Come è possibile che dopo due anni e mezzo di sindemia, la destrutturazione del servizio sanitario sempre più evidente, l’attacco che stanno subendo gli ambiti del welfare, della cura e della riproduzione sociale nel suo complesso, non sia emerso in Italia un movimento capace di tematizzare la difesa del servizio sanitario pubblico, la riformulazione della salute in senso relazionale, la connessione tra il benessere della popolazione e la necessità di porre un freno alla legge del profitto sul piano esistenziale, ambientale e istituzionale – e farne oggetto di rivendicazioni, pratiche, mobilitazioni che incidessero sull’esistente?

In questo contributo proverò a situare il campo delle questioni di cui bisogna tenere conto per rispondere a questa domanda; utilizzerò l’ambito della salute mentale per vedere nello specifico tre dinamiche che possono chiarirci questioni relative alla salute in generale, riguardanti 1) il ruolo del terzo settore 2) le ambivalenze della partecipazione 3) l’assenza di saperi emancipatori. Questo sarà oggetto della prima parte del contributo, qui pubblicata. Nel prossimo numero verrà pubblicata la seconda parte, in cui procederò a svolgere un’analisi dei limiti dei tentativi di movimento esistenti; per concludere farò delle osservazioni sul caso bolognese* (L.N.)

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1.1 La salute mentale

Come hanno chiarito i recenti contributi di Ierna, Esposito e Di Vittorio[1], nel campo della salute mentale assistiamo a una situazione contraddittoria: da una parte una estrema povertà culturale, pratica e strutturale nei servizi e nelle possibilità di presa in carico, dall’altro un proliferare di discorsi in cui i temi dell’innovazione, della partecipazione e della comunità oscurano ambiguamente tre processi: il costante allargamento di condizioni che ricadono sotto l’etichettamento diagnostico (e che in virtù dell’etichettamento diagnostico non trovano però né prassi comunitarie e relazionali dignitose ed emancipatorie né un aumento complessivo della capacità di presa in carico territoriale, ma soprattutto contesti di inclusione differenziale e diminuita), l’irrigidimento dei corpi professionali in saperi e identità sempre più corporative, la proliferazione di forme di abbandono e di desoggettivazione che colpiscono le sempre più numerose “vite di scarto” prodotte dalle dinamiche di quella che è stata a ragione definita “necropolitica” capitalista.

La fase pandemica ha messo in luce da una parte la rapidità con cui i segmenti della cosiddetta psichiatria o salute mentale “di comunità” si dispongono ad affrontare le situazioni di emergenza ricorrendo ai vecchi modelli del dispositivo manicomiale. Chiusura o riduzione di orario dei centri di salute mentale, riduzione della quantità di interventi territoriali a vantaggio di quelli ambulaoriali e farmacologici, rigidi limiti alle uscite e alle entrate in ogni tipo di struttura residenziale, aumento del ricorso alle pratiche contenitive e riavvolgimento del nodo che lega pratica clinica e mandato giudiziario sono stati elementi che in questi due anni e mezzo consentono di parlare di una diffusa neomanicomialità. È quindi venuto alla luce che non esiste un confine così netto tra le pratiche di salute mentale e quelle manicomiali: queste ultime tendono a riprodursi talvolta con maggiore facilità in alcuni punti del sistema, come le strutture residenziali, le cra e le rsa – in cui la popolazione ospitata è composta anche di persone disabili e anziane – ma non si limitano a eventi localizzati in specifiche strutture. Come ha chiarito Pierangelo Di Vittorio[2], non ci sono elementi per cogliere la distinzione tra “cattive” pratiche manicomiali e “buone” pratiche di salute mentale: tale distinzione è piuttosto un artificio discorsivo che impedisce di vedere le continuità teoriche e storiche e di cogliere la natura più profonda della salute mentale stessa, che una prospettiva storiografica debole vuole definire solo in contrapposizione al manicomio, impedendo di coglierne gli intrinseci tratti di controllo biopolitico delle popolazioni. Nella pratica gli esempi più evidenti di neomicomialità sono l’esito di un insieme di processi, di pratiche e di forme organizzative dei servizi tra cui possiamo inserire il ricorso ingiustificato al tso, l’ipertrofia delle strutture residenziali con la povertà culturale e di opportunità della cosiddetta riabilitazione, l’assenza di riflessione sul rapporto tra servizio e territorio, la chiusura delle discipline psy in asfittici confini tecnicistici – da cui deriva la sostituzione di dispositivi asettici (che siano i farmaci o le psicoterapie o gli interventi “educativi”) a forme reali di relazione: l’organizzazione principalmente ambulatoriale, la vaghezza dell’approccio comunitario e la debolezza della riflessione politica alla base delle discipline tecniche concorrono alla strutturazione di relazioni (o piuttosto dovremmo dire non relazioni) basate sulla desoggettivazione e l’intrattenimento; tali dinamiche attraversano i servizi, e il terzo settore che con essi svolge attività, anche quando non esitano in fenomeni manicomiali più evidenti.

