Vi proponiamo la lettura della seconda parte dell’articolo di Luca Negrogno sul tema “Movimenti, politica, salute”. In queste pagine, l’autore si concentra su un’analisi dei limiti di vari tentativi di movimento sul tema della difesa della salute pubblica, sorti anche dietro spinta delle problematiche scoperchiate dalla sindemia e con riferimenti al caso bolognese. La prima parte è disponibile qui. Ricordiamo che l’intero testo è in corso di pubblicazione sulla rivista cartacea di Medicina democratica

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2.1 I motivi dell’assenza di movimento

A partire dalle osservazioni svolte sul campo della salute mentale nella prima parte possiamo iniziare a spiegare l’attuale assenza di movimento con il fatto che non si sia statə in grado di elaborare una strategia capace di leggere le attuali contraddizioni del sistema. In primo luogo va fortemente sottolineata l’attuale incapacità di lettura della frammentarietà della composizione sociale che insiste sul terreno salute/sanità e nei processi complessivi in esso coinvolti. Questo è solo un elemento della più complessiva incapacità di lettura della composizione tecnica e sociale del lavoro di cura, e quindi di una conseguente assenza di elaborazione strategica che possa impattare questo terreno e quello della riproduzione sociale in generale. Se non riusciamo a collocare in un orizzonte unitario e interrelato i temi della riproduzione sociale, del welfare, del reddito, del genere, della disabilità, dell’intersezionalità delle forme di oppressione connesse a questi assi, non avremo un ambito di analisi in cui collocare anche i temi della salute e della sanità. In assenza di questo orizzonte non riusciamo a superare la frammentazione. Se pensiamo a questo orizzonte in modo unitario, vediamo prima di tutto che i lavori della cura sono estremamente stratificati e collocati su rigide gerarchie anche secondo forme di divisione internazionale del lavoro. Si va da ordini professionali con forte potere contrattuale e approccio corporativo, a un’infinità di lavoro nascosto, sottopagato, genderizzato, razzializzato, invisibilizzato. Tale frammentazione si è anche rinforzata attraverso la gestione necropolitica delle migrazioni; essa si è impiantata anche su singole esperienze di lotta e di emancipazione che, quando non sono riuscite a legarsi ad una tematizzazione politica più complessiva, hanno finito per allargare i divari tra gruppi professionali e segmenti sociali che solo ricomposti potrebbero porsi in una condizione d’attacco vincente (si pensi alla legge Iori che ha formalizzato le figure professionali educative o le nuove opportunità di carriera per i coordinamenti infermieristici – che spesso si risolvono nella riproduzioni di saperi meramente manageriali – o persino l’istituzione di registri regionali di “lavoratrici domestiche”, che hanno in molti casi amplificato le condizioni di informalità nel lavoro di cura a fronte di piccoli gruppi che ne risultano parzialmente tutelati). Se pensiamo anche solo al limitatissimo ambito della Sanità, è oggi difficile pensare ad una mobilitazione che riesca a tenere insieme, ad esprimere ed armonizzare le rivendicazioni possibilmente emancipatorie dellə medicə a partita iva che guadagna 800 euro a turno nel pronto soccorso dell’ospedale pubblico (che si giova dell’intermediazione di manodopera di una cooperativa sociale per coprirne i turni, dopo innumerevoli concorsi andati a vuoto per rispondere al fabbisogno di forza lavoro nel medesimo servizio – ma a condizioni più massacranti) e l’operatorə sociale che magari guadagna quegli stessi 800 euro dopo un mese di lavoro frustrante per la stessa cooperativa sociale, che nel frattempo svolge anche un servizio esternalizzato per il dipartimento salute mentale della stessa ausl o per la divisione disabilità del servizio sociale del comune, tra turni imprevedibili, “monte ore” che servono a non pagare straordinari, condizioni di “spirito cooperativo” che spesso collimano con mobbing e con la consapevolezza di fare un lavoro dichiaratamente di “inclusione sociale” quando in realtà la pratica quotidiana è fatta di mera assistenza e controllo, senza produrre alcuna relazione emancipatoria. Alle condizioni attuali di assenza di mobilitazione unitaria, abbiamo piuttosto una larga massa di giovani medicə che fa una vita allucinante accumulando turni e fatture (con cui potrà comprarsi le sostanze necessarie a lavorare a quei ritmi e per stordirsi tra un turno e l’altro), la piccola parte di quellə che danno una lettura minimamente politica del proprio ruolo che cerca di impegnarsi in innovazioni organizzative e professionali variamente compatibili con l’esistente, una ancora più piccola parte che opta per “le grandi dimissioni”, andando magari a fare militanza in un ambulatorio popolare; nel frattempo, i sindacati di base difenderanno quellə lavoratorə a 8oo euro al mese senza mettere minimamente in discussione il mandato quotidiano del lavoro e l’impianto epistemologico del sistema di welfare nel suo complesso, gli ordini professionali e le società scientifiche cercheranno di propagandare nuove forme di riconoscimento legale o accademico del valore delle professioni su tutti i livelli; il processo di dismissione delle vite di scarto continuerà, favorito dalla possibilità di accedere a sempre più vasti mercati informali della cura necropoliticamente genderizzati e razializzati.

Non riuscendo a leggere la complessità e l’interconnessione della composizione sociale, ciascun ceto politico di movimento o sindacale si lega cioè a una specifica parte di quella composizione e il suo approccio si risolve in nel valorizzare un singolo aspetto di quella che dovrebbe essere una  mobilitazione collettiva. Come se non bastasse, questa tattica, nella sua limitatezza, viene elevata a feticcio identitario. Così ciascun pezzo – soggetto politico o sindacale coinvolto – si mantiene posizionato su uno specifico modello tattico, che definisce paranoicamente la sua identità, piuttosto che valutare la propria azione sul piano dell’efficacia. Ne risulta una grande incapacità politica perché le singole tattiche individuate alimentano la rigidità identitaria invece di alludere al bisogno di revisione della strategia più globale che sarebbe necessaria. Tra i molteplici effetti che questo provoca possiamo segnalare l’incapacità di confrontarsi esplicitamente sulle tattiche, le ambiguità complessive che si generano nei rapporti tra vari ceti politici e istituzioni, le innumerevoli cooptazioni, la presenza di una molteplicità di proposte vagamente progressiste che in ultima analisi si risolvono in forme di compatibilità con il sistema esistente.

