Où suis-je ? Leçons du confinement à l’usage des terrestres1 è l’ultima opera del sociologo, antropologo e filosofo francese Bruno Latour. Già noto per la sua Actor Network Theory2 e per molte delle sue opere, di cui qui ricordiamo soltanto Nous n’avons jamais été modernes. Essai d’anthropologie symétrique, Face à Gaia : Huit conférences sur le Nouveau Régime Climatique o ancora Où Atterrir? Comment s’orienter en politique, con quest’ultimo scritto il fondatore di Médialab3 continua la sua riflessione sull’attuale emergenza climatico-ambientale, ma questa volta a partire anche delle criticità emerse con la pandemia da virus SARS COVID-19. Ponendosi quasi come la continuazione del suo precedente Où Atterrir? Comment s’orienter en politique, Où suis-je ?è un’opera in cui Bruno Latour riflette sia sul diretto legame fra la pandemia da COVID-19 e la situazione ecologica globale, sia sulle implicazioni e le conseguenze della prima sulle nostre vite (riferendosi, in particolare, al contesto geo-politico occidentale). Ecco quindi che, proprio a partire dall’esperienza della pandemia, in Où suis-je? Bruno Latour pone le condizioni per un ripensamento radicale del rapporto fra l’uomo (occidentale) e la Natura (ciò che non è Cultura, per citare l’antropologo Philippe Descola4), portandoci sia a comprendere i limiti dell’attuale modo di intendere tale relazione, sia introducendoci alla proposta del pensiero terrestre.

Nel primo capitolo (“Un devenir-termite”) Bruno Latour paragona le condizioni di vita di chi decide di adottare un punto di vista critico sul presente a quelle del protagonista del celebre romanzo La Metamorfosi di Franz Kafka: Gregor Samsa, risvegliatosi una mattina nella sua stanza in forma di scarafaggio. In effetti, spiega Bruno Latour, date tutte le criticità climatiche ed ambientali con cui siamo costretti a convivere, sarà soltanto a coloro che avranno la forza ed il coraggio per la messa in campo di nuove pratiche di esistenza la possibilità di una vera critica del presente. Riutilizzando la figura della metamorfosi, centrale nel celebre romanzo dello scrittore boemo, in Où suis-je? Bruno Latour propone di cercare una nuova modalità di relazione fra l’essere umano e la natura, nel tentativo di pensare tale rapporto e gli attori dello stesso in modo differente (di compiere una metamorfosi, si potrebbe dire). In riferimento più o meno esplicito agli studi di Deleuze e Guattari sul concetto di ligne de fuite, Bruno Latour indica come inhumains la maggior parte degli esseri umani che, proprio come i genitori di Gregor Samsa, rifiutano di vedere le possibilità di esistenza contenute nel devenir-insect del figlio che, proprio come chi decide di adottare un nuovo punto di vista sulla realtà, pone in essere una pratica trasformativa della sua esistenza, portatrice dunque di un diverso pensiero del mondo. Nei prossimi capitoli di Où suis-je? Leçons du confinement à l’usage des terrestres, Bruno Latour mostrerà in che cosa consiste quest’altra possibilità, mantenendo sempre il riferimento a La Metamorfosi di Franz Kafka.

Nel secondo capitolo (“Confinés en un lieu quand même assez vaste”) Bruno Latour ci introduce alla prima delle alternative di un pensare terrestre. A partire dalla possibilità dei singoli di cambiare la loro modalità di relazione con la Natura (devenir-insecte) illustrata nel capitolo precedente, qui Bruno Latour mostra una delle applicazioni di questa medesima trasformazione (metamorfosi). Le città, dalle metropoli ai più piccoli villaggi, secondo Bruno Latour, dovrebbero essere concepite non semplicemente come luoghi di insediamento umano, ma come spazi di condivisione e di creazione. In continuità con il devenir-insecte del capitolo precedente, qui Bruno Latour ci invita a pensare alle città come a dei formicai:

«Il en est de la ville comme de la termitière : habitat et habitants sont en continuité ; définir l’un, c’est définir les autres ; la ville est l’exosquelette de ses habitants [ 5