1.2 Il Terzo settore

Negli ultimi vent’anni non siamo stati in grado di discernere quale fosse il terzo settore che svolgeva pratiche emancipatorie, che inventava configurazioni istituzionali rese impossibili in altri contesti dalla rigidità burocratica dei servizi, e qual era invece il terzo settore funzionale solo alla destrutturazione e dismissione del servizio pubblico, nel quale si radicavano sfruttamento della manodopera, oppressione dell’utenza e subalternità culturale alle logiche di un’istituzione ormai residuale e dedicata a popolazioni residuali. È necessario compiere un’autocritica ampia per riaprire una riflessione politica sul terzo settore; è oggi necessario considerare questa galassia di realtà come oggetto di interlocuzione per favorire al suo interno una “separazione del grano dal loglio”.

L’ambito della salute mentale è quello in cui si può con maggiore precisione leggere l’ambiguità del terzo settore. Negli anni ’80, fatte le leggi per istituire i servizi sanitari universali e deistituzionalizzati, non si erano create strutture territoriali adeguate per realizzarli e non si era data una base credibile al sistema dei servizi sociali che avrebbe dovuto integrarli; quelle poche volte che amministrazioni locali illuminate avevano fatto dei passi avanti in questa direzione, comunque non esistevano conseguenti finanziamenti nazionali a cui fare affidamento. In questo scenario è nata l’attuale configurazione del lavoro sociale, spesso radicata nell’azione politica e volontaristica di attivisti connessi al movimento ambientalista e pacifista, che sceglievano come campo d’azione centrale quello della riproduzione sociale e del vivente. Pur in un modo fin da principio imbricato nelle contraddizioni che decenni dopo sarebbero divenute insostenibili, “l’impresa sociale” fu il metodo attraverso cui gli epigoni del movimento basagliano si ingegnarono per creare vettori di deistituzionalizzazione nella pratica quotidiana dei servizi. Pesanti baracconi amministrativi speculari alla logica fordista come gli ospedali psichiatrici furono decostruiti dall’interno ampliando e generalizzando il metodo della cooperazione sociale, favorendo l’iscrizione e il lavoro deglə utentə in veste di socə, aprendo spazi di negozialità economica che – pur cavalcando una prima fase di “esternalizzazione” delle funzioni “statali” – incidevano positivamente sulla possibile  soggettivazione emancipatoria deglə ex internatə[3].

Negli anni successivi si è invece reso evidente come il volontariato, la cooperazione sociale e il terzo settore siano stati a più riprese agenti in connessione strutturale con le politiche neoliberali di dismissione del servizio pubblico. Se da una parte un gruppo di soggetti ha ampliato le proprie prospettive immaginando e realizzando forme innovative di azione sulla salute dei territori, promozione e prevenzione (che pure sono da analizzare cogliendone le ambivalenze), dall’altra una larga parte di quei soggetti si è invece limitata ad eseguire la curatela fallimentare del sanitario e del sociale. Già alla fine degli anni ’90, quando si dovettero velocemente dismettere i cosiddetti “residui manicomiali” per evitare le mannaie statali sui bilanci delle sanità regionali, laddove i servizi non erano stati costruiti, con la connivenza di CGIL e Psichiatria Democratica, il terzo settore contribuì a costruire quelle istituzioni psichiatriche postmanicomiali[4] in cui le prassi dell’ospedale psichiatrico non furono per nulla abbandonate e la popolazione internata fu meramente spostata dentro più piccoli contenitori residenziali.