2.2 Ambiguità sulle tattiche, opacità della strategia

L’assenza di contesti di dibattito sulle tattiche di movimento in sanità trova i suoi antefatti più recenti nel periodo tra la fine degli anni ’90 e i primi 10 anni del 2000. In quella fase, in concomitanza con una serie di governi di centro sinistra, alcuni soggetti che erano stati tra i più attenti critici delle forme reazionarie di aziendalizzazione della sanità e che promuovevano un rinnovamento dello storico percorso di realizzazione del servizio sanitario nazionale si ritrovarono a svolgere incarichi di grande responsabilità nei contesti ministeriali o nei governi delle sanità regionali. Gli esiti di quella stagione non sono mai stati efficacemente discussi e ancora oggi sembra di essere inchiodati ai conflitti e alle contraddizioni che emersero in quel periodo. Con una estrema semplificazione, potremmo dire che molte di quelle collaborazioni con le istituzioni furono viste come forme compromissorie di partecipazione da chi se ne tenne fuori. Non si capisce oggi se se quel tenersi fuori fu più voluto o subito, tanto il dibattito attuale sulla “compromissione”, considerati i circa vent’anni di distanza nonostante i quali sembra non essersi sviluppata nessuna distanza critica dai fatti, è caratterizzato da una complessiva povertà di analisi strategica sui contenuti delle azioni di chi era entrato nelle istituzioni e su quali sarebbero oggi le possibili alternative realistiche. Di sicuro ci sono state forme di “entrismo” che si sono risolte soprattutto nella ricerca di poteri personali; d’altra parte usiamo qui il concetto di entrismo con un’ironia che sfiora l’approssimazione: non si era svolta all’epoca una riflessione su come si potesse perseguire una strategia ampia, considerando che l’azione di chi stava dentro le istituzioni poteva essere sviluppata in dialogo con chi ne stava fuori. Se oggi ci si prende la briga di andare ad indagare sui rapporti tra Forum Diritto alla Salute, Salute Diritto Fondamentale, Articolo 32, Medicina Democratica, YOS Salute Cultura Diritti, CGIL Funzione Pubblica, Campagna Dico 32, e le altre geometrie che hanno assunto i parziali momenti di incontro in cui ci si incarta nelle solite diatribe più o meno tra sempre le stesse persone, si scopre che i nodi cruciali del dibattito riguardano questioni non superate di quegli anni. Se oggi qualcunə provasse a sintetizzare le questioni attorno a cui si è rimasti annodati si imbatterebbe in estenuanti aut-aut del tipo: Il Decreto legislativo 229/1999, o Riforma Bindi, o ancora Riforma-ter, è stato un passaggio di rafforzamento del servizio sanitario nazionale grazie all’istituzione dei Distretti che attribuendo funzioni di governo pubblico ad una articolazione interna delle ASL hanno corretto gli effetti più liberisti del Decreto Legislativo 502 del 1992, la cosiddetta Riforma De Lorenzo? Oppure è stato un ulteriore colpo dato all’impianto del Servizio Sanitario Nazionale con un approccio reazionario rispetto allo spirito della 833 del 1978? L’introduzione dei DRG in sanità aveva la funzione di sottoporre le prestazioni ospedaliere a un governo razionale e trasparente, sottraendolo alle baronie professionali mediche, oppure è stato l’apripista alle forme più estreme di produttivismo sanitario meramente economicistico? Le innovazioni progressiste come le case della salute e le case della comunità sono un paravento solo retorico per coprire una più profonda dismissione del servizio pubblico o un tentativo di costruzione di dispositivi di territorializzazione che vanno nella corretta direzione della promozione della salute e del cambiamento del rapporto con le comunità? L’aziendalizzazione è stata una subdola manovra per destrutturare dall’interno la funzione pubblica del servizio oppure è stata la reazione a un ventennio in cui, distorcendo le indicazioni deglə ispiratorə del SSN, si è fatta passare come “partecipazione” la lottizzazione partitocratica e clientelare delle USL? Si potrebbe continuare a lungo. Ci sono soggetti che, collocandosi stabilmente da una o dall’altra parte del bivio presentato da ciascuna di queste domande, hanno costruito una carriera ripetendo ogni giorno la stessa posizione. Costoro, da una parte o dall’altra di quella che vogliono a tutti i costi rappresentare come una barricata, sono forse oggi i principali ostacoli alla possibilità che si costruisca un dialogo reale e pratico in questi ambiti; che la pars costruens della loro produzione pamphlettistica vada a vantaggio degli ordini dei medici o dei sindacati, che vengano finanziati da fondazioni bancarie o da case farmaceutiche, che scrivano sul Manifesto o sul Sole24Ore, nessuna ulteriore petizione di coerenza può più loro essere posta: hanno scelto una parte di quella barricata e ad essa hanno votato la loro identità e la loro carriera, che quella barricata continui ad esistere è l’unico presupposto della loro sussistenza. Si capisce che unə giovane medicə, desiderosə di impegnarsi politicamente nell’attualità, dopo aver ascoltato interminabili dibattiti su questi temi (e avendo dovuto frequentare moltissimi ambienti diversi per sentire le varie opinioni, dato che le persone che le portano avanti non si incontrano mai contemporaneamente nello stesso luogo) preferisce andare a lavorare come volontariə o militante in un ambulatorio popolare o sulla nave di una ONG o nel sud del mondo per fare qualcosa che abbia un pur minimo impatto sulla realtà.

Non essendoci un contesto in cui si riesca a discutere di strategia, non si può costruire un’elaborazione condivisa di questi passaggi fondamentali della storia recente e la loro configurazione resta frammista alle vicissitudini e ai problemi relazionali e personali delle soggettività che ne sono state protagoniste. Un contesto di lettura critica di quegli anni dovrebbe prima di tutto provare a fare una distaccata valutazione di efficacia dei vari tentativi di implementazione di queste posizioni; poi dovrebbe collocarle nel riconoscimento di quella che è stata una più ampia temperie culturale che, sulla scorta dell’illusione delle “terze vie”, ha ubriacato la sinistra con l’equazione razionalità=equità=mercato. Detto questo, si dovrebbe poi partire con l’elaborazione politica dal fatto che varie posizioni, pur ispirate da buone intenzioni, furono negativamente distorte dall’incapacità di costruire rapporti di forza che tenessero insieme il dentro e il fuori delle istituzioni: soggetti che ebbero l’opportunità di frequentare parziali “stanze dei bottoni”, senza un rapporto organico con un movimento, possono facilmente perdere la cognizione critica della realtà su cui stanno operando dall’alto; le azioni di quegli anni vanno lette nella loro ambiguità come esito di errori complessivi nella costruzione della strategia, non come mancanze o “tradimenti” attribuibili moralisticamente a questo o a quel soggetto. A partire da queste prime indicazioni si potrebbe ricostruire uno spazio in cui si ricucire quel legame storico che oggi sembra spezzato, tra le organizzazioni che hanno contribuito alla lotta per il Servizio Sanitario Nazionale e hanno seguito le vicende delle sue varie implementazioni e modificazioni, le nuove forme di mobilitazione mutualistica “dal basso”, i gruppi di lavoratori e lavoratrici interessati a mettere in questione e a rinnovare il loro modo di lavorare nel sistema sanitario – che da molto tempo non hanno uno spazio comune di riflessione – che possa essere da stimolo per le nuove generazioni di tecnichə, militantə e attivistə. In questo scenario gli amministratori e i tecnici che nelle istituzioni hanno operato per realizzare strutture vicine ai territori e aperte alle azioni comunitarie lo hanno fatto spesso negli interstizi, nella solitudine e nell’invisibilità; gli operatori e le operatrici che nei servizi hanno svolto attività creative, inventato forme di azione collettiva e innovato i metodi di lavoro non hanno avuto sponde per un confronto politico più ampio e spesso si sono trovate nella condizione di risolvere la trasformatività delle loro azioni nel managerialismo imperante; i movimenti che negli ultimi anni hanno lottato per la casa e il lavoro non hanno trovato sponde nei servizi con cui costruire alleanze che portassero la loro incisività dentro le istituzioni. In questo contesto le mobilitazioni in sanità non sono riuscite a superare un’ottica meramente corporativa, schiacciata sugli interessi di categoria delle varie componenti professionali. È quindi venuto meno un immaginario condiviso legato alla salute pubblica e ai suoi valori come “impresa collettiva”, e questo ha portato a un indebolimento della fiducia nel servizio sanitario e nei suoi principi nel corpo stesso della popolazione. Gli ultimi 20 anni hanno piuttosto dimostrato che, aperta la strada alla destrutturazione dell’unità organizzativa e politica del Servizio Sanitario Nazionale, depoliticizzandosi e trasformandosi in meri tecnici i professionisti, senza una costante e unitaria attività che tenga insieme l’alto e il basso, il dentro e il fuori di questi processi, la logica prestazionale e orientata al profitto tende a infiltrarsi a tutti i livelli e a sovradaterminare scelte strategiche e meccanismi di governo. In assenza di un movimento che riuscisse organicamente ad infiltrarsi nei suoi gangli per contro-utilizzarli, l’acritica accettazione del concetto di “mix pubblico-privato” e del modello della “sussidiarietà” ha contribuito alla diffusione di dinamiche liberiste all’interno del sistema sanitario. L’introduzione di dispositivi e processi che, richiamandosi alla “comunità”, tentassero di bilanciare con l’ottica dei diritti la tendenza privatistica e la mercificazione strisciante, non ha raggiunto il suo obiettivo risolvendosi spesso in una forma di adempimento burocratico senza stimolare profondi processi di partecipazione. Questa dinamica è stata particolarmente evidente con la situazione pandemica: la programmazione basata sulla ricognizione dei bisogni, le prestazioni base della diagnostica e della salute pubblica, il governo del rapporto tra aziende sanitarie e territori, sono collassati e per tutelarsi e svolgere una vita più o meno “normale” la popolazione si è completamente abbandonata al mercato privato oppure ha maturato visioni difensive meccanicamente antiscientifiche, diretta conseguenza di quella giustificata assenza di fiducia collettiva.