Oltre a ciò, riferendo di uno studio del geochimico Jerome Gaillardet de l’Institut de physique du globe de Paris, nel quale è mostrato come la montagna delle Prealpi Grand Veymont sia totalmente formata da coralli in relazione tra loro, allo stesso modo, sostiene Latour, andrebbero pensate le nostre città e i suoi abitanti. Proprio come Gregor Samsa dalla sua stanza, ecco che Latour, in questo secondo capitolo, ci suggerisce di ripartire dalle condizioni imposteci dalla pandemia per cominciare a guardare noi stessi e il mondo esterno in modo differente, oltre quella divisione fra ciò che è umano e ciò che è naturale tipicamente moderna6. Sempre attraverso un’altra immagine di natura letteraria, in questo secondo capitolo Bruno Latour definisce la nostra attuale condizione di vita analoga a quella dei protagonisti di L’isola misteriosa di Jules Verne i quali, malgrado la confusione in cui si trovano appena giunti nell’isola, sono comunque rassicurati dal fatto di poter avere una visione dei suoi quattro angoli collocandosi al centro della stessa. Secondo Bruno Latour, l’attuale condizione degli uomini è la medesima, infatti questi, malgrado l’ineluttabilità e l’imprevedibilità degli eventi che li circondano (la pandemia in questo senso è fin troppo esemplare), hanno comunque la possibilità di comprendere e riflettere sui problemi con cui si trovano costretti a convivere, accettando tuttavia di adottare un altro punto di vista; di, appunto, devenir-insecte. Ecco dunque che Latour, rimandando alla sua precedente opera Face à Gaia : Huit conférences sur le Nouveau Régime Climatique, ripropone come soluzione la ricerca di dialogo con i Terrestres, ovvero con coloro che abitano la Terre (habitent en deça) e che non ricercano l’Univers, di cui, spiega Latour, non si potrà mai fare esperienza diretta, non essendo quest’ultimo né creato né in relazione con noi (a differenza del formicaio per le formiche, delle montagne per i coralli o delle città per gli uomini). Con quest’ultima espressione Bruno Latour intende quei modi di pensiero, già descritti nella sua precedente opera Nous n’avons jamais été modernes, che rifiutano di sviluppare una riflessione in cui non sia presente una premessa totalmente antropocentrica e in cui la Terre è vista come mero elemento funzionale, avente quindi un suo valore solo a partire dalle attività umane7. É ai Terrestres che si rivolge questo appello di Latour, è con loro che sarà possibile analizzare e sovvertire la nostra situazione climatico-ecologica e ricominciare un nuovo dialogo con la Terre. In conclusione, ritornando a un altro tema presente nel primo capitolo, qui Latour ci invita a non accontentarci di concedere le nostre speranze alla Luna (presentata come l’ultimo luogo non in pericolo con cui avere un contatto, seppur soltanto visivo), ma piuttosto di tornare alla Terre e ai suoi abitanti.

Nel terzo capitolo (“Terre est un nome propre”) Bruno Latour riflette sulla differenza fra i due possibili modi di intendere il rapporto degli uomini con la Natura. In primo luogo riferisce di quello moderno, in cui viene posta una separazione ontologica tra Natura e Cultura (sempre citando Descola, ma lo stesso Latour nel suo Nous n’avons jamais été modernes) e in cui l’essere umano concepisce la sua relazione con la prima solo in termini di dominio, esemplificato in Où suis-je ? attraverso il rapporto presente fra Gregor Samsa e i suoi genitori; dall’altra il pensiero Terrestre, il devenir-insecte. Ma in che cosa consiste quest’altra possibilità di pensiero? In che cosa consiste questo diverso modo di pensarsi del soggetto umano? In questo capitolo, Bruno Latour pone prima di tutto una premessa per questa altra possibilità: il rifiuto dell’ Univers; il rifiuto di tutto ciò che, contrariamente alle euforiche proclamazioni di Jeff Bezos o di Elon Musk, è al di fuori della portata umana. Essere terrestres, devenir-insecte è prima di tutto un recupero dei propri limiti corporali. In particolare:

«celle qui commence par termite et celle qui commence par termitière sans jamais les séparer»8

Sempre in questo senso Bruno Latour propone di scrivere Terre con la lettera iniziale in maiuscolo, al fine proprio di sottolineare la profonda connessione (dunque la non-separazione) fra gli esseri viventi che compiono una determinata azione e fra quest’ultima e tutto il resto. Sempre in questo capitolo, Bruno Latour riporta la proposta dello studioso Sébastien Dutreuil, il quale vorrebbe che la stessa parola vie (vita) fosse anch’essa scritta e pensata con la lettera iniziale in maiuscolo, proprio per indicare la profonda connessione fra tutti gli esseri viventi e il loro ambiente, con delle esistenze non separate, ma bensì intrecciate fra loro, con continui effetti l’una sull’altra e dunque parte di un unico insieme di relazioni.

Nel quarto capitolo (“«Terre » est un nom féminin, « Univers » un nom masculin”), sul solco di quello precedente, Bruno Latour ci mostra il profondo legame tra la modalità terrestre di intendere il nostro rapporto con la Natura e ciò che viene sostenuto da una parte della critica femminista. Facendo esplicito riferimento agli studi dei filosofi Émilie Hache e Donna Haraway, Bruno Latour mostra l’analogia tra la sua proposta di interpretazione dell’elemento naturale e alcune delle attuali rivendicazioni degli studi femminsti. In effetti, mostra Latour, l’idea di negare una continuità tra l’essere umano e gli esseri naturali, tra le diverse parti di una città così come della parete del Grand Veymont, è la stessa logica denunciata dalle due studiose sopra citate e ai più nota con il nome di patriarcato9. Fin dalle prime società agricole, l’idea di rinchiudere le donne ad un ruolo meramente procreativo si rivela essere quella stessa modalità di pensiero che vorrebbe limitare la Natura a un mero oggetto di dominio. Non a caso, all’interno di questo discorso, risulta perfettamente adeguato il motto della Haraway make kin, not babies, evidenziando infatti la necessità del pensiero terrestre di accogliere l’eterogeneità della Terra, senza costringerla (così come vorrebbe la logica patriarcale) in un ruolo (per esempio a quello di sostentamento alimentare dell’essere umano).

Nel quinto capitolo (“Troubles d’engendrement en cascade”), in aperta polemica con alcune posizioni del neodarwinismo, Bruno Latour insiste nelle posizioni già avanzate nei capitoli precedenti. Rifacendosi a studiosi come Scott Gilbert, Charlotte Brives, o ancora Lynn Margulis, Bruno Latour propone di sostituire lo stesso termine di organisme con quello di holobiontes, al fine di indicare la profonda collaborazione presente in natura tra i vari organismi. In aperto contrasto e non senza ironia nei confronti del romanzo di Ayn Rand L’Atlantide, qui Bruno Latour, citando anche gli studi di Pierre Charbonnier, mostra come un pensiero terrestre potrà essere tale soltanto attraverso il superamento di tutti quelle modalità di relazione individualiste sostenute soprattutto da un certo pensiero vicino a politiche di tipo liberista.

Nel sesto capitolo (“«Ici-bas» – sauf qu’il n’y a pas de haut”) Bruno Latour si richiama alla storia dell’arte e, in riferimento agli studi di Hans Belting, di Louis Marin o ancora di Eric Voegelin, riflette sulla rappresentazione e la conseguente interpretazione dell’elemento cielo (le ciel) in ambito artistico. L’entusiasmo generalizzato per il celeste, simbolizzato come emblema di libertà, di progresso, di futuro e, più in generale, di valori positivi, è figlio di quella stessa logica di pensiero che insegue l’ Univers (nel significato sopra spiegato) e che cerca di imporre quest’ultimo alla Terre. Tuttavia, spiega Latour, già con l’ultima enciclica di Papa Francesco Laudato sì, tale modello è stato rifiutato per il recupero, al contrario, di un nuovo rapporto con la Terre, che sarà comunque fonte di quella trascendenza ricercata nel cielo e che si è voluto imporre. É necessario accettare la finitezza del mondo e recuperare una corporeità in continuità con esso, che, ritornando al già citato Sébastien Dutreuil, sarà Vita, seppur nella sua immanenza e nelle sue relazioni ici-bas, senza prometeismi alla Elon Musk.