Ad oggi, fuori dai quartieri smart e culturali – ove si concentra maggiormente l’azione della cooperazione dinamica, innovatrice e progressista – la residenzialità sociosanitaria per disabilə, anzianə, minorə e utentə psichiatricə continua a configurarsi come sistema di lager legalmente formalizzati, dove i principi dell’esternalizzazione e della dismissione del welfare creano vere e proprie discariche sociali. In questi contesti larga parte della cooperazione sociale nutre il germe intestino della subordinazione culturale: per fare un esempio, in Lombardia sono pochissime le rsa che si sono opposte alle fallimentari direttive regionali sulla gestione del covid e hanno disposto che il loro personale indossasse le mascherine. Allargando lo sguardo, in Emilia Romagna i politici locali hanno chiarito che le inchieste per individuare eventuali responsabilità civili o penali nella gestione del covid, richieste dai comitati di parenti delle vittime, sarebbero state una pura formalità. Nell’ambito di questa cooperazione sociale prospera la collusione con il potere politico, le cooperative funzionano come camere di compensazione e gestione preventiva dei conflitti, bacini di consenso elettorale, riserve di subalternità politica e culturale: come si può in tali condizioni essere agenti di emancipazione per le popolazioni assistite?

Cosa è rimasto del valore partecipativo da cui scaturivano la teoria e la prassi del lavoro sociale? Oggi alcuni elementi di quello spirito originario sembrano riaffermarsi nel tema della coprogettazione, bella sulla carta ma difficile da realizzare, e i nostri dubbi si basano sul fatto che i principi della 328 del 2000 che già andavano in questa direzione sono sempre stati disattesi. Nei prossimi mesi i piani di zona, i budget di salute e altre pratiche di partecipazione saranno un banco di prova per vedere se è possibile innovare i servizi in forma partecipativa resistendo alla loro dismissione economica – favorita dai processi di rientro di bilancio che ci aspettano. Per adesso resta un grosso punto interrogativo su questo orizzonte: se il terzo settore svolge una funzione pubblica, come ha riaffermato la Cassazione, di conseguenza anche il valore delle retribuzioni e i livelli salariali dovrebbero essere adeguati alla funzione pubblica che viene svolta?

Oggi troviamo picchi di coscienza e impegno civico nel campo della salute di prossimità, della promozione e della azione sui determinanti sociali proprio in aggregati di quella stessa variegata galassia. Negli ultimi anni sono emerse varie occasioni di presa di parola, organizzazione, intervento nel dibattito pubblico da parte di reti in cui convergono esperienze emancipatorie e partecipative del terzo settore (sia laico che cattolico), sperimentazioni organizzative avanzate nate tra reti di professionisti (come in alcune case della salute – penso alle Piagge di Firenze o all’ambulatorio Julian Tudor Hart di Ferrara) le cui elaborazioni sono spesso confluite in soggetti collettivi o campagne impiegate a promuovere lo sviluppo delle cure primarie o modelli di gestione alternativa del servizio sanitario[5]. Gli esempi più significativi sono rappresentati da soggetti plurali come la Campagna PHC, SaluteInternazionale, Salute Diritto Fondamentale, Movimento Giotto, Forum Non Autosufficienza,  Prima la Comunità – queste ultime molto interessanti per la compresenza, al suo interno, di cooperatorə sociali molto impegnati nela lotta alle disuguaglianze, delle Acli, di fondazioni bancarie come Intesa San Paolo, di soggetti di spicco del mondo Cergas – Bocconi. Non vanno dimenticate a questo proposito anche varie esperienze di Cooperazione di Comunità: istituti cooperativi innovativi finalizzati a produrre benessere sui territori intervenendo nei settori dell’accoglienza diffusa, dell’economia circolare, della mcroimpresa inclusiva. Pure se in una forma compatibile con i processi di destrutturazione della azione statale, vari soggetti provenienti da questo ambito spesso svolgono una funzione di critica alle scelte governative – un esempio importante in questo ambito è rappresentato dal Forum Diseguaglianze Diversità – o si pongono come interfaccia di processi di formalizzazione delle occupazioni sociali e abitative – si veda l’aggregato costituito da LabSUS.