Il rischio del riprodursi oggi di queste ambiguità tattiche e di una complessiva opacità sulla strategia riguarda i tecnichə più consapevoli come i movimenti più intransigenti. Se l’orizzonte delle innovazioni dentro le istituzioni si limita all’ottenere minimi aggiustamenti di politiche complessivamente tecnico-burocratiche, introducendo element puntuali culturalmente positivi – inseriti come isole in un deserto di assenza di visione, è inevitabile che gli esiti a lungo termine saranno nefasti e riprodurranno quello che negli ultimi vent’anni è accaduto con la destrutturazione neoliberale dei distretti, della programmazione sanitaria, delle governance regionali. Campagne collettive importanti come PHC, Movimento Giotto, Prima la Comunità, ecc, se non trovano una sponda e un dialogo nei movimenti si condanneranno a riprodurre gli errori già vissuti nella fase iniziata alla fine degli anni ’90. D’altra parte i movimenti non otterranno nessuna possibilità di incidere sulla realtà se si assesteranno su posizioni di difesa corporativa dei gruppi professionali, che siano formulate in termini sindacali o ricalcate sui posizionamenti degli Ordini e delle Società scientifiche. Alcune attuali innovazioni del sistema sanitario come i budget di salute, le case della comunità, la coprogettazione, sono dispositivi costitutivamente ambivalenti di cui possiamo già vedere che, se non sono innervati da forme nuove di mobilitazione sociale e pratica critica, diventano vettori di forme di territorializzazione senza conflitto e integrazione sociosanitaria fatta dall’alto, utili solo alla gestione razionalizzata a burocratica dei costi e alla lettura manipolatoria dei bisogni della popolazione, in vista di una loro più efficace dismissione. Se invece, essendo movimento, riusciamo a fluidificare le rigidità tattiche, ricostruire e arricchire la costruzione di saperi, leggere la densità delle pratiche, tali dispositivi diventano spazi di azione innovativa in cui nuove pratiche di movimento e un rinnovato incontro con i tecnichə può riaprire gli spazi complessivi di azione pubblica.

2.3 Alcuni tentativi degli ultimi due anni e loro limiti

Il 6 e 7 novembre 2021 si è tenuto a Bologna il congresso “Come si esce dalla sindemia”, a cui hanno aderito più di 100 realtà tra singoli, gruppi e associazioni. Il Congresso è stato costruito attraverso una modalità partecipativa, con due assemblee plenarie e più tavoli di lavoro; la partecipazione stessa al congresso è avvenuta attraverso un lavoro capillare di interlocuzione con le varie realtà; nella fase di costruzione si è fatto di tutto per evitare che venisse imposta una qualsiasi “egemonia” politica sulla costruzione dell’evento. Gli assi tematici attorno ai quali ci si è confrontati sono stati: Il sistema sanitario; Che cos’è la salute; Covid-19: a che punto è la notte?; Mobilitazione: che fare?. Sulla base di un’aggregazione nata a Bologna nel periodo del I lockdown, abbiamo invitato a un confronto tutte le organizzazioni che negli ultimi mesi hanno incontrato il tema della salute nelle pratiche mutualistiche, nelle vertenze sindacali, nelle battaglie legate alle questioni abitative e ambientali, cercando di intercettare gruppi di operatori e operatrici, ricercatrici, attiviste e movimenti legati alle lotte per la salute di genere. Era stato evidente, lungo il corso del 2021, che si andavano moltiplicando gli interventi da parte di società scientifiche, ordini professionali, gruppi organizzati di pressione nazionali e internazionali impegnati nell’ambito delle discipline professionali e più in generale del mercato sanitario, che, con con intenzioni soprattutto corporative, di posizionamento nel campo aperto della ricostruzione postpandemica e della competizione per accaparrarsi le sue risorse, corredavano le loro dichiarazioni con ampie affermazioni di principio sull’importanza della salute territoriale, della prossimità, della domiciliarità. Il Pnrr, che fa largamente uso di questi concetti, ha risentito della pervasività di queste parole d’ordine mantenendosi nel campo delle “mobilitazioni dall’alto”, cioè che non incidono davvero sulla possibilità di creare reali forme di lettura partecipata dei bisogni. Durante il Convegno di Bologna abbiamo iniziato a produrre un’analisi critica di queste dinamiche, con l’obiettivo di tornare a far sentire una voce orientata ai valori della sanità pubblica, gratuita, universale e accessibile, per polarizzare il dibattito e dare il segno della presenza, nella società, di una forte aggregazione culturale che esprimesse questi principi di riferimento.

Le esperienze di mobilitazione sviluppatesi durante la sindemia (ad esempio, quella del comitato Riapriamo Villa Tiburtina a Roma) hanno riportato al centro la questione della partecipazione e del controllo popolare sui temi della sanità: la mobilitazione di quartiere ha messo in luce la necessità di forme popolari e socialmente diffuse di coinvolgimento, che fossero non meramente partecipate da operatori e che svolgessero anche il compito di fornire orientamento e supporto alla cittadinanza per stare nella rete dei servizi, in un momento difficile di chiusure e limitazioni. Un’altra importante presenza era costituita dalle esperienze di mutualismo costruite dal basso a partire dal primo lockdown, che hanno permesso di sostenere popolazioni fragili irraggiungibili per i servizi pubblici, soprattutto laddove l’integrazione sociosanitaria è rimasta una vuota dichiarazione di principio. In questo ambito si sono riconosciute le esperienze dei Laboratori di Salute Popolari, delle brigate solidali, di gruppi informali che operano in particolare in alcuni contesti geografici particolarmente impoveriti o rispetto ad alcune aree di grave marginalità ed esclusione sociale. Molto importanti alcune esperienze transfemministe come la campagna Obiezione Respinta, che realizza una mappatura dal basso dei presidi rivolti alla salute riproduttiva e delle loro pratiche, spesso escludenti e stigmatizzanti. La dialettica ha fatto emergere questa necessità di non “coprire le falle del sistema” e di non sostituirsi al servizio pubblico, ma piuttosto portare in luce i bisogni di salute che solitamente rimangono sommersi, anticipare una nuova epistemologia della cura, innescare pratiche reali di partecipazione popolare e un diverso concetto di salute. L’altra componente fondamentale è stata quella delle lavoratrici e dei lavoratori che, in vari contesti e a vari livelli, operano dentro i servizi o negli spazi di creatività ancora aperti nel terzo settore. In alcuni territori sono state forzate le rigidità esistenti dentro le istituzioni per costruire reali processi di integrazione basati sulla multidisciplinarietà, sulla collaborazione tra operatorə sociali e sanitari. Per esempio si sono costruite reti inedite tra servizi e comunità, con una importante innovazione di pratiche e di epistemologie all’interno di alcune Case della Salute, laddove esse non si sono realizzate come mera aggregazione di prestazioni ma come dispositivi di ricerca-azione sulle componenti sociali dei bisogni sanitari (è il caso de Le Piagge di Firenze). Queste esperienze e altre simili, che si rivolgono alla salute delle persone migranti o alla salute di genere, nel vasto campo delle Cure Primarie (spesso negletto dalla governance ufficiale), sono apparse alla ricerca di spazi di riflessione e generalizzazione; importante il fatto che in queste esperienze si producano forme inedite di auto-aiuto tra professionisti, si creano nuovi spazi di cooperazione sociale che hanno un significato immediatamente politico nella misura in cui modificano i volti dei territori, si rimettono in discussione la lettura di contesti e popolazioni-target, uscendo dalla retorica della mera deprivazione e instaurando forme nuove di attivazione sociale.

