Pubblichiamo l’introduzione tratta dal libro, appena uscito per Meltemi Editore, Milano

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O mio corpo, fa di me sempre un uomo che pone domande!

F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche, p. 208

 

Perché oggi un libro su Frantz Fanon? Che cosa hanno di attuale o cosa possono ancora suggerirci i suoi scritti? Quale senso può avere una riflessione filosofico e politica che, muovendo dal suo pensiero, prova ad indagare e problematizzare il tema delle soggettivazioni politiche nella nostra contemporaneità? Sono domande del tutto legittime se si considerano le enormi differenze storico-sociali e gli scarti teorici tra l’odierna realtà di un mondo globalizzato, formalmente e retoricamente ‘inclusivista’, interamente dominato dal pensiero unico della razionalità neoliberale, e il contesto nel quale ha vissuto Fanon, ossia un mondo letteralmente scisso in due, caratterizzato dall’estrema ed irriducibile opposizione tra colonizzatori-padroni e colonizzati-schiavi. Non a caso uso la parola ‘vissuto’, che nelle riflessioni fanoniane assume una centralità decisiva. Gran parte dei concetti e delle questioni da lui affrontate, infatti, discendono dalla sua personale esperienza, dal suo militantismo, dalle lotte di liberazione e dalla pratica psichiatrica. Da qui la forza unica delle sue parole, i suoi ripetuti appelli alla rivolta degli oppressi, le sue invocazioni contro il dominio di saperi – si pensi a quello psichiatrico – che si affermano ineludibilmente come verità assoggettanti. Sono analisi potenti, prive di eufemismi, che rinviano sempre ad una realtà violenta e drammatica nella quale la condizione degli oppressi emerge innanzitutto dai loro corpi umiliati, segnati dalla brutalità coloniale, privati della loro voce, eppure inquieti, attraversati dal desiderio di ribellione e dall’ambizione di contrapporre al dominatore la forza della propria azione.

Fanon mette in campo una vera e propria «fenomenologia politica del corpo»

[1] che, nell’evidenziare quanto i meccanismi di disumanizzazione siano inscindibili dall’oggettivazione e dalla bestializzazione dei corpi dei soggetti colonizzati, ne preannuncia anche le capacità metamorfiche e la potenza eversiva. Potenzialità corporee che vanno però inserite in un processo emancipativo più ampio, una ‘disalienazione’, come la chiama Fanon, che non investe solo l’ambito politico, ma implica un radicale e contestuale processo di trasformazione psichica e culturale. Strappare la maschera bianca significa per l’oppresso rifiutare la figura dell’alterità nella quale viene incapsulato e liberarsi così dai complessi di inferiorità e dai meccanismi nevrotici che lo assillano. Una battaglia tutt’altro che semplice, radicale negli obiettivi e nei mezzi, condotta su fronti diversi, eppure tutti decisivi. Come dimostra la lotta per la liberazione dell’Algeria, l’urgenza ‘vitalistica’ di opporre alla violenza colonizzatrice una ‘contro-violenza’ dell’oppresso non basta. Essa deve munirsi di tattiche e di strategie. In questa maniera, importanti strumenti di acculturamento e di civilizzazione dei colonizzatori – la lingua, il velo delle donne, la radio – vengono trasformati in mezzi decisivi per condurre la lotta e per diffondere il verbo rivoluzionario, innestandosi in una contestuale e più ampia operazione tesa a dare nuovo slancio e respiro ad una cultura che, atrofizzata dall’egemonia occidentale, è considerata da Fanon un ambito decisivo nella battaglia politica.