In termini di geometrie politiche è evidente che tra questi soggetti ce ne sono alcuni che non hanno mai attraversato forme di attivismo e in particolare che non hanno incontrato la storia delle mobilitazioni per la difesa del servizio pubblico nazionale; ciò che ci preme sottolineare è che in questi contesti però spesso si trova una consapevolezza delle leve di azione, una cognizione delle dinamiche gestionali, una preparazione ad affrontare processi trasformativi ed emancipatori nella pratica quotidiana, che non si vede nei movimenti a difesa del servizio sanitario pubblico. Certo le tattiche di questi soggetti sono maturate in un alveo complessivo di compatibilità con l’esistente ma esse hanno generato e stanno generando sperimentazioni e prassi che hanno impatti e significati pratici più progressisti di quanto avviene nell’alveo formale di un servizio pubblico incapace di dialogare con il suo fuori – tanto da dare l’impressione che la maggior parte dei movimenti a sua difesa sia attestato su posizioni conservatrici in quanto costituito da ceti professionali intermedi, non ancora destrutturati totalmente dalle trasformazioni delle ASL ma per ora incapaci di ragionare praticamente su come produrre pratiche innovative nell’attualità. Giovani medichə e operatorə sociali interessati a prassi innovative nel quotidiano guardano più di buon grado alle realtà a cui abbiamo qui accennato, quando cercano un orizzonte teorico e pratico nel quale sperimentare la propria politicizzazione, la propria etica professionale, il loro afflato come cittadinə impegnate a contrastare le disuguaglianze e le ingiustizie nella quotidianità del proprio ruolo intellettuale specifico, che ai movimenti di difesa del servizio sanitario nazionale che sembrano anteporre a una visione politica sull’attualità la critica ai processi di aziendalizzazione neolbierale intervenuti negli anni 90. Tematizzare la questione è anche un passo obligato per riflettere su come portare fuori dalla compatibilità sistemica i saperi maturati nelle esperienze di innovazione più emancipatori. Se ci si pone l’obiettivo di incidere efficacemente sui rapporti di forza, non può esserci oggi un posizionamento a fianco delle lotte di lavoratrici e lavoratori a difesa “dell’esistente” senza interlocuzione con i professionistə che hanno in questi anni elaborato innovazioni a partire dalla qualità delle pratiche, delle teorie dell’organizzazione e delle esperieinze innovative di salute territoriale e comunitaria.

Per quanto riguarda il terzo settore, un obiettivo intermedio sarebbe quello di spingere le aggregazioni genericamente progressiste a dirimere la questione etica principale che le riguarda: separare nel proprio ambito chi può essere alleatə in una prospettiva complessivamente emancipatoria e chi no. Per predisporci a questo dibattito è importante che dismettiamo qualsiasi sicumera ideologica sulla primazia morale del pubblico: 30 anni di esternalizzazioni hanno deprivato il settore pubblico di leve operative per incidere sulla realtà in forme diverse dalla mercatizzazione. Facciamo un esempio che sembra lontano dal settore sanitario ma non lo è: l’energia nel Comune di Mantova. Laddove non si sono svenduti pezzi di pubblico alle parapubbliche aziendalizzate, la “tassazione dei maxi profitti” ha permesso di attuare politiche di redistribuzione e sostegno al pagamento delle bollette. Nella gran parte dei casi in cui è avvenuto altrimenti, il pubblico ha vissuto una perdita di competenze interne che ne ha limitato sempre di più la capacità di agire in modo diverso da quello che la temperie culturale ann’90 ha presentato come unico viatico verso la rezionalizzazione, vale a dire quello che – in un contesto di spoliticizzazione – porta direttamente alla logica aziendale orientata al conteggio delle mere prestazioni. Il lavoro dell dipendentə pubblicə non solo è sfruttato ma è anche vilipeso ed espropriato sul piano simbolico e dei significati. Per questo è necessario riformulare una domanda complessiva su cosa significa Pubblico (non solo qualcosa da difendere ma qualcosa da ricreare – anche coinvolgendo i saperi di questo terzo settore progressista); si riconosce qui la necessità di uscire dalla dichiarazione ideologica e andare a leggere nei microcontesti, nelle pratiche, nelle relazioni, sia istituzionali sia informali, nelle lotte quotidiane che avviengono attraverso i servizi. Andiamo a leggere quello che succede facendo conricerca per ricostruire delle indicazioni su cosa significhi oggi una pratica politica per la trasformazione.