Il confronto tra diversi punti di vista e posizioni ha fatto intravedere la possibilità di superare gli steccati tra vecchie e nuove forme di mobilitazione, accettare la mutazione strutturale della distinzione pubblico/privato per vedere meglio un nuovo campo di azione, in cui prima di tutto si possa agire contro la depoliticizzazione di chi lavora come tecnicə dentro le strutture statali o parastatali. È emersa la necessità di rinnovare le pratiche di lotta e di mobilitazione, laddove ad esempio le vertenze di categoria non sono riuscite ad andare oltre una dimensione solo settoriale e corporativa, proprio a partire dagli operatorə sanitari. Per questo era emersa la necessità di costruire nuovi spazi di dibattito con i gruppi di utenti dei servizi, con le persone disabili, con gruppi locali di popolazione, anche per sostenerli nel superare quelle forme edulcorate e spuntate di “partecipazione” che proliferano nel nostro sistema sussidiaristico senza mai tematizzare i veri squilibri di potere. L’altro obiettivo con cui ci era lasciati nel novembre 2021 era quello di costruire un nuovo immaginario, capace anche di valorizzare gli esiti progressivi del mutualismo e delle culture sussidiaristiche ma in una rinnovata ottica di universalità, intersezionalità, giustizia sociale come fulcro della logica di servizio pubblico. L’indicazione conclusiva fu quella di promuovere in ogni territorio dei contro-think tank orientati si a proporre rivendicazioni comuni e soprattutto a creare un nuovo immaginario sulla salute pubblica anche a partire dalla condivisione di narrazioni, forme di comunicazione, anche con percorsi artistici ed esperienziali, aperti e non identitari. Come si vede, un lavoro con tempi lunghi, senza immediati ritorni in termini di visibilità per le singole strutture di movimento forse, sicuramente sfasato rispetto al fatto che di lì a pochi mesi in molti territori iniziavano le campagne elettorali amministrative e su molti temi i fattori di incomunicabilità si moltiplicavano a scapito di quelli di possibile interazione. Quello che la situazione pandemica sembrava favorire, e che pensavamo fosse la posta in gioco di quel ciclo di incontri, era la possibilità di rinnovare congiuntamente le forme di partecipazione e di militanza, entrambe segnate da innumerevoli limiti, per giungere ad una nuova possibilità di “azione pubblica” che mirasse a rimettere insieme l’alto e il basso, le lotte sul terreno della riproduzione sociale tutta e le pratiche innovative svolte dentro i servizi, con l’obiettivo di una ripoliticizzazione di tutti i saperi e un superamento della separazione tra società e politica: si trattava cioè di recuperare quella capacità di “inventare istituzioni” che aveva caratterizzato le lotte volte a costruire il nostro Servizio Sanitario Nazionale. Si era previsto di interloquire anche con le esperienze internazionali attive sul campo, come il movimento la Cabecera, SWAN, la rete di International Radical Social Workers, Entrar Afuera, Pirate Care, il movimento legato ai Caps Brasiliani, le Cliniche solidali greche. Alcuni di questi soggetti hanno interagito nei mesi successivi con altre realtà italiane, ma mai con la rete complessiva dei Congressi per la salute, che di lì a poco si sarebbe formalizzata.

I mesi successivi hanno visto richiudersi questo processo sulle strutture di movimento e sindacali che già avevano sviluppato percorsi comuni: da una parte quelle impegnate nelle rivendicazioni relative a casa e reddito, dall’altra parte i sindacati di base impegnati in sanità; a fare da orientamento sulle questioni del servizio sanitario principalmente si è candidato il gruppo del Forum Diritto alla Salute, caratterizzato da posizioni fortemente polarizzate rispetto a agli aut-aut in tema di recente storia sanitaria trattati nel precedente paragrafo. Le rivendicazioni che hanno maggiormente inciso sulle successive piattaforme elaborate sono state quindi trainate dagli operatorə sanitari sindacalizzati e, invece del dialogo con i gruppi professionali e tecnici maggiormente impegnati nell’innovazione territoriale e partecipativa, ha prevalso nella rete la tendenza a far dipendere la propria identità dall’adozione della prospettiva ideologicamente più “pura” possibile. Di conseguenza è emersa una grossolana forzatura nel definire quali fossero i “movimenti per la salute” accettati come interlocutori: le assemblee si sono a più riprese arenate su una serie di distinguo finalizzati a tenere fuori alcuni soggetti ritenuti a vario titolo “compromessi” con la governance neoliberale o espressione della sua egemonia. Nelle assemblee nazionali ci si è infatti spesso incagliatə sulle critiche alla CGIL (nonostante in quei contesti qualche sindacalista abbia fatto autocritica sulle assicurazioni sanitarie integrative sottoscritte nel CCNL), alle esperienze di mutualismo, alle realtà associative o di ricerca impegnate in prassi migliorative nella territorializzazione e nella salute comunitaria (soprattutto quando capitavano a tiro associazioni di ricercatorə, terzo settore, campagne viste come troppo “moderate” come quella per la riforma delle Cure Primarie o quella per le Case di Comunità). Ritenendo queste soggettività “compromesse con l’esistente” nelle ultime assemblee è sempre risultata difficile l’interlocuzione con loro e si è preferito non cercarli attivamente per la costruzione dei dibattiti; molte di esse si sono progressivamente allontanate impoverendo il dibattito stesso. Nonostante alcune presenze e adesioni dei suoi rappresentantə, in questa rete poco o nulla si è fatto per stimolare le interlocuzione con le realtà delle persone disabilitate e neurodivergenti, che pongono sfide emancipatorie alle epistemologie mediche e assistenziali e ricollocano su un piano fortemente politico e sociale i temi della salute mentale e della disabilità imponendo anche l’urgenza di nuove forme di presa in carico qui e ora, e non solo dopo che il neoliberismo sarà abbattuto (si veda la rete dei Disability Pride o di Neuropeculiar; si può dire che questa indicazione sia oggi stata positivamente accolta dal Tavolo Neurodivergenze e Disabilità degli Stati Genderali, che ha elaborato una piattaforma vertenziale molto legata all’attualità incarnata di questi problemi). Si è dunque affermata la tendenza a tralasciare le spinte all’autorappresentanza che, pur con livelli variabili di ambivalenza, attraversano la società e pongono sfide pratiche e teoriche ai servizi sociosanitari nel loro complesso. Non si è colta la necessità di collocarsi con forza nel campo ampio e ambiguo dell’attuale “partecipazione” per dirimere praticamente la distinzione tra “vera e falsa partecipazione” articolando la nostra posizione in modo da dare forza a chi in questi contesti prova senza forza a portare posizioni critiche incarnate.