L’assimilazione dell’Altro al canone europeo ha luogo non solo attraverso la violenza dell’occupazione militare e dello sfruttamento economico, ma anche per mezzo di una vasta operazione di culturalizzazione che va tenacemente combattuta. L’obiettivo fanoniano non è però quello di riattivare figure arcaiche attraverso le quali plasmare identità essenzializzate e comunitarie da opporre, secondo la logica binaria Noi/Loro, a quella del colonizzatore occidentale. I comportamenti e le pratiche culturali vanno sempre pensate all’interno di precise articolazioni storiche e non possono che essere l’esito mai definitivo di un movimento incessante ed indefinito. Questo non significa fare di Fanon un culturalista ante litteram[2], e rinunciare a processi di identificazione che, sia pure in forma transitoria, contingente e meno che mai totalizzante, sfociano in un reciproco riconoscimento e in una ‘coincidenza’ di intenti che pongono le condizioni per lottare e trasformare le condizioni materiali di sfruttamento e di oppressione. Insomma la battaglia culturale non può che essere anche di ordine politico e come tale non può fare a meno di momenti ‘identitari’, sia pure collocati in una dimensione congiunturale.

L’utilizzo di registri spesso differenti conduce Fanon all’articolazione di una prospettiva polifonica, nella quale l’impiego di categorie psicoanalitiche risulta particolarmente efficace poiché, nel far emergere il sommerso dell’inconscio, dà conto della specificità dei meccanismi di dipendenza dall’Altro nel contesto coloniale e dei devastanti effetti prodotti dall’introiezione, da parte dei colonizzati, delle immagini che di essi avevano i colonizzatori. Le conseguenze sono rilevanti non solo sul piano medico e scientifico, ma più in generale da un punto di vista teorico. Viene infatti profondamente ‘destabilizzata‘ la categoria di soggetto così come è stata rappresentata nel corso della modernità, ossia un entità unitaria e monolitica che, pur nelle differenti declinazioni, viene sempre descritta in maniera astratta e idealizzata, come un essere razionale e di pensiero la cui corporeità è di fatto rimossa o relegata ad un ruolo del tutto marginale. Un soggetto che invece, nella descrizione fanoniana, perde qualsiasi tratto di universalità per essere ancorato al contesto in cui vive e alla propria personale storia. Psichicamente scisso tra il desiderio di essere come il colonizzatore e quello di farlo fuori, questo soggetto risulta caratterizzato da una corporeità che, per quanto luogo per eccellenza dei meccanismi di oggettivazione, costituisce ciò che stride e resiste alla violenza colonizzatrice. D’altronde, lo stesso umanesimo al quale fa appello Fanon può essere considerato una sorta di ‘umanesimo anti-umanistico’, dal momento che si stacca completamente dai presupposti retorici ed universalizzanti del modello occidentale per andare nella direzione di una rifondazione completa del significato di ‘uomo’. Una vera e propria antropogenesi, che richiede un mutamento radicale del nostro essere-al-mondo, dunque delle nostre azioni e delle nostre pratiche di vita, al fine di mettere in crisi un significante, appunto quello di ‘uomo’, nonchè l’annessa categoria di diritti umani, profondamente collusi con i meccanismi di inferiorizzazione dell’Altro.

Fanon indubbiamente pensa ad un percorso di emancipazione che passa attraverso un soggetto rivoluzionario coeso, che deve ‘marxianamente’ prendere coscienza di sé e che si ‘incarna’ nell’universale della nazione, per quanto non manchino dubbi e perplessità rispetto a questa categoria. Insomma Fanon è ‘dentro’ la modernità e non può che attingere a quei concetti che sono stati forgiati al suo interno. Tuttavia, quando essi interagiscono con la specificità della situazione coloniale e con la sua particolare esperienza di colonizzato, emerge la ‘forza dislocante’ del suo discorso teorico che, nell’utilizzare quelle categorie, le forza e le re-interpreta. Se la narrazione dominante ha definito la modernità come un fenomeno storicamente e geograficamente identificabile con l’Europa/occidente, allora il lavoro di Fanon costituisce un incisivo e appassionante affresco dal quale affiora il suo lato oscuro, il processo di rimozione di una missione che si è presentata come ‘civilizzatrice’, ma che ha inverato nei campi coloniali la sua volontà di potenza, la natura dominante e dominatrice che ha relegato l’Altro fuori della storia, designandolo come sub-umano, ed in ragione di tale inferiorizzazione lo ha estromesso dalla scena politica.

