L’epidemia globale ha reso evidenti diverse contraddizioni del capitalismo contemporaneo, in primis l’imprescindibile legame tra produzione e riproduzione sociale.  Detto altrimenti, la pandemia ha messo in luce il ruolo fondamentale del lavoro di cura retribuito e non, che sappiamo in entrambi i casi gravare quasi esclusivamente sulle spalle delle donne. Infatti, le caratteristiche intrinseche del virus rendono più esposte le persone anziane e vulnerabili, le quali necessitano di maggiore lavoro di cura fisico e psicologico, mentre la chiusura delle scuole e l’incentivo allo smart working aggravano il carico di lavoro nella gestione dei figli e dell’ambiente domestico che diventa anche lavorativo. Tuttavia, nonostante l’evidente necessità di pensare ad un sistema di cura più sostenibile, le politiche vanno nella direzione contraria. Il Decreto “Cura Italia”, infatti, non riconosceva alcuna tutela alle lavoratrici della cura (colf, baby-sitter, assistenti familiari ma non solo), e non considera tutto il lavoro non retribuito su cui si è sempre appoggiato il sistema di welfare familistico che caratterizza il nostro Paese.

Contestualmente, le associazioni antiabortiste da un lato, così come i governi più retrogradi dall’altro provano a farsi spazio. Sotto attacco, come spesso accade, i diritti delle donne. Lo abbiamo visto in Polonia dove la maggioranza ha avanzato una proposta di legge in parlamento per ridurre le già limitate situazioni in cui una donna può ricorrere all’aborto, approfittando delle restrizioni imposte dalla pandemia che comprendono il divieto di assembramenti e quindi di manifestazioni di protesta. In Italia ci hanno provato associazioni come “Pro vita e Famiglia”, che ha avviato una raccolta firme per interrompere il servizio di IVG, sostenendo che in un periodo di emergenza sanitaria globale è necessario liberare le poche risorse disponibili per i servizi fondamentali. Sul loro appello si legge: “in una situazione di emergenza nazionale e internazionale nella quale gli interventi chirurgici – talvolta – vengono effettuati solo per i pazienti in pericolo imminente di vita, invece si continua imperterriti a sopprimere i bambini nel grembo materno e a considerare la pratica abortiva come se fosse un servizio essenziale, indifferibile e urgente. Inoltre, così facendo si sottraggono ulteriori risorse umane ed economiche che potrebbero essere usate per far fronte al coronavirus”. Le risposte da parte del movimento femminista non si sono fatte attendere in Polonia come in Italia.

Il virus, dicevamo, porta alla luce le contraddizioni del sistema sociale transnazionale in cui ci troviamo. Questo è reso evidente nella moderna configurazione delle catene globali della cura, sostenuta dalle donne native e migranti, pilastro della riproduzione sociale che rischia di non reggere se non adeguatamente supportata. Così come è evidente nel legame tra ecologia e città, lavoro, ambiente e natura che rischia di implodere per gli effetti del cambiamento climatico sulle specie viventi e sulla terra. Ma anche nella polarizzazione di un sistema già profondamente marcato da diseguaglianze economiche e di accesso alle risorse urbane che rischia di aggravarsi. Tuttavia, la classe politica non tutela le lavoratrici, non redistribuisce il carico di cura, non supporta le periferie isolate, non pensa certo a mettere in discussione un sistema basato sullo sfruttamento capillare del lavoro, della vita e dell’ambiente.

Quindi cosa si produce? Quello che è sotto gli occhi di tutte e tutti. Mentre nulla viene messo in discussione (pochi condividono il messaggio “non vogliamo tornare alla normalità perché la normalità era il problema”), un sistema stringente di sorveglianza e controllo sociale prende forma. Forze dell’ordine, droni, app e multe per monitorare le interazioni sociali e vigilare sulla mobilità. Appelli all’unità nazionale, Inno di Mameli, tricolore e corpi vuoti, neutralizzati, disinfettati, volti coperti da mascherine in città sventrate e deserte. Lo scenario è apocalittico.

Sicuramente è azzardato ma viene da pensare a Gilead e a “The Handmaid’s Tale”, una serie televisiva del 2017 di Bruce Miller e basata sul romanzo “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood. In un futuro (molto) prossimo, caratterizzato dalla riduzione del tasso di fertilità e da inquinamento ambientale, viene instaurato – anche a causa dell’indifferenza generale verso l’operato di associazioni integraliste – un regime teocratico totalitario: Gilead (gli odierni Stati Uniti d’America). In questa società iper-controllata e divisa in classe sociali, le donne sono brutalmente sottomesse e le poche fertili sono assegnate alle famiglie più ricche. Le donne fertili, le Ancelle, subiscono stupri rituali dal proprio comandante allo scopo di fare figli per le famiglie a cui sono assegnate, poi vengono ri-assegnate ad un’altra famiglia: procreare è il loro unico scopo. Le Ancelle non possono muoversi se non seguendo specifiche direttive e l’unica attività che possono svolgere quotidianamente è la spesa (una delle poche attività possibili durante la quarantena imposta per via del coronavirus). Infatti, Gilead è controllata dagli occhi (un esercito che sorveglia tutti i distretti), che vigilano sul rispetto delle norme imposte in nome della sicurezza. Gli unici luoghi accessibili per le ancelle sono i supermercati e la casa in cui vengono di volta in volta assegnate. Tutte le donne, comprese quelle di alti ranghi sociali, sono costrette a subire violenze e vessazioni in un sistema patriarcale totale[1].

Una città congelata e grigia, come sembrano apparire oggi le metropoli in tempi di pandemia. Grigia come i vestiti delle “Marte”, le governanti sottomesse a cui è delegato il lavoro domestico per le famiglie più potenti. Le Ancelle sono le uniche vestite di rosso, in modo che siano sempre visibili. L’unico luogo dove non si è osservati è la casa, sebbene essa non definisca altro che lo spazio in cui si è alla mercè dei desideri del Comandante. E questo è estremamente spaventoso tanto quanto lo è oggi, perché come sappiamo, la casa non è affatto un luogo sicure per tutte. E ce lo raccontano le cronache di femminicidi e i dati forniti dai centri antiviolenza nelle settimane di lockdown. A marzo le richieste di aiuto dalle donne sono aumentate del 74,5% ed è evidente che questo dato sia assolutamente parziale. Insomma, le somiglianze ci sono ed elementi su cui riflettere anche. Qual è la cosa positiva? Anche a Gilead le donne sperimentano nuove forme di resistenza creativa e di ribellione al dominio maschile.

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Note:

[1] Questo è un passaggio della serie che permette di ragionare sulla dimensione interclassista del sessismo e del patriarcato. In altre parole, il sistema patriarcale colpisce – seppur in forme e con intensità diverse – tutte le donne a prescindere dalla classe sociale.