Sul piano del metodo questa rete si è autodichiarata alla ricerca di “convergenze”, seguendo l’indicazione del Collettivo di Fabbrica GKN, tuttavia tale indicazione è stata risolta nella sua forma più meccanicistica. Dalla manifestazione di Bologna del 22 ottobre 2022 abbiamo visto che esiste una grande disponibilità a mobilitarsi, anche con pratiche decise, quando si avverte che la partecipazione non si limita a sostenere uno o l’altro ceto politico; la pratica della convergenza potrebbe a questo proposito essere considerata come il superamento dell’ipotesi nefasta che un movimento su questi temi possa immediatamente diventare di massa grazie a soluzioni di verticalizzazione organizzativa o di irrigidimento tattico-identitario. Siamo piuttosto in una fase in cui è necessario aprire interlocuzioni e collocarsi in – o cereali ex novo – orizzonti di confronto ampi che ci permettano di tenere insieme una serie di esperienze e affilati progressisti ed emancipatori che negli ultimi 20 anni sono rimasti irrelati non trovando ambiti di confronto e rafforzamento reciproco. La “convergenza” avrebbe dovuto realizzarsi organizzando, almeno sui temi della salute e della sanità (ma forse sarebbe stato utile farlo anche sul tema No Passante e lotte ambientali in generale) assemblee di approfondimento con le realtà locali – evitando che i dispositivi assembleari fossero usati solo quando è chiaro ai soggetti egemonici in carica che possono indirizzarne la composizione e i contenuti. Si tratterebbe di assemblee in cui si possano chiarire differenze e reciproci limiti tra diverse tattiche e strategie, senza che questa discussione venga annullata dal colpo di spugna dell’irrigidimento tattico-identitario. Si perviene altrimenti solo a una forma meccanica di convergenza, per cui essa non si basa mai su un dialogo, anche tra posizioni lontane nella constatazione reciproca delle differenze, ma richiede la precedente accettazione del particolare irrigidimento tattico-identitario del soggetto che ti propone di convergere. Nell’ambito salute e sanità, l’esito che ne deriva sono mobilitazioni frustranti, scarsa partecipazione, incontri in cui tendenzialmente ci si parla addosso per sottolineare la correttezza ideologica delle proprie posizioni. Mentre dovremmo tematizzare che oggi – rifuggendo da ogni identitarismo tattico – c’è bisogno di confrontarci con le tematiche nuove poste dalle reti di mutualismo sociale, dalle esperienze emancipatorie e partecipative del terzo settore (sia laico che cattolico), dalle sperimentazioni organizzative più avanzate nate tra reti di professionisti le cui elaborazioni confluiscono molto più facilmente dentro le campagne per lo sviluppo delle cure primarie e delle case di comunità – anche in ottica compatibile e con obiettivi migliorativi dell’attuale Pnrr – che in ambiti immediatamente politici. Rientra qui la già citata Cooperazione di Comunità, quel terzo settore innovativo e interessato a produrre benessere sui territori – pure se in una forma che attualmente è compatibile con i processi di destrutturazione della centralità statale. Chiaramente le tattiche di questi soggetti sono maturate in un alveo complessivo di compatibilità politica ma esse generano sperimentazioni e prassi che spesso hanno impatti e significati pratici più progressisti di quanto avviene nel solo servizio pubblico difeso dai ceti professionali in resistenza e sindacalmente mobilitati. Non possiamo non tematizzare la questione per riflettere anche su come riportare fuori dalla compatibilità sistemica queste esperienze di innovazione. Impossibile sviluppare questa ultima ipotesi senza costruire orizzonti di azione pubblica che siano strutturalmente intrecciati in modo intersezionale, e non semplicemente giustapposti: si tratta della necessità di cogliere il legame tra salute e sanità all’interno di un orizzonte più ampio che metta in primo piano la riproduzione sociale e che può essere definito solo dall’incontro con movimenti ecologisti e transfemministi in modo veramente politico e non identitario, senza pretese di egemonia.

Guardando all’esperienza della Rete promotrice dei Congessi per la Salute emergono i limiti più generali di una visione meccanicistica di cosa voglia dire fare movimento: i comitati a difesa di ospedali e servizi sanitari pubblici che vi partecipano hanno sempre difficoltà a coinvolgere professionistə; d’altra parte le poche esperienze di operatori sanitari sindacalizzati che vi partecipano hanno sempre molta difficoltà a coinvolgere le comunità in senso più ampio nelle loro mobilitazioni. Quello che in ogni caso ne viene fuori fortemente sottovalutato è l’attenzione alle prassi. Il ricorso al termine quanto mai generico di “umanizzazione” che vediamo nella bozza di documento con cui si promuove la mobilitazione del 17 dicembre tradisce l’inadeguatezza del dibattito su questo punto. Non si coglie che bisogna ricostruire il legame tra le resistenze dal basso e le visioni scientifiche del personale tecnico e professionale, non si coglie cioè che la portata del movimento su questi temi sta nella “politicizzazione della medicina”[1], nella produzione di saperi e di una nuova scienza, per costruire la quale è oggi necessario ripartire dalle riflessioni esistenti che già vanno in direzione di una maggiore autogestione della salute, in campo transfemminista come nelle reti di automutuoaiuto parzialmente sussunte dalla governance, nei consultori e nei centri antiviolenza come nelle sempre crescenti associazioni di advocacy che stanno ambiguamente tra voice e partecipazione istituzionalizzata; allo stesso modo è necessario ricostruire il dialogo tra le forme di mobilitazione per la difesa dei presidi sanitari esistenti con le sperimentazioni che vanno in direzione di una maggiore territorializzazione dei servizi e dei contesti cooperativi più attenti – che rischiano sempre di essere messi in una fuorviante contrapposizione dai centri di governo. Per non annaspare in queste contraddizioni è necessario ricostruire un confronto e un accordo con le mobilitazioni dell operatorə sociali e dell lavoratorə di tutto il terzo settore, che in questi mesi hanno ricominciato a mobilitarsi, ma con un approccio che riesca a tenere aperto il dialogo anche con la parte più avanzata della cooperazione, per andare a stanare le contraddizioni dei modelli di privatizzazione su cui hanno prosperano le dirigenze aziendalistiche anche di regioni storicamente progressiste come Emilia Romagna e Toscana.

2.4 Il nodo del lavoro sociale

L’implosione di senso politico del servizio “pubblico”, l’inadeguatezza di mobilitazioni che si assestano solo sulla trincea difensiva delle condizioni di lavoro, l’indisponibilità a riflettere più approfonditamente sulla relazioni tra prassi emancipatorie, alleanze con l’utenza, messa in discussione del mandato di controllo sociale, sono tematiche che hanno profondamente segnato anche gli ultimi anni di mobilitazione del lavoro sociale, che oggi appare frammentato in percorsi politici e ipotesi di rivendicazioni spesso disconnesse pur nella loro puntualità. Su questi temi è stato importante l’incontro avvenuto a Padova il 1 e 2 ottobre 2022 del Laboratorio Welfare Pubblico, un’aggregazione di attivistə, ricercatorə universitariə e sindacalistə che ha sperimentato un modello aperto di dibattito attraverso una call pubblica finalizzata a costruire insieme 2 giorni di confronto nella locale facoltà di sociologia. Al centro dell’ipotesi di lavoro del laboratorio c’era “il nesso tra le condizioni di chi lavora e la qualità dei servizi e dunque l’accesso ai diritti sociali per chi ne beneficia” e, di conseguenza, la possibilità di mettere “in discussione alla radice il sistema delle esternalizzazioni e” la convinzione “che questo vada fatto insieme da chi lavora nei servizi e da chi lavora nelle università e studia le trasformazioni del welfare in senso critico”. La commistione tra ricerca e lavoro sociale è stata declinata sul modello delle “comunità scientifiche allargate”, “che avevano rivoluzionato i saperi sul lavoro operaio negli anni Settanta e che oggi andrebbero reinventate all’altezza dei tempi, facendoci ispirare da altri che – in giro per il mondo – ci provano”. Secondo il documento di lancio del Laboratorio, l’obiettivo era “portare una proposta culturale e politica sul welfare: non una proposta astratta ma incarnata in pratiche di ricerca, di lavoro e di fruizione dei servizi che mettano a fuoco le ingiustizie che percorrono i due mondi che abitiamo – quello dei servizi di welfare e quello della produzione di conoscenza sul welfare – per poterle combattere con alleanze trasversali”[2].

Questa ipotesi di lavoro viene in un periodo costellato da eventi “traumatici” per il lavoro nel sociale: da una parte le continue allarmistiche denunce che hanno attraversato i principali mezzi di comunicazione lungo tutta l’estate del 2022 sulle grandi dimissioni dal lavoro educativo; l’indisponibilità di risorse umane aveva persino portato il Comune di Milano ad agire in deroga alla Legge Iori, accettando a svolgere il lavoro educativo anche persone senza la nuova qualifica professionale richiesta dal 2018. Dall’altra parte una serie di vicende critiche come la lotta nata a Perugia dopo l’assegnazione di un appalto al massimo ribasso da cui risultava esclusa la cooperativa che da anni gestiva il servizio educativo o la lotta seguita all’appalto per gli interventi scolastici nel territorio dei comuni del Distretto Reno Lavino Samoggia, in Provincia di Bologna. Interessante notare come queste vicende abbiano prodotto, anche in questo caso, una serie di discorsi ambigui “dall’alto”: agli inizi di ottobre 2022 sul Corriere di Bologna la presidentessa di Legacoop Rita Ghedini ha parlato di “Salari troppo bassi” e detto “basta appalti a ribasso”. Importante questa presa di coscienza ma bisogna ricordare che Legacoop è tra le firmatarie del CCNL applicato a lavoratrici e lavoratori del sociale, scaduto da 3 anni, con all’interno notti passive, maternità pagata all’80%, banca-ore non regolata e con una retribuzione troppo bassa per l’inflazione esistente che ormai arriva a più del 10%. Anche dalle dichiarazioni dei capi del settore è comunque evidente che siamo di fronte a un nuovo round di crisi del welfare mix, di cui queste ultime vicende citate sono plastica dimostrazione. Ma le crisi nel welfare mix all’italiana sono un fenomeno costante e dovremmo analizzarle per vedere come si definiscono le varie “vie d’uscita” trovate volta per volta da think tank universitari, fondazioni, gruppi di potere e ministri. Ricordiamo che l’ultima azione governativa che ha inciso significativamente sul lavoro sociale è stata la stretta leghista sull’accoglienza, che ha gettato nella miseria una grande fetta di strutture, lavoratrici e lavoratori.

