Lunedì 22 maggio, la città di Genova inizia ad assistere allo svolgersi di una protesta organizzata da un gruppo di richiedenti asilo, ospiti di diverse strutture d‘accoglienza dislocate sul territorio cittadino. Come ricercatrici in scienze sociali, in collaborazione con l’Ambulatorio Città Aperta

[1] e la rete Operatori X[2], abbiamo deciso di seguire da vicino la vicenda, non solo per comprendere in profondità le ragioni della rivendicazione e delineare il contesto in cui questa si colloca, ma anche per documentarla, nell’ottica di dar vita ad un percorso partecipato di monitoraggio e d’informazione. Un percorso che attraversi le contraddizioni dell’accoglienza e della riproduzione dei confini dentro ed oltre lo spazio urbano, al fine di decolonizzare lo sguardo sulle pratiche della migrazione.

Un’idea nata riflettendo su quanto le comunità, nel contesto cittadino, siano nei fatti poco consapevoli della complessità che ogni giorno migranti ed operatori dell’accoglienza si trovano ad affrontare sul territorio in cui vivono, anche a causa della produzione di un discorso pubblico che, dietro l’apparente neutralità, nasconde, nei fatti, gli effetti di una violenza strutturale, una violenza che quotidianamente riproduce ed amplifica narrative stereotipanti e retoriche razzializzate.

Il 22 maggio i richiedenti asilo scendono dalle alture di Coronata verso il centro della città, dirigendosi sotto la Prefettura per chiedere di essere ascoltati dalle istituzioni.

La richiesta sembra apparentemente banale, quasi scontata: chiedono di poter aver accesso alle proprie stanze nell’arco della giornata. Risiedono in cinque strutture diverse, tutte gestite dalla Fondazione Migrantes (Casa del Campo in via del Campo, Casa San Francesco da Paola, Casa Camogli –sulla quale, per ora, non abbiamo raccolto informazioni dettagliate-, Villa Ines a Struppa e l’ex ospedale San Raffaele di Coronata): il fiore all’occhiello della “buona accoglienza genovese”. La giornata delle persone ospitate nelle strutture, circa 320 -tutti uomini provenienti in larga parte dall’Africa centro occidentale-, gravita attorno ad un unico centro: il “Campus” situato in via Coronata, 100: un progetto finanziato dalla Chiesa, attraverso l’Ufficio diocesano per la pastorale Migrantes di Genova, che opera mediante la cooperativa “Un’altra storia”[3]. Gli immobili che lo ospitano sono di proprietà del Comune di Genova, che li ha alienati, cioè concessi gratuitamente, a Migrantes, attraverso una convenzione di durata ventennale[4].

L’“Università di Via Coronata”, così era stata descritta mesi fa da Don Giacomo Martino[5], sembra proporre un vasto ventaglio di attività, che vanno dai corsi di italiano L2, corsi di cucito, passando per il calcetto e le bocce oltre che uno sportello di assistenza sanitaria e la promessa di svariate borse lavoro.

I richiedenti asilo che incontriamo sotto la prefettura di Genova, però, ci narrano un’altra storia, che poco ha a che fare con i discorsi ufficiali.

Gli domandiamo, così, come si svolge la loro giornata. Dalle 8h30 del mattino alle 18h00 tutti gli alloggi sono chiusi ed inaccessibili. Anche la parte del San Raffaele in cui sono collocate le camere osserva i medesimi orari. Chi non è già sul posto, perché ospite all’ex ospedale di San Raffaele, ogni giorno si reca a Coronata, dove partecipa ad un’ora di scuola di italiano e riceve il pranzo. Nel pomeriggio ci sono le attività e poi, a fine giornata tutti salgono di nuovo sull’autobus per recarsi verso il centro, alla Casa della Giovane di via delle Fontane e, dopo la cena, ognuno riprende il cammino verso i propri alloggi.

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Le ragioni che li hanno spinti a scendere in piazza, il lunedì e poi il giorno seguente, martedì 23 maggio, hanno a che vedere con l’organizzazione materiale appena descritta, ma, non appena formulate, le istanze rivelano rivendicazioni più generali, legate all’approccio infantilizzante e paternalistico dell’accoglienza che nei fatti diventa un dispositivo totalizzante, che cattura e regola dall’alto ogni aspetto della vita del migrante.

I richiedenti asilo del Campus di Coronata che abbiamo incontrato davanti alla Prefettura di Genova ci hanno raccontato dei disagi causati dall’organizzazione delle loro strutture: dover restare obbligatoriamente “fuori casa” tutto il giorno è faticoso, specialmente in inverno o in giornate di pioggia, o ancora quando si è malati o non ci si sente bene. Ci raccontano di aver cercato di sollevare il problema alla direzione più di una volta, ma di aver sempre ricevuto scarsa attenzione e risposte negative, motivate dal fatto che, per tenere aperte le strutture nelle ore diurne, si sarebbe dovuto ricorrere ad aumento del personale, che la gestione non può sostenere economicamente. Adesso però, con l’imminente inizio del mese di Ramadan (la sera di venerdì 26 maggio), diventa urgente trovare una soluzione, poiché il regime di digiuno diurno causa debolezza fisica e impone orari ben precisi per i pasti notturni e le preghiere.