Nel settimo capitolo (“Laisser l’économie remonter à la surface”) Bruno Latour si scaglia contro quell’idea per cui l’uomo sarebbe naturalmente homo oeconomicus, mostrando al contrario come ci sia stato un ben preciso processo culturale da parte delle classi dominanti che ha portato a ciò. Citando esplicitamente i lavori di Donald MacKenzie o di Dusan Kazic, in questo capitolo viene mostrato come vi siano tutta una serie di costituenti dominanti nei paesi occidentali (primi fra tutti, il già menzionato romanzo di Ayn Rand) che hanno portato a pensare l’uomo come inscindibile ontologicamente da dei rapporti di potere capitalisti. Sempre tornando alla dicotomia tra Univers e Terre, Bruno Latour mostra un altro aspetto della nostra società: il tentativo di imporsi del primo sul secondo.

L’ottavo capitolo (“décrire un territoire, mais à l’endroit”) è un’ulteriore critica di Latour nei confronti del modo moderno di pensare il nostro rapporto con la Natura, in particolare per quanto riguarda la nostra concezione dello spazio. In effetti, spiega Bruno Latour, il nostro modo di pensare i territori in cui viviamo, rappresentato nelle mappe poi digitalizzate nelle raffigurazioni di Google Maps, tradisce il significato di espressioni come proche, local, lointain. Sempre nel medesimo tentativo di ricercare delle lignes de fuite, ecco che queste parole possono assumere un significato diverso rispetto a quello a cui siamo abituati. Il termine lointain, per esempio, non deve indicare necessariamente ciò da cui si è lontani geograficamente, ma, riprendendo fra gli altri gli studi del filosofo Vinciane Despret, può anche significare ciò con cui non si è in una relazione; si potrebbe essere molto più proches con un batterio proveniente dall’Asia (si pensi, paradossalmente e purtroppo, alla stessa pandemia da virus SARS COVID-19) che con il proprio vicinato.

All’interno del nono capitolo (“Le dégel du paysage”) Bruno Latour ci racconta di un esperimento fatto con l’aiuto di Soheil Hajmirbaba ed emblematico della modalità in cui l’essere umano dovrebbe pensarsi. Dopo aver disegnato un grosso cerchio nel suolo e dopo aver indicato i due estremi opposti dello stesso con il segno più e il segno meno, Bruno Latour ha domandato ai vari partecipanti di porsi al centro dello stesso e di immaginare che alle loro spalle si trovasse tutto ciò da cui dipendono per vivere, mentre, davanti a loro, tutto ciò che costituisce una minaccia. Lo scopo del gioco era di trovarsi nel mezzo del cerchio per parlare di tutto ciò che ci mantiene in vita e di tutto ciò che la mette a rischio. Malgrado la semplicità dello stesso, lo scopo di Bruno Latour e dell’architetto Soheil Hajmirbaba era sia di offrire la possibilità a ciascun partecipante di identificare le loro paure e le loro speranze, sia di farlo in maniera condivisa. In altre parole, Bruno Latour e Soheil Hajmirbaba, attraverso un semplice cerchio disegnato a terra, hanno dimostrato che è possibile adottare un pensiero terrestre, condiviso, interdipendente: è possibile pensarsi come degli holobiontes. Allo stesso modo, Bruno Latour ci riporta degli studi sul rapporto spettatore-oggetto teatrale di Alexandra Arènes e di Frédérique Ait-Touati che, riprendendo la dicotomia moderna di natura e cultura individuata dall’antropologo Philippe Descola, mostrano la staticità di questo modo di intendere la relazione fra le due parti. Con l’invenzione del paesaggio nel XVII secolo, attraverso cui si è imposto un certo modo di intendere il nostro sguardo sul mondo, evidentemente costretto a dei limiti (quelli, appunto, imposti dal paesaggio stesso), ecco che Bruno Latour in questo capitolo riporta di un altro dominio in cui l’uomo ha imposto le leggi dell’ Univers, rifiutando, ancora una volta, di devenir-insecte, di farsi terrestre.