Le analisi fanoniane, dunque, rendono conto di una modernità che non è concepibile senza far riferimento ai suoi incontri con l’alterità e all’articolazione di una relazione che risulta ‘sovradeterminata’ sin dal principio dalla specificità del contesto in cui si instaura, dando luogo alle profonde asimmetrie all’origine dei processi di razzializzazione e di assoggettamento. Si tratta di un percorso che conduce anche a riconoscere nel colonialismo un momento costitutivo della stessa modernità. Ne consegue un decentramento epistemologico, come lo definisce Robert Young, nel quale Fanon «utilizzando le risorse del pensiero occidentale contro di esso»[3] ha inaugurato quell’operazione di ‘decolonizzazione del sapere’ sul quale si fonda la critica post-coloniale e il suo progetto di «provincializzare l’Europa»[4]. In questa affermazione si può sintetizzare una delle ragioni di fondo di questo saggio, che dedica la prima parte ad analizzare – attraverso l’ausilio di quattro ‘scene paradigmatiche’ – questa sorta di ‘relazione-disgiuntiva’ che Fanon intrattiene con la Modernità e con i concetti che provengono da essa. Categorie come quelle di riconoscimento, alienazione, accumulazione originaria, violenza, interpellazione, attraversano per intero i testi fanoniani, a volte in maniera esplicita, attraverso un confronto diretto e serrato con esse, altre volte solo in filigrana. Ricondotte all’esperienza coloniale mostrano tutte, sia pure in misura differente, delle incoerenze e dei limiti che giustificano le torsioni alle quali le sottopone Fanon. Slittamenti che vanno letti nell’ottica di chi, tenendo ferma la necessità di un inestinguibile rapporto tra teoria e pratica, vuole dare forza e spessore ad un antagonismo politico che, pur nutrendosi di momenti di identificazione ‘forte’, non vuole cadere in tentazioni essenzialistiche, come dimostra il suo atteggiamento verso concetti come quello di negritudine, utilizzato senza alcuna intenzione o desiderio di riattivare forme di comunità primitive tantomeno autentiche.

Le riflessioni fanoniane costituiscono, pertanto, lo specchio dell’epoca in cui vengono maturate e ad essa vanno ancorate, poiché è in quella specifica temperie storica e culturale che agiscono in modo dirompente. Tuttavia – per dirla con Said – esse viaggiano nel tempo, fino a penetrare nel panorama del nostro presente globale. Un’attualità profondamente diversa, nella quale viene innanzitutto meno la collaborazione, spesso instabile ma storicamente efficace, tra la forma Stato-nazione e il modo di produzione capitalistico. Una rapporto che ha contraddistinto la modernità e che ha costituito la cornice al cui interno si sono dispiegate le vicende di soggettività politiche il cui carattere collettivo è stato strettamente legato allo sviluppo e alla trasformazione – nel corso del Novecento – della modalità di produzione fordista. La sua crisi, dettata dalla progressiva centralità assunta dai servizi e dalla produzione cosiddetta immateriale, nonché dal progressivo indifferenziarsi dello stesso confine tra vita e lavoro, ha minato alle fondamenta i presupposti della formazione di quelle soggettività collettive. Sono emerse nuove soggettività centrifughe ed eterogenee, caratterizzate dall’interiorizzazione della norma della concorrenza, dell’imperativo della prestazione e dall’attitudine a calcolare i rischi. Esse vanno a costituire ciò che Foucault ha descritto come la trasformazione del soggetto stesso in impresa, in un ‘imprenditore di se stesso’ sempre più ‘individualizzato’ ed incentrato su pratiche di potenziamento (empowerment) del proprio capitale umano.