A.[6] ci spiega per quale motivo si sono recati per ben due volte sotto la Prefettura e perché hanno preteso di essere ricevuti dal prefetto o da un suo rappresentante: «Noi siamo presi in carico dallo Stato italiano, il quale riceve dei fondi dalla comunità internazionale e da organismi come la Banca Mondiale per organizzare l’accoglienza. Il prefetto è il diretto rappresentante dello Stato sul territorio e quindi, poiché è la Prefettura a distribuire i soldi alle varie strutture, il prefetto è in pratica il datore di lavoro del direttore della nostra struttura. Abbiamo cercato per mesi di avere un dialogo con lui, ma non ci ha mai considerati, adesso veniamo dal suo capo per spiegare le nostre ragioni».

Restiamo a lungo a discutere, mentre si aspetta che la delegazione ricevuta dal vice-prefetto faccia ritorno. Le conversazioni, principalmente in francese, sono collettive. In molti hanno voglia di far capire cosa li muove. Oltre ad un cartello con scritto «Siamo stanchi», ne hanno un altro sul quale si legge «We need freedom».

Le spiegazioni non tardano.  Il punto che i richiedenti asilo sollevano non riguarda, come suggerito dalla prima risposta data da Don Giacomo[7] ai giornali, il fatto di non voler partecipare alle attività formative. Secondo quanto riferito dal responsabile infatti, la chiusura diurna del centro sarebbe finalizzata ad incentivarli a partecipare alle formazioni volontarie del pomeriggio: «devono prendere parte ai corsi di italiano e alle borse lavoro e non rimanere ad oziare», riferisce[8]. Molti di coloro con i quali parliamo e quindi coinvolti attivamente nelle proteste, ci mostrano i diplomi che gli sono stati consegnati la mattina stessa, i quali, sotto l’intestazione “Coronata Campus” e “Il Domani, associazione culturale”, attestano la partecipazione ai corsi pomeridiani.

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Per i soggetti in questione il problema principale è quello di ritrovarsi privati di qualsiasi libertà di scelta rispetto a quali attività ritengano più utili alla loro crescita ed inserzione nel mondo del lavoro, ma anche, più in generale, alla loro vita in Italia. B. fa un discorso molto chiaro sul necessario equilibrio che deve intercorrere tra i doveri e i diritti di qualsiasi essere umano: riconoscono il fatto di avere il dovere di svolgere delle attività, di formarsi per potersi integrare, ma credono fermamente che la loro opinione, anche nei confronti della qualità dei corsi che gli sono offerti e le loro volontà debbano essere rispettate e tenute in conto. Ad esempio, parla del fatto che a lui interesserebbe imparare bene l’italiano, perché è quello di cui ha bisogno per costruirsi un futuro, anche lavorativo, ma che il corso estremamente basico di un’ora al giorno che possono seguire a Coronata è frustrante. Gli fa eco C. che dice: «Ci mettono tutti assieme: io che non ho fatto studi e lui (B., nda) che ha finito l’università… il risultato è che non serve a nessuno dei due!».

Le altre attività cui hanno accesso, e alle quali hanno partecipato le persone con cui abbiamo parlato, riguardano principalmente lavori di muratura e imbiancatura, pulitura del verde e agricoltura. Tutti eseguiti all’interno del Campus, il cui edificio principale e le adiacenze, essendo state abbandonate per decenni, necessitano di consistenti interventi di manutenzione e recupero. Per alcuni è inaccettabile che gli si chieda di lavorare per mesi (a quanto abbiamo capito, il ciclo di ogni attività ne dura tre), senza nessuna garanzia che quel lavoro possa trasformarsi in un’attività remunerata, che tra l’altro gli era stato promesso nella forma di borse lavoro. D. dice: «So già che a Genova non ci sono grandi opportunità lavorative, allora, per faticare a fare il muratore o spaccarmi le mani a fare agricoltura, era meglio restare al Sud dove si lavora duro nei campi, ma almeno qualcosa si guadagna». Parole forti, come schiavismo, vengono pronunciate più volte.

Ci sembra importante sottolineare quanto sia ampio lo scarto tra la complessità delle vertenze dei migranti e la modalità con cui queste vengono narrate;  banalizzando, appiattendo e riconducendo le istanze sempre a rivendicazioni di tipo materiale, come se si stesse sempre parlando di qualità del cibo e di condizioni igieniche o alloggiative[9]. Come se la permanenza dei migranti sul territorio sia sempre connotata dalla temporalità dell’ “emergenza”, oggettivata nella transitorietà di un perenne attraversamento del confine. Una mera questione di sopravvivenza, nei fatti.