Nel capitolo successivo (“Multiplication des corps mortels”) Bruno Latour presenta il concetto di Gaia, opposta alla rex extensa cartesiana e alla concezione dell’agricoltura moderna secondo cui ciò che è naturale è solo una rex a disposizione dello sfruttamento dell’essere umano. Al contrario, facendo esplicito riferimento alle filosofie di William James e di Whitehead, Latour sostiene che bisogna ricercare la Vie nella sua corporeità e opporsi a ciò che la nega, che, nel caso della Terre, saranno le imposizioni dell’Univers. Insomma: our bodies ourselves, per citare uno dei più importanti slogan femministi.

L’undicesimo capitolo (“Reprise des ethnogenèses”) è dedicato alla spiegazione dei differenti modi di vivere il rapporto con il pianeta pensati dall’uomo moderno dell’Univers. In particolare, Bruno Latour identifica quattro modi di pensarlo:

  • « La planète Globalisation », di coloro che sperano ancora di poter vivere nel pianeta in senso moderno, dominando quindi tutti quegli elementi incontrollabili, primi fra tutti i cambiamenti climatici, o alla stessa pandemia da virus SARS COVID-19;
  • « La planète Exit », rappresentato da quello 0,01% di eletti consapevoli dei limiti insuperabili del pianeta e con abbastanza risorse economiche da poter programmare fin da ora misure di salvataggio in extremis, si pensi ai bunker anti-nucleari costruiti in Nuova Zelanda o a tutte le ricerche per la possibile fuga su Marte;
  • « La planète Sécurité » di tutti coloro che credono che la soluzione possa trovarsi in politiche di tipo nazionalista, attraverso quindi la chiusura e la separazione nei confronti di tutto ciò che è al di fuori di determinati confini geografici. Si pensi, per esempio, alle proposte politiche del primo ministro dell’Ungheria Viktor Orbán;
  • « La planète contemporaine » che, riporta Latour, l’antropologa Nastassja Martin ha identificato con quei popoli più gravemente messi in pericolo dagli stessi paesi occidentali e che, paradossalmente, ora vengono nuovamente ricercati, ma questa volta a partire dalla loro dimensione selvaggia, improvvisamente dotata di senso e di dignità da parte dei moderni. Si pensi, per esempio, all’improvvisa euforia per le lotte di Vandana Shiva;

Ma dove collocare fra questi quattro il pensiero terrestre? Bruno Latour esclude volutamente uno spazio per il pensiero della Terre all’interno di questa categorizzazione per poi rimandare, all’opposto, al concetto di diplomatie sviluppato da Isabelle Stengers. Soltanto attraverso un radicale ripensamento del rapporto fra l’uomo e la terre, che abbia altresì una dimensione internazionale nelle differenti istituzioni, sarà possibile sviluppare (e dunque collocare) il pensiero terrestre nell’Antropocene. Proprio ripartendo da quest’ultima espressione, sempre in questo capitolo, Bruno Latour si oppone anche a tutte quelle visioni in cui la soluzione all’attuale crisi ecologica viene posta a partire dal rifiuto dell’umanismo. In effetti, come ripetuto lungo il corso di tutto il libro, con una visione anti-umanista, così come attraverso un rifiuto totale della modernità, si cadrebbe nello stesso errore finora criticato: l’imposizione di un Univers.