Al contempo, i confini territoriali, che delimitavano lo spazio liscio e ordinato all’interno del quale operava il comando universale della sovranità, hanno acquisito una porosità e mobilità senza precedenti, dando luogo a continue co-implicazioni tra dimensioni locali e globali[5]. Essi si sono trasformati in uno straordinario strumento di controllo della circolazione di merci e, soprattutto, delle persone, acquisendo un’inedita ubiquità che li porta sempre più a spostarsi dai margini al centro, determinando una loro profonda alterazione tanto simbolica quanto pratica e strategica. La nuova articolazione dei confini si coniuga con un specifico processo di governamentalizzazione dei dispositivi istituzionali e normativi, dal quale deriva una riconfigurazione di senso dell’obbligazione politica. Questa viene inserita all’interno di un complesso di relazioni che coinvolge una molteplicità di soggetti pubblici e privati, i quali cooperano secondo uno schema orizzontale e assetti decisionali irriducibili all’unicità sovrana. Le classiche forme di rappresentanza politica e le democrazie si trovano completamente spiazzate di fronte a questi nuovi assemblaggi di potere nei quali gli Stati, e i poteri che essi impersonavano, vengono ridefiniti in funzione di logiche e di razionalità che li trascendono.

Bisogna partire da questa cornice di prassi e di pensiero, in cui è incastonata la nostra contemporaneità, per mettere alla prova le riflessioni fanoniane e verificare come molte delle questioni e dei temi che egli affronta si riverberano con forza anche nell’odierno panorama globale. Una condizione nuova – giustificata dal prefisso ‘post’ – sembra segnare il definitivo superamento della modernità, del colonialismo e delle categorie che li contraddistinguevano. In essa però il passato riemerge, reincarnandosi in figure sempre più diffuse e dissonanti come quelle del migrante, del rifugiato e di tutti quei ‘nuovi oppressi’ che costituiscono la testimonianza di come il colonialismo, sebbene sia cessato come fenomeno politico, persiste nell’odierno scenario globalizzato, perpetuandosi in tutti quei luoghi nei quali si riproducono relazioni di dominio e sfruttamento. La ‘condizione postcoloniale’ non va allora considerata come un generico tempo del ‘dopo’ che segna il definitivo superamento di una soglia (temporale, spaziale, epistemica). Essa indica piuttosto quella particolare situazione nella quale ci troviamo a vivere, caratterizzata da continui transititi concettuali e materiali che ridisegnano la mappa del mondo non solo sotto il profilo geografico-territoriale, ma anche sul piano simbolico e dell’immaginario.

Nella seconda parte di questo lavoro mi sono concentrato sulla vasta galassia della critica postcoloniale, della quale non ho tracciato alcuna mappatura o quadro esaustivo. Piuttosto l’ho utilizzata come banco di prova per vagliare una serie di questioni e categorie, in parte già poste e discusse da Fanon, al fine di gettare una luce nuova sugli odierni processi di governamentalizzazione e di verificare l’urgenza di rinnovare il pensiero europeo della modernità a partire dai margini, dalle periferie, dalla condizione di quelle delle vite di scarto costantemente forcluse dalla scena della politica. Questi studi, per quanto collocati all’interno di un contenitore generalizzante come quello dei postcolonial studies, si presentano estremamente eterogenei sia per provenienza geografica che per posizionamenti teorici. Essi costituiscono una «costellazione intellettuale» come l’ha definite Mbembe, «la cui forza e debolezza si originano nella sua stessa frammentarietà»[6] e dalla possibilità, dunque, di ascoltare e confrontarsi con ‘voci’ differenti, a volte in profonda contraddizione tra di loro, in continua oscillazione tra una dimensione planetaria, dalla quale proviene una forte spinta all’uniformità, e una prospettiva locale, volta a rafforzare tutte quelle esperienze di fratture, antagonismi ed anomalie che incrinano quella medesima attitudine omogeneizzante. Lavorare su e attraverso le loro riflessioni ha costituito, dunque, un modo per reinterpretare in maniera critica una serie di fenomeni – migrazioni, sfruttamento, ridefinizione spazi politici – e di categorie – confini, nazione, cittadinanza, razza – che oggi acquisiscono una connotazione decisamente diversa rispetto al modo in cui sono stati (rap)presentanti nel corso della modernità.