1.3 La partecipazione manipolatoria

Un secondo ambito in cui a partire dalla salute mentale è possibile svolgere riflessioni generalizzabili è quello della partecipazione, in particolare dei limiti e delle ambiguità che questa pratica ha mostrato negli ultimi vent’anni. Giova molto alla riflessione più generale su movimenti, politica e salute l’osservazione di quelle forme di partecipazione manipolatoria che abbiamo visto svilupparsi negli ultimi 20 anni nel campo delle politica di salute mentale, a partire dai comitati consultivi locali fino alle commissioni ministeriali, che hanno prodotto direttive e impegni largamente disattesi nei processi reali. In alcuni contesti si sono sviluppate inoltre specifiche sperimentazioni partecipative ancora alla ricerca di una complessiva sistematizzazione, che superi la dimensione puntuale e geograficamente limitata.

Nonostante 20 anni di sperimentazioni e tentativi di formalizzazione della partecipazione dell’associazionismo di familiarə, utentə e volontarə nei servizi di salute mentale, non esistono risultati scientifici univoci su come si realizzi e quale efficacia abbia relativamente all’aumento del potere contrattuale dell’utenza nella definizione dei trattamenti e alla capacità dei servizi di rispondere ai bisogni della comunità con un approccio che effettivamente produca recovery, inclusione sociale e possibilità di esercizio dei diritti di cittadinanza. Nella grande varietà di formule descrittive usate nella letteratura degli ultimi anni, non si è definito un costrutto efficace e dotato di adeguato consenso per tradurre in termini analitici e operativi le varie pratiche che si sono affermate nel campo della partecipazione, la cui concreta realizzazione risulta caratterizzata da estrema vaghezza e indeterminazione. Complessivamente sembra piuttosto che gli “utenti esperti”, i percorsi di auto-mutuo-aiuto e di supporto tra pari, così come i percorsi di coprogettazione (tre delle formule più diffuse che ha assunto la partecipazione nei servizi di salute mentale), abbiano isolato porzioni dell’attività di cura e riabilitazione molto limitate, ritagliandosi in esse un ruolo marginale rispetto all’attività complessiva dei servizi pubblici; talvolta queste formule hanno esasperato l’approccio prestazionistico e correttivo degli interventi, favorendo la penetrazione di specifiche lobbies scientifico-professionale-accademiche-editoriali nel nover dei diritti esigibili dal servizio pubblico, con il supporto di assciaizoni di famiglie (è il caso dei percorsi ABA per le persone autistiche in molte regioni, in cui una specifica atività di lobbiyng ha ottenuto il riconoscimento del diritto a ore di prestazione, che poi vengono svolte dal privato attraverso voucher….).

Laddove si sono tentate pratiche di ibridazione tra saperi più emancipatorie, declinate attraverso percorsi formalizzati di inclusione dell’utenza nelle équipe dei centri di salute mentale, nelle unità di crisi degli SPDC, nell’organico strutturato dei centri diurni, si è trattato di esperienze con un’alta componente di aleatorietà, legate agli umori e alle convinzioni delle direzioni di turno, incapaci di produrre, direttamente o indirettamente, sedimentazione di conoscenza scientifica a cui fare riferimento. Le osservazioni più attente hanno inoltre messo in evidenza alcuni rischi costanti nelle pratiche di partecipazione realizzate sui nostri territori. In primo luogo il rischio complessivo che la partecipazione venga “tecnicizzata”, si risolva cioè in un meccanismo di innovazione parziale, che non mette realmente in discussione il paradigma dei servizi ma ne realizza limitati aggiustamenti, attraverso cui si sviluppano nuovi processi di inclusione differenziale di peculiari fasce di utenza, senza che avvenga una complessiva trasformazione delle forme di interlocuzione tra servizi e comunità territoriale di riferimento.

L’altro aspetto critico emerso dalle osservazioni di questi anni è che la partecipazione di associazioni di utentə, familiarə e volontarə nei servizi di salute mentale, se non sviluppa un proprio autonomo assetto concettuale sui temi di cui si occupa e non riesce a modificare radicalmente l’impianto epistemologico e organizzativo dei contesti in cui agisce, rischia di tradursi in un fenomeno a cui può applocarsi la categoria Basagliana dei “nuovi funzionari del consenso”: come la psichiatria degli