Quali le vie d’uscita proposte nel dibattito italiano? Da una parte Zandonai e co. propugnano la strada della piena imprenditorializzazione, cavalcando la dismissione del welfare universalistico finanziato dalla fiscalità generale e candidandosi a “generare valore sociale” in modo del tutto subalterno ai processi di valorizzazione immobiliare, gentrificazione ed espulsione delle popolazioni povere dalle città. Aggregazioni varie di forti playmaker, in cui interagiscono amministrazioni pubbliche, università, fondazioni bancarie, imprese, assicurazioni e grandi sindacati (come Secondo Welfare, Lo Stato dei Luoghi, ecc) producono da anni proposte innovative che, cavalcando la finanziarizzazione neoliberale, rimettono a valore le forme di cooperazione locale che maggiormente hanno sperimentato vie di uscita da un approccio assistenzialistico. Non possiamo accettare che le forme di creazione di comunità che maggiormente hanno innovato l’approccio cooperativistico e che hanno anche in parte interagito con i movimenti di riappropriazione dal basso dello spazio pubblico (si vedano le ipotesi organizzative tipo LabSUS, che ha raccolto e messo in dialogo varie forme di occupazioni illegali in una proposta di costruzione di una nuova regolamentazione popolare sui beni comuni) trovino come unico interlocutore la seducente proposta della finanziarizzazione. Dobbiamo stanare in ogni riflessione che si vorrebbe progressista sull’impresa sociale questo rischio e riconnetterlo con la debolezza di orizzonte politico dei movimenti. D’altra parte, seguire acriticamente questa linea significherebbe solo non vedere più i processi di esclusione e marginalizzazione che si generano nei tessuti urbani al centro del social, green, pink e “cooperative” washing, mentre alle periferie e nei contesti di dismissione assistenziale continuano a proliferare vite e lavori di scarto.

Come riflettere su una prospettiva ampia che riesca a rimettere sotto controllo il privato senza lasciarsene sedurre? Come in parte inizia ad emergere anche grazie al Laboratorio tenutosi a Padova, dovremmo sicuramente iniziare a discutere di internalizzazioni dei servizi essenziali (i servizi essenziali sociali dovrebbero essere chiariti dallo Stato, e per questo ci vuole una lotta politica convergente a più livelli, anche parlamentari), e soprattutto creare un orizzonte comune che riesca a orientare mobilitazioni in questo senso di vari settori sociali. Ma probabilmente un passaggio obbligato per la costruzione di questa strategia consiste nella riformulazione del concetto di pubblico, perché esso così com’è è evidentemente incapace di suscitare energie e mobilitazioni popolari a sua difesa, ci sarebbe troppo da cambiare. Il passaggio per la difesa del lavoro è sicuramente obbligato perché riaffermandone il valore pubblico possiamo riattivare forme di conflitto attraverso cui pubblico e privato sociale si deistituzionalizzino a vicenda. Ma si tratta di rispondere in modo laico alla domanda su cosa sia oggi il welfare pubblico, tenendo dentro anche i movimenti sociali che ne ridefiniscono i confini quando affermano che “il pubblico non è solo statuale” e che in alcuni casi realizzano sui territori forme nuove di lavoro sociale cooperativo ed emancipatorio. Si tratta ancora una volta di sposare le lotte sull’internalizzazione e la dignità del lavoro alla possibilità di non perdere i saperi emancipatori sviluppatisi nel terzo settore più progressista e militante, che ha avuto un ruolo storico nella deistituzionalizzazione psichiatrica, per esempio, e che oggi produce imprese di comunità e forme di autorganizzazione, anche produttiva, territoriale. Siamo sicuri che esiste in questo ambito un gruppo di possibili soggetti di interlocuzione.

Sospinte anche dalle esperienze di mutualismo e dalle cooperative di comunità, il terzo settore progressista e le imprese sociali come quelle che si sono viste a Trieste il 21, 22 e 23 ottobre nel convegno “Cos’è l’impresa sociale”[3], hanno in questi due anni approfondito la riflessione sul lavoro di cura e forse siamo in una nuova fase di presa di coscienza sulla necessità di rinnovare il proprio ruolo politico. A Trieste moltə insistevano sulla centralità delle prassi locali per dirimere il posizionamento politico delle esperienze, sul fatto, per esempio, che la cooperazione “non fa assistenza ma sviluppo del territorio” e Carmen Roll, storica cooperatrice triestina in collegamento con la storia dei servizi di salute mentale, ha detto in un dibattito: “Mimmo Lucano rappresenta l’esperienza di impresa sociale in Italia come noi la intendiamo. Dobbiamo tenere conto che questa esperienza è stata condannata a 12 anni di carcere”. Come si è detto, si tratterebbe in questo settore di “separare il grano dal loglio”, pretendere una forte presa di distanza e un’autocritica da chi ha colluso con la dismissione del welfare, e aprire prospettive diverse insieme.

Se non riusciamo a fare correttamente questa analisi dell’orizzonte complessivo delle questioni non riusciamo ad elaborare una strategia e i movimenti, frammentati, sono ininfluenti. Nella generale ininfluenza, ciascun frammento di movimento si muove nell’autoriproduzione di se stesso e per sopravvivere concentra la sua energia sulla rigidità identitaria delle tattiche piuttosto che interrogarsi sull’efficacia di una strategia globale. Tra gli innumerevoli effetti di questa ininfluenza
i più gravi sul piano del lavoro sociale sono: l’impossibilità di fare ricerca emancipatoria, con le persone direttamente coinvolte, e l’incapacità di ricostruire una discussione che sappia stare nell’ambiguità costituita dal nodo mutualismo-terzo settore, anche svolgendola per costruire alleanze e tattiche capaci di rovesciare i rapporti di forza nell’immediato. Nel merito del caso trattato, senza costruire la lotta per le internalizzazioni interloquendo con la parte progressista del terzo settore – provocando auspicabilmente anche rotture e autocritiche in Loegacoop come nel Gruppo Abele, forme di riorganizzazione politica nella cooperazione militante del Sud (che possano finalmente trovare alternative plausibili alla subalternità all’ottica della riqualificazione gentrificatrice delle città o alle attese infinite di pagamenti dalle PA che neanche i rapporti più clientelari riescono a velocizzare), non potremo ricostruire un’idea di “pubblico” che si sostanzi anche attraverso una sua nuova qualità e una nuova efficacia delle sue leve di azione e di controllo.