Queste rivendicazioni esistono, è ovvio, ma non sono mai fini a sé stesse: non si esauriscono soltanto nella richiesta di condizioni di vita migliori.

A. ne parla in questi termini: «Il problema non è la sofferenza materiale, quando siamo partiti sapevamo che sarebbe stata dura. E poi, abbiamo vissuto il carcere il Libia… non sono un così grande problema il cibo scadente, le camerate e i pochi bagni. Queste cose, al limite, possiamo accettarle e d’altronde capiamo che non sia facile organizzare l’accoglienza per così tante persone. Ma la libertà di poter scegliere cosa riteniamo giusto fare non possiamo cederla. Pensa che se uno un giorno è malato non può neanche decidere di restare a riposare». Costituiscono un problema, però, quando sono tali da ledere alla dignità delle persone, quando queste stesse condizioni diventano un freno per la creazione di relazioni al di fuori delle strutture. In questo senso, in molti ci hanno raccontato di come l’assenza di acqua calda o, come al San Raffaele, il fatto che un solo bagno ne sia dotato (sono in 85 a dormire nella struttura), faccia sì che raramente riescano a mantenere il livello di cura e igiene personale che vorrebbero, sentendosi anche additati sui mezzi pubblici o dagli stessi formatori, che aprono le finestre delle stanze in cui si trovano lamentandosi dell’odore. O ancora, l’organizzazione della distribuzione dei pasti comporta che quasi sempre mangino tutti assieme, in quasi 300 persone, con conseguenti code, spintoni e tensioni particolarmente umilianti. Ci dicono, inoltre, che in tutti questi mesi hanno utilizzato il proprio pocket money (che ammonta a 75 euro al mese) per l’acquisto delle medicine direttamente in farmacia. A nessuno è a stato parlato del diritto/dovere di iscrizione al servizio sanitario nazionale per i richiedenti asilo, né della possibilità di accedere alle cure gratuite grazie alla dichiarazione di indigenza effettuabile presso le ASL cittadine.

Lo scarto più stridente ci appare, comunque, quello che intercorre tra la visione che un certo tipo di accoglienza pare avere, ed alimentare e quelle che sono invece la volontà dimostrate dagli stessi soggetti. Come detto più sopra, dalle parole dei nostri interlocutori traspare un’analisi molto cosciente della situazione e delle possibilità. Quella che propongono non è una critica ad un sistema che li vuole attivi fisicamente. È piuttosto una critica ad un sistema che li obbliga ad un’ipercinesi che non lascia alcuno spazio alla loro capacità di autodeterminarsi e alle loro necessità, sia materiali che personali e formative.

La risposta di Don Giacomo al secondo giorno di proteste, ha la forma di una lettera, diffusa mezzo stampa, nella quale si ripropongono i medesimi argomenti riguardo la necessità di impedire l’inattività, articolandoli ad una percezione degli ospiti delle strutture da lui dirette come esseri in balia degli eventi, demotivati e con una particolare tendenza ad abbandonarsi all’inedia[10]. Alcune frasi di questa lettera non potrebbero essere più chiare: «Purtroppo molti non hanno un pensiero costruttivo per la propria vita e senza un’offerta formativa si ritrovano per strada a chiedere l’elemosina, come si può notare agli angoli della nostra città». E ancora: «Chi ha accesso tutto il giorno alle stanze vive di notte e dorme di giorno, favorendo la spinta a una inoperosità che va contro ogni progetto di integrazione».

Chi protesta è perfettamente cosciente della distorsione in atto e lamenta il fatto di essere considerati incapaci di collocarsi e determinarsi, per di più sottostimati in quelle che sono le loro competenze e possibilità. F. dice: «ci credono degli illetrés», traducibile come analfabeti, ma con un’accezione più precisamente legata alla formazione scolastica e alla capacità di comprendere, che va ben oltre alla padronanza della scrittura e della lettura.

«Il nostro timore, visto che durante le proteste a contestare non sono solo ospiti stranieri ma anche giovani italiani, è che i ragazzi possano essere strumentalizzati da persone che pensando di far loro del bene e in realtà fanno compiere loro scelte sbagliate»[11] chiosa Martino, esplicitando bene la ratio che connota il regime dell’umanitario e rifrange gli effetti di una retorica vittimizzante e colonialista, che continua a guardare il migrante, nei fatti, come soggetto necessariamente subalterno.

