politiche cominciano a vedersi nel modo in cui il sud del mondo guarda al conflitto russo-ucraino:
“Che il conflitto russo-ucraino sia un problema essenzialmente europeo non è la tesi cinica e irresponsabile di un accademico cinese che ignora la giustizia e rovescia i fatti, scrive ancora Hu, ma la lucida constatazione che muove dallo spirito della ragione europa. La studiosa keniota Martha Bakwesegha-Osula ha sintetizzato il punto di vista africano sul conflitto russo-ucraino: European solutions to European problems. Questa posizione è anche uno dei motivi che lo scorso 2 marzo hanno portato molti paesi, nel loro insieme quasi la metà della popolazione mondiale, ad astenersi sulla risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU sull’Ucraina.”(ibidem).
Facciamola finita con la vittoria
Vincere significa imporre la forza di una volontà contro e al disopra di un’altra volontà. Da Machiavelli in poi questa idea della volontà che si impone con la forza ha avuto una certa fortuna, e prodotto grandi progressi e non meno grandi catastrofi.
Ma quella storia è finita: la potenza della volontà, del progetto e del governo è annichilita dalla complessità della natura che si ribella, dell’automa tecno-militare che si auto-governa, e dell’Inconscio collettivo che oscilla tra collasso depressivo e psicosi aggressiva.
Vincere significa imporre il proprio progetto cancellando i progetti che si oppongono al nostro. In questo senso nessuno può più vincere niente, se mai vincere ha significato qualcosa.
Ma qui emerge la questione più drammatica cui per ora non abbiamo risposta: esiste nella società una forza culturale e politica che sia in grado di fermare la psicosi, e disattivarne la violenza distruttiva?
Quella forza non sarà il movimento pacifista, al quale pure aderisco senza molte speranze. Il pacifismo è una dichiarazione, una domanda, un’implorazione, ma non possiede alcuna potenza. Di potenza invece abbiamo bisogno, fosse pure la potenza negativa del sottrarsi.
La forza capace di sottrarsi alla psicosi è la passività di massa, la ridicolizzazione dei Valori, la rassegnazione alla forza del Caos che prelude alla creazione di alleanze col caos.
La forza capace di sottrarsi alla psicosi di massa è la diserzione da tutti gli ordini automatici: dall’ordine automatico della guerra, prima di tutto. Ma anche dall’ordine automatico della competizione, del lavoro salariato e del consumismo. E anche dall’ordine automatico della crescita economica che distrugge l’ambiente e il cervello per produrre profitto.
Questa forza esiste: è la forza della disperazione, attualmente maggioritaria. Ma la disperazione (l’assenza di speranza nel futuro) può evolvere come depressione epidemica, può evolvere come psicosi aggressiva, oppure può evolvere come diserzione, abbandono di ogni campo di battaglia, sopravvivenza ai margini di una società che si sta disfacendo, autosufficienza nell’esilio dal mondo.
Immagine in apertura – Istituto Luce: tre soldati indiani britannici avanzano con le mani alzate tenuti sotto tiro da un soldato italiano, data: 01.06.1942 – 30.06.1942
[…] Franco ‘Bifo’ BerardiPublicado en italiano en Effimera el 20/04/2022Traducción publicada en El Salto el […]