La critica postcoloniale mostra innanzitutto come lo stesso colonialismo fu un’esperienza globale in cui gli spazi altri dalla civiltà dovevano essere conquistati e indirizzati verso un unilaterale racconto della modernità. Il processo di universalizzazione delle istituzioni, delle tecniche e dei saperi occidentali fu però spesso paradossale e pieno di ambiguità, come hanno rivelato le contro-narrazioni messe in campo dal collettivo dei Subaltern Studies. Attraverso una minuziosa operazione archeologica di recupero di storie dimenticate o mai narrate, questi studiosi hanno messo in luce i limiti della storiografia occidentale che, improntata su un modello di storia lineare e teleologica, ha celebrato narcisisticamente il proprio ruolo pedagogico e civilizzatore o, come nel caso della storiografia nazionalista indigena, ha dato rilevanza esclusivamente al ruolo delle élite locali nei processi di liberazione. Il racconto della Weltgeschichte, che disponeva all’interno di una temporalità continua e sistematica il progressivo omologarsi di tutte le differenze e di tutte le contraddizioni nella sintesi unitaria e umanistica preannunciata dall’Occidente, viene così frantumata in una molteplicità di racconti. È la loro ‘comparsa’ sulla scena della storia a ‘destabilizzare’ categorie – come quella di nazione – che sono state funzionali a questo tipo di rappresentazione, configurandosi come l’unico contesto nel quale fosse possibile il pieno sviluppo dell’autocoscienza e della libertà, quale esito dell’universale processo di razionalizzazione del mondo. Lo scopo è quello di rimettere in discussione il rapporto tra la produzione di spazio che contraddistingue il capitalismo e le modalità con cui lo spazio è stato prodotto e organizzato sotto il profilo politico, un rapporto da cui scaturiscono quei meccanismi di razzializzazione e di esclusione già esaminati da Fanon.

Guha, Spivak, Chakrabarty, Chatterjee, Grosfoguel, Ong e tanti altri studiosi di area postcoloniale rivendicano, sia pure con atteggiamenti ed esigenze teoriche differenti, la necessità di superare i limiti nei quali sono stati relegati ad una condizione marginale di subalternità i saperi, le storie, le soggettività ‘altre’, costantemente rimosse dalla dominante narrazione eurocentrica che ha pretestuosamente rappresentato la modernità in termini di costitutiva interazione tra colonizzatore e colonizzato. Un rapporto certamente asimmetrico, ma descritto anche ambiguamente in termini di reciprocità[7]. Lo sforzo epistemologico di rompere con questa narrazione dominante e totalizzante si innesta sulla necessità di confrontarsi con l’odierna crisi del trascendentalismo e delle logiche della rappresentazione del soggetto. Una parte della critica postcoloniale ha tracciato nuove traiettorie teoriche che passano attraverso il depotenziamento dell’identità, le analisi culturali delle infrastrutture e delle retoriche discorsive, fino ad indagare il ruolo dell’immaginazione nella costituzione di soggettività sempre più differenziate ed instabili. Prospettive estremamente feconde nel mettere in evidenza i limiti e la retorica dei discorsi multiculturalisti che, soprattutto in ambito anglosassone, hanno avuto un’enorme diffusione nel momento in cui sono emersi gli effetti sradicanti della globalizzazione sui processi di costruzione identitaria. La difesa delle differenze viene condotta a partire da un importante decentramento, che induce a considerare il carattere processuale e dinamico delle culture, intese come spazi in continuo movimento nei quali si sedimentano e vengono risemantizzati sensi e significati delle soggettività alla luce di un indefinito processo di incontri e fusioni. Gli effetti deterritorializzanti della globalizzazione spingono lungo i sentieri della diaspora e del viaggio, re-iscrivendo il discorso sull’altro in chiave rappresentazionale piuttosto che ontologica. Identità meticce aperte a continue contaminazioni che vanno interpretate tenendo conto dei loro innumerevoli rapporti con l’Altro, del contesto in cui si dipanano nonché delle loro particolari articolazioni storiche. Soggettivazioni ibride, che si producono prevalentemente nei margini, in ‘spazi terzi’ nei quali vengono negoziate rivendicazioni, re-iscritte identità, elaborate strategie di resistenze.