«Nelle strutture ci sono molti intellettuali, molti politici e svariati politologi, molti che hanno terminato l’università: certo che abbiamo organizzato tutto tra noi»[12] risponde F. quando nel corso della protesta gli viene domandato se qualcuno li ha aiutati nella mobilitazione.

E lo stupore nel suo sguardo risuona più forte di ogni smentita.

 

P.S.: Mercoledì 24 maggio i richiedenti asilo si sono dati appuntamento al Campus tra le 7 e le 8 del mattino. Il loro obiettivo era quello di impedire l’accesso alle strutture agli operatori e ai numerosi impiegati che lavorano per la fondazione, in uffici interni alle strutture: «fino a quando le porte non saranno lasciate aperte, nessuno lavora». Così hanno fatto e, in maniera deliberatamente non violenta, hanno barricato gli ingressi, costringendo operatori ed impiegati ad attendere sul piazzale per circa un’ora. Abbiamo assistito allo svolgersi dei fatti e abbiamo lasciato il luogo quando, con mediazione della Digos, si è stabilito di attendere venerdì, concedendo due giorni alla direzione per organizzare dei cambiamenti. Nel caso tali cambiamenti non fossero arrivati, è stato chiarito che avrebbero avuto luogo ulteriori proteste.

Oggi (venerdì 26 maggio) la mattinata è iniziata nell’incertezza: sembrava che nessuna richiesta fosse stata accettata e le ore si sono dilatate in un lunghissimo incontro tra dirigenza e ospiti. All’uscita dall’incontro, però, ci hanno fatto sapere di essere riusciti ad ottenere ascolto: le porte resteranno aperte.

Ci ripromettiamo di continuare a seguire questa vicenda, che ci sembra particolarmente interessante e ricca di spunti di riflessione.

NOTE

[1] Dal sito dell’Ambulatorio: «L’Associazione Ambulatorio Internazionale “Città Aperta” è un’associazione di medici, infermieri e volontari, aderente alla rete del GLIS (Gruppo Ligure Immigrazione e Salute). È stata fondata nel 1994 per iniziativa di alcuni volontari già appartenenti a questa associazione multietnica. Dopo due anni di attività quasi pionieristica nei locali della parrocchia di San Donato, dal 1996 l’ambulatorio si è trasferito nell’attuale sede di vico del Duca (di fronte a Palazzo Tursi), con l’obiettivo di rendere effettivo quel diritto alla salute che è proprio di ogni essere umano, di qualunque provenienza geografica, religione e status socialeL’obiettivo dell’ambulatorio non si esaurisce nella sola assistenza: offrire un’assistenza medica di base agli immigrati “irregolari” che la legge non garantisce perché orientata a regolare solo l’emergenza, è un modo per esercitare un’efficace azione politico-sociale. Il diritto alla salute diventa così il terreno per una battaglia più ampia in difesa dei diritti della persona», https://cittaperta.jimdo.com/ .

[2] Operatori del sociale a Genova che in questi ultimi mesi, in parallelo a quel che succede in molte altre città italiane, si stanno interrogando e mobilitando per costruire analisi e pratiche volte alla riformulazione del loro ruolo e di quello delle strutture nelle quali operano, verso un superamento dell’assistenzialismo e delle logiche emergenziali. Qui una loro nota: https://www.facebook.com/notes/operatori-x-genova/usciamo-dallemergenza/1910126912566187/ .

[3]http://genova.repubblica.it/cronaca/2016/10/09/news/coronata_nasce_qui_il_campus_dei_migranti_lezioni_per_un_futuro-149360725/.

[4] http://www.comune.genova.it/content/sottoscrizione-del-progetto-sociale-coronata .

[5] Don Giacomo Martino, responsabile di Migrantes Genova e quindi direttore delle strutture gestite dalla fondazione diocesana. I richiedenti asilo lo chiamano semplicemente Giacomo.

[6] Le iniziali scelte per identificare gli interlocutori non corrispondono all’iniziale del nome delle persone reali.

[7]

[8]http://genova.repubblica.it/cronaca/2017/05/24/news/migranti_la_protesta_si_sposta_a_coronata-166274179/ http://genova.repubblica.it/cronaca/2017/05/23/news/migranti-166211243/

[9] Anche un articolo, corredato di intervista video, realizzato a pochi passi da dove noi raccoglievamo le testimonianze che vi presentiamo, ci sembra vada in quella direzione: http://www.genova24.it/2017/05/cibo-scaduto-ore-strada-la-protesta-dei-profughi-stanchi-180532/ .

[10]http://www.genova24.it/2017/05/profughi-linea-dura-della-chiesa-strutture-chiuse-seguire-corsi-180563/ .

[11]http://genova.repubblica.it/cronaca/2017/05/24/news/migranti_la_protesta_si_sposta_a_coronata-166274179/

[12] http://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2017/05/Cecilia-presidio-genova.mp3

Immagine in apertura: il campus della Coronata