2.5 Alcune osservazioni sul caso bolognese

La città di Bologna offre un osservatorio particolare su queste dinamiche, riproducendone in un piccolo contesto tutte le caratteristiche più salienti e mostrandone le potenzialità e i rischi in connessione con uno spazio politico inedito: la giunta “più a sinistra d’Italia” nella regione il cui presidente sposa il regionalismo differenziato e si candida a governare un PD orientato all’asse con Renzi e Calenda. Si potrebbe dire che nelle vicende bolognesi si gioca anche una partita più ampia che riguarda la possibilità di esistenza di una polarità rappresentativa di massa a orientamento socialdemocratico in Italia, ma forse questo ci spinge già troppo oltre e rischia di fuorviare l’osservazione. Sicuramente Bologna è la città in cui un pezzo di movimento collabora con la giunta cittadina all’interno di una aggregazione civica e contemporaneamente un altro pezzo di movimento sta fuori da questa tattica e la contesta attivamente. Anche questa scelta è contingente: in altre città, per esempio a Trieste, l’aggregazione civica che dà espressione a un simile pezzo di movimento è rimasta fuori dalla coalizione di centro sinistra che si candidava a governare, venendo sconfitta dal centro-destra. La città di Bologna intrattiene anche rapporti stabili con le altre città euromediterranee guidate da giunte di sinistra come Barcellona; tuttavia se si paragonano le azioni intraprese in altre città dai gruppi dirigenti per sottoporre al controllo pubblico alcune dinamiche urbane (tassazione degli affitti brevi turistici, tassazione delle consegne ai danni delle grandi piattaforme di distribuzione, ultratassazione a chi lascia gli immobili vuoti, trasporto pubblico gratuito, ecc) si vede come la giunta locale abbia utilizzato ben poche delle leve che potrebbero essere a sua disposizione. Un governo inoltre poco attento alla mobilità sostenibile ha creato il “caso” del Passante di Mezzo, osteggiato sia dalla destra per motivi reazionari sia dai movimenti sociali e ambientalisti per l’assenza di una visione complessiva in cui possa risultare credibile all’interno di un’idea di città ecologista e sociale.
Sul piano del welfare la città ha una storia importante, in cui si somma l’effetto di almeno tre vettori: la presenza di una forte tendenza alla mobilitazione sociale e alla partecipazione che, negli anni ’60 e ’70 ha prodotto grande coinvolgimento popolare sulle questioni della deistituzionalizzazione, della socializzazione del lavoro riproduttivo, della mobilità e dell’urbanistica sostenibile. In secondo luogo una tendenza delle classi dirigenti alla programmazione che, incontrando questa tendenza, ha dato luogo a innovazioni amministrative che rispondevano spesso alle punte più avanzate del portato politico dei movimenti. In terzo luogo la presenza di una forma capillare di partecipazione sociale che si esprime attraverso il volontariato e il terzo settore, che spesso affonda le proprie radici in storie di militanza per i diritti civili, di protagonismo e di emancipazione di soggettività marginalizzate, in forme estremamente attive di cristianesimo di base legato ai problemi della comunità. Questi ingredienti, che sospinti e amalgamati in una fase di grande tensione sociale e politica hanno dato luogo al migliore sistema di welfare urbano che si sia avuto in Italia, sono gli stessi elementi che in una fase di decadenza e depoliticizzazione dei saperi portano i segni di una complessiva destrutturazione e spesso si muovono facendo girare a vuoto le loro pratiche fondamentali, in una complessiva perdita di senso e di visione.

Nell’autunno del 2022 Bologna è stata investita da una riattivazione delle lotte sugli spazi sociali e la casa. La situazione drammatica in termini di rincaro degli affitti e di generale attacco alle disponibilità economiche è stata interpretata dai movimenti attraverso una serie di occupazioni a fini sociali e abitativi. Una osservazione sulle diverse tattiche e strategie di movimento in questo ambito può dare una rappresentazioni delle tensioni che attraversano in questa fase i movimenti nel loro complesso. Tre delle occupazioni che hanno avuto luogo negli ultimi mesi del 2022 sono state sgomberate con ingenti interventi delle forze dell’ordine e non sono esitate in alcun tavolo di trattativa con le istituzioni comunali, che invece si sono poste in modo interlocutorio con l’occupazione di Casa Vacante, svolta a fini abitativi in un edificio di proprietà della Azienda pubblica di servizi alla persona Città di Bologna. Negli stessi giorni il collettivo autonomo ha invece occupato due complessi abitativi para-privati (una di un’immobiliare che offre servizio all’Ateneo, da cui il collettivo è uscito dopo due giorni in vista di un possibile tavolo di trattative; l’altra una comproprietà università-privato da cui il collettivo è stato sgomberato con la forza pubblica) affermando in pratica che il conflitto dovesse superare il ruolo di mediazione dell’ente pubblico (letto come ruolo limitato e di facciata, incapace cioè di gestire vere leve di comando sui processi economici) e solo questo potesse spostare i rapporti di forza; allo stesso modo un collettivo anarchico ha svolto due occupazioni di stabili industriali da lungo tempo dismessi, di proprietà di privati. L’uscita volontaria dal luogo occupato e l’apertura di una trattativa con le istituzioni da parte dei collettivi legati a Municipio 0 si può invece leggere come un tentativo da parte di quel pezzo di movimento di riconfigurarsi come corpo intermedio nella governance cittadina, in funzione anche competitiva con quelli esistenti. In parte questa tendenza a ricostituirsi come corpo intermedio si vede anche nella mobilitazione sindacale delle operatrici e degli operatori sociali legati a ADL Cobas che, oltre a seguire singole vertenze, ha promosso una “carta dei diritti” con l’obiettivo di influenzare le modalità di definizione degli appalti dei servizi, limitatamente al comune di Bologna. Questa strategia apre a due domande: tale sostituzione è solo volto a rimpiazzare una casella della governance, senza incidere sulla sua direzione complessiva? In altri termini, se un pezzo di movimento punta a ottenere il riconoscimento di un ruolo sociale di 1) organizzazione e indirizzamento del conflitto 2) capacità di gestione dei bisogni e delle istanze sociali in modo direttamente competitivo con il mondo storico della cooperazione e con le parapubbliche a cui è stata delegata le gestione del welfare in termini economicistici, quali nuove leve di controllo popolare formalizzabili ci assicurano che lo studentato promesso da Comune e Asp una volta ottenuta la liberazione dell’immobile occupato sarà gestito con ottiche più vicine ai bisogni sociali e meno alla speculazione? Seconda domanda: tale commistione con la governance locale si declinerà in una mera differenziazione tra “occupazioni buone” e “occupazioni cattive”, o tra “centro” e “periferia” nel caso della Carta dei Diritti, indebolendo complessivamente la capacità di incidere del movimento e l’ambito della sua azione? Se la tattica nel campo dell’abitare fosse stata quella di puntare al riconoscimento pubblico della pratica dell’occupazione in sé, contribuire all’elaborazione di una delibera sull’uso pubblico egli spazi, lottare collettivamente per la riscrittura di un piano urbanistico, se le vertenze sul lavoro sociale fossero state seguite congiuntamente ad altre realtà sindacali di base, non si sarebbe potuta configurare una strategia di più ampia rivolta a collaborare complessivamente con il movimento esistente per una messa in discussione più generale della governance urbana e dei servizi?

Se la tattica si limita a “dare una via d’uscita” alla compagine di governo locale tirandola verso il riconoscimento delle istanze sociali, questo può tradursi in una strategia che punti a modificare complessivamente i rapporti di forza piuttosto che a sostituire un ceto politico a un altro nella composizione della governance locale? In queste domande si gioca il destino di una più ampia ipotesi strategica sul rapporto tra movimenti e configurazioni urbane. L’illusione che “attirare più soldi significa vivere meglio” sta condizionando le governance urbane e, come ha scritto recentemente Emanuele Braga, il caso di Milano ha mostrato che invece “attirare più soldi sta significando vivere peggio. La sinistra al potere da Pisapia a Sala ha pensato di poter chiedere al privato di disegnare una città più bella e più giusta. Ma questo non è possibile. Chi ci ha creduto si è scottato, chi lo ha fatto in mala fede si è semplicemente arricchito. Una sorta di speculazione finanziaria dal volto umano… non ha retto e non reggerà”. Non possono coesistere sensatamente speculazione immobiliare e movimenti che si candidano a fare i corpi intermedi della gestione “socializzata” delle plusvalenze.