Nel dodicesimo capitolo (“De bien étranges batailles”) Bruno Latour, rifacendosi alle classes géosociales del sociologo Nikolaj Schultz ipotizza (ironicamente) una macro-divisione della società in due categorie: gli extracteurs e i ravadeurs, per poi mostrare come il concetto di Antropocene (introdotto nel capitolo precedente) metta fortemente in discussione questi tentativi di categorizzazione. In effetti, spiega Latour, se per esempio con un evento come la caduta del Muro di Berlino si poteva ancora di ben identificare i protagonisti in campo (nel caso specifico, il blocco legato all’Unione Sovietica e quello Atlantico), allo stato attuale è impossibile individuare il proprio nemico. In altri termini, ciò su cui Latour intende farci riflettere è che la lotta per un pensiero terrestre è anzitutto una lotta con noi stessi. In particolare:

« Les ennemis sont partout et d’abord en nous » 10

Qualsiasi forma di relazione pensante gli oggetti naturali come objets inertes è ciò che va superato ma, specifica Latour, non attraverso una mera negazione della Modernità, un redevenir des humains à l’ancienne (per citare le sue parole), ma attraverso la sperimentazione di un’altra relazione: ibrida, vitale, terrestre.

Nell’ultimo capitolo (“s’égailler dans toutes les directions”) Bruno Latour, ritornando sull’immagine tratta dal romanzo di Franz Kafka e sulla domanda posta all’inizio del libro (où suis-je?) si riserva dal fornirci una risposta definitiva, ma non tanto perché questa non vi sia, quanto perché, se si è ben compreso il significato di fondo dell’opera, questa dovrà essere plurale, parziale, sperimentale. Che cosa significa quindi devenir insecte? Che cos’è il pensiero terrestre? Definirli sarebbe come ripetere l’errore di ciò che entrambi (questo di certo) non sono. Tutto il resto è ciò da cui partire.

Note

1Où suis-je? Leçons du confinement à l’usage des terrestres. éditions La Découverte. Les empêcheurs de penser en rond, Parigi, 2011.

2La Actor-Network theory è un modello teorico sviluppato da alcuni sociologi francesi, tra cui Bruno Latour e Michel Callon e dall’antropologo britannico John Law per descrivere lo sviluppo di fatti scientifici e oggetti tecnologici. Distaccandosi in modo radicale da qualsiasi tendenza essenzialista della natura e della società, afferma che ogni idea scientifica, manufatto tecnico o più banalmente ogni fatto sociale, risulta prodotto di un’intricata rete di relazioni in cui interagiscono attori sociali umani e non-umani (genericamente riferiti come attanti). Uno dei capisaldi di questa teoria è rappresentato del “principio di simmetria generale”. Secondo questo principio, si deve utilizzare un unico vocabolario per trattare sia gli attori umani che degli oggetti materiali.

3Laboratorio interdisciplinare fondato da Bruno Latour presso l’Istituto di studi politici di Parigi, spesso designato con l’apocope Sciences Po.

4Su quest’ultimo aspetto, si veda in particolare Philippe Descola Par-delà nature et culture, Éditions Gallimard. Paris. 2005.

5Où suis-je? Leçons du confinement à l’usage des terrestres éditions La Découverte. Les empêcheurs de penser en rond, Parigi, 2011. Cit. p. 18. Trad. It. Mia. « Nella città come nel formicaio : il luogo e i suoi abitanti sono in continuità fra loro; definirne uno coincide col definire anche l’altro; la città è lo scheletro dei suoi stessi abitanti […] ».

6Su questo, si veda Nous n’avons jamais été modernes. Essai d’anthropologie symétrique. Éditions La Découverte. Gallimard. Paris. 2006.

7Su questo, si veda per esempio Nick Bostrom Superintelligenza. Tendenze, pericoli, strategie. Bollati Boringhieri.

8Ivi, Cit. p. 33. Trad. It. mia «Ciò che comincia con la formica e finisce con il formicaio senza mai separare le due parti»

9 In sociologia, il patriarcato è un sistema sociale in cui gli uomini detengono principalmente il potere e predominano in ruoli di leadership politica, autorità morale, privilegio sociale e controllo della proprietà privata. Nel dominio della famiglia, il padre o la figura paterna esercita la propria autorità sulla donna e sui figli.

10Ivi. Cit. p. 150. Trad. It. mia «I nemici sono dappertutto e prima di tutto siamo noi»

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