La sensazione, tuttavia, è che – al di là delle apprezzabili intenzioni ‘antiessenzialistiche’ – approcci eccessivamente schiacciati sulla valorizzazione tout court delle differenze finisce per renderle ‘in-differenti’, ossia fa venire meno quelle distinzioni identitarie, minime eppure necessarie, per mettere in campo una qualsiasi forma di conflittualità politica. Al contempo questo tipo di approccio rischia di essere troppo empatico con una prassi governamentale neoliberale la cui logica economica e le cui istanze antirappresentative e libertarie giustificano la sua attitudine a neutralizzare il conflitto, svuotando proprio quei processi di identificazione formale considerati come una limitazione alla piena affermazione delle differenze e delle singolari potenzialità. Un rischio di ‘impoliticità’ che si ripresenta in tutte quelle analisi eccessivamente estetizzanti, costruite prevalentemente, se non esclusivamente, sul testo letterario come possibile luogo di diffrazione nei confronti del discorso dominante. Una prospettiva che attribuisce la responsabilità dell’oppressione e dello sfruttamento (post)coloniale ad un presunto eurocentrismo di stampo culturale, finendo con il rimuovere del tutto i processi reali, quelli cioè di sfruttamento materiale dei subalterni.

Non si tratta affatto di recuperare alcun orizzonte fondazionalista, trascendentale o identitario, tanto meno pezzi di un emancipazionismo teleologico ed universalizzante. Occorre piuttosto riconsiderare il problema delle soggettivazioni politiche a partire dall’ineliminabile e necessaria conflittualità che le porta a costituirsi come tali nell’immanenza dei processi nei quali esse operano. Ripensare il presente alla luce della diagnosi fanoniana impone allora una riflessione su quanto l’effettiva presa di parola e l’apparizione sulla scena politica dei subalterni è una condizione realizzabile, in maniera contingente e provvisoria, a patto di mantenere aperta la distanza dall’alterità. Un gesto necessario – da un punto di vista teorico – per evitare qualsiasi pericolo di sintesi assimilative e conformistiche, ma soprattutto indispensabile – da un punto di vista politico – per preservare spazi nei quali si insediano flussi di controcondotta, pratiche e posizionamenti che strategicamente antagonizzano contro il discorso egemone neoliberale.

NOTE

[1] Riprendo qui la felice formula utilizzata da. R. Beneduce, La tormenta onirica. Introduzione a F. Fanon, Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale, Ombre Corte Verona 2011, pp.7-70 (p. 11).

[2] Mi riferisco ad alcune interpretazioni, come quella offerta da Bhabha, che spingono particolarmente su questo aspetto, cfr. H. Bhabha, Remembering Fanon: Self, Psyche and the colonial condition (1986), introduzione a F. Fanon, Black Skin White Masks, Pluto, London 2008, pp. XXI-XXXVII; Id., Foreword: Framing Fanon, introduzione a The Wretched of the Earth, Grove Press, Pluto Press 2004.

[3] R. J. C. Young, Postcolonialism. An Historical Introduction, Blackwell, Oxford, 2001, p. 276.

[4] Mi riferisco alla ormai notissima espressione usata da D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa (2000), tr. it. Meltemi, Roma 2004.

[5] R. Robertson, Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale (1992), tr. it. Asterios, Trieste 1999.

[6] A. Mbembe, Che cos’è il pensiero postcoloniale, in “Aut Aut”, n. 329, 2008, pp. 46-103 (p. 57).

[7] Cfr. S. Mezzadra Temps historique et sémantique politique dans la critique postcoloniale, in “Multitudes”, n. 26, Automne 2006, reperibile on-line a questo indirizzo http://www.multitudes.net/Temps-historique-et-semantique/.

Immagine in apertura: Photo d’un slogan du FLN (prise dans la casbah au mois de juin 1962 – Algeri)

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