Un banco di prova delle contraddizioni e dei limiti di queste tattiche e strategie sarà costituito a Bologna nei prossimi mesi dalla situazione sanitaria. Nella città più progressista di Italia avvertiamo in questi mesi una notevole “mobilitazione dall’alto” sul tema sanitario, principalmente grazie alle continue notizie sui giornali a proposito dei rimborsi pubblici da garantire alla sanità ospedaliera privata, la cui centralità viene a più riprese confermata da quel Bonaccini che ha già in tasca il biglietto di sola andata per Roma – dove potrà approfondire l’asse strategico tra governance pubblica e capitali della sanità privata. Gli enfaticamente nominati “Stati generali della salute” avranno sostanzialmente come esito quello di condividere il piano di rientro economico sanitario e richiamare gli attori della società civile a farsene difensori dietro le retoriche innovative sulla territorialità, le comunità e la partecipazione. Non sfugge invece che la battaglia centrale in questo campo è il rapporto con il privato convenzionato che punta al mantenimento della spesa ospedaliera ad esso destinata (superiore a quanto definito dalle norme vigenti) e ad allargare il suo bacino di investimento alla sanità territoriale.

In una fase così complessa anche le mobilitazioni sul piano sanitario richiedono che si vada oltre strategie limitate al protagonismo o all’egemonia di un singolo ceto politico per elaborare delle prassi e delle forme di azione pubblica che travalichino gli ambiti e i silos di competenze, permettendo la costruzione di poteri (contropoteri), saperi e pratiche alternative in un’ottica di conricerca e ricerca-azione dal basso. Nei servizi e nei luoghi di formazione, pur se frammentati da un trentennio di aziendalizzazione spinta che ha ridotto l’organizzazione a conteggio delle prestazioni, esistono soggettività impegnate nella ricostruzione delle cure primarie, della capacità di governo e di lettura dei bisogni dei distretti, della possibilità di una programmazione sociosanitaria integrata. A queste soggettività si contrappongono i privati e i dirigenti a loro legati, con il privilegio di prestazioni specialistiche e posti letto rimborsati da ogni Regione d’Italia (si sa, il sistema emiliano romagnolo gode di un certo “turismo sanitario” a suo vantaggio negli ospedali, “di eccellenza”) e che oggi sentono di poter perdere il terreno di un servizio pubblico storicamente connivente da sotto i piedi. Qui si giocherà la battaglia politica locale sulla sanità, come hanno riconosciuto anche le compagnə di Municipio Zero.

Ma se sarà impossibile incidere su queste lotte politiche locali “limitandoci a denunciare dall’esterno la strisciante privatizzazione degli ultimi trent’anni, l’inaccettabile blocco delle assunzioni, le condizioni deleterie di lavoro dei servizi appaltati al privato e al privato sociale” (come dicono giustamente da Municipio Zero) e ci sarà bisogno “di alleanze ibride, di nuove forme di dibattito pubblico, di coinvolgimento attivo delle cittadinə e delle lavoratorə”[4], sarà necessario trovare forme di azione pubblica e conricerca in cui gruppi di soggetti già attivi nei servizi, già politicizzati nel campo della formazione e della ricerca, con le loro specifiche identità, possano riconoscersi nell’apertura di un processo aperto di co-costruzione, senza che possa prevedersi a priori chi ne avrà l’egemonia.

2.6 Una breve conclusione sui modelli di militanza

Come abbiamo già accennato, l’emergere sulla spinta dell’ondata transfemminista ed ecologista di movimenti nuovi di autorappresentanza come quello delle persone disabilitate e delle persone neurodivergenti rappresenta una delle più interessanti novità nel panorama politico degli ultimi due anni. Oltre alla portata rivendicativa data dalla capacità di incarnare e sfidare in modo intersezionale varie forme di oppressione, alla capacità di riprendere e mettere in comunicazione varie prospettive teoriche, superando la sterile contrapposizione tra diritti civili e sociali, riforme e rivoluzione, ecc, attraverso la capacità di riutilizzare – rovesciandoli – sistemi definitori usati dal potere, l’altro portato dirompente di queste nuove lotte è quello di far emergere l’arretratezza degli attuali ceti politici e professionali critici e di movimento. Crediamo che da un ultimo sguardo a questo ambito, anch’esso legato alla materia della salute mentale, possano emergere delle utili indicazioni conclusive sulla necessità di riformulare i modelli dominanti di militanza. Il movimento per la neurodiversità, in particolare, ha ripreso e riformulato alcune delle definizioni diagnostiche germogliate nel periodo storico del neuro-hipe organicistico destituendo lo sguardo medico dalla sua centralità e ricollocando l’appropriazione identitaria degli artefatti diagnostici in un piano più ampio, esistenziale e insieme politico, capace di sfidare i costrutti normativi sul piano del genere, delle aspettative relazionali, delle regole implicite sulla produttività e delle prassi desoggettivanti dei servizi di cura. Il gruppo dei professionisti “critici” della salute mentale, formatosi anche su testi basagliani e in servizi “di comunità”, ma con un apparato critico fermo agli anni ’70 e soprattutto avendo dovuto istituzionalizzarsi come critico all’interno di servizi in cui le possibilità di prassi politica erano del tutto destituite – rimpiazzate solo da opportunità di carriere professionali individuali – tende a reagire con sconcerto, quando non con franca ostilità, ai posizionamenti dei movimenti delle persone neurodivergenti.

Una maggiore capacità di ascolto reciproco si verifica, comprensibilmente, quando a muoversi sono gruppi informali. Ne è un esempio la chiamata pubblica per contestare il lancio del World Mental Health Report dell’Organizzazione Mondiale della Salute promossa il 13 ottobre a Roma, dove si sono incontrati, sulla base di un documento stilato dalla Rete Antipsichiatrica Italiana, anche vari movimenti legati alla salute mentale e alle pratiche di mutualismo. Il dibattito che è iniziato non è ancora stato raccolto da un’ipotesi organizzativa forte, capace di mettere in comune le diverse prospettive giunte a una puntuale convergenza. I temi su cui sarà necessario lavorare, da una conricerca dal basso sulle pratiche dei servizi ad un lavoro di rinnovata epidemiologia critica che tenga fermo il possibile valore emancipatorio di un’interpretazione politica delle disabilità relazionali e indaghi le condizioni a cui le soggettività che le rivendicano possono sottrarsi a processi di invalidazione e assoggettamento, sono evidentemente ancora molti. Ma è evidente anche che si potrà sviluppare il dibattito nella misura in cui si riuscirà a superare il perdurare di una teoria della “coscienza esterna alle masse”, una questione che continua ad attrarre il “militante” (il maschile sovraesteso non è usato qui a caso, anche se ahimè non sono solo maschi bianchi cis estero a permetterci di modellizzare questa tendenza), in questo accompagnato dal professionista che legge la sua identità come “critico”, anche fino al punto di invalidare la voce di chi – usando i servizi – potrebbe avere la funzione strategica di metterne direttamente in crisi i discorsi o le prassi dominanti, perché in ultima analisi ad indicare quella strategia non è stato lui. In secondo luogo sarà impossibile sviluppare questo discorso finché nel modello “militante” perdureranno una teoria e una pratica che rifiutino di cogliere i legami tra attivismo e cura, disdegnino come piccolo borghesi le forme di emancipazione prodotte al di fuori di un’idea forte di soggetto collettivo (che sia la classe, l’autonomia desiderante, ecc), possano senza problemi abbracciare anche discorsi reazionari (dall’apocalisse imminente o già avvenuta – che è principalmente un’operazione del discorso capitalista, all’approccio paternalistico sulle sostanze, da forme di neocomunitarismo al peggiore abilismo) pur di continuare ad attraversare le pratiche sociali con un costante atteggiamento di gatekeeping e traendone da esso solo una serie di vantaggi in ultima istanza individuali e nessuna capacità di incidere sulla realtà.

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NOTE:

[1]    Giulio A. Maccacaro: Medicina Democratica, movimento di lotta per la salute (1976)

[2]    Che cosa è welfare pubblico? Invito a una scuola-laboratorio https://napolimonitor.it/che-cosa-e-welfare-pubblico-invito-a-una-scuola-laboratorio/

[3]    https://www.impresasociale2022.net/

[4]    Decostruire, riorganizzare e ripartire dal territorio: riflessione sull’attualità delle politiche sanitarie in Emilia-Romagna https://municipiozero.it/decostruire-riorganizzare-e-ripartire-dal-territorio-riflessione-sullattualita-delle-politiche-sanitarie-in-emilia-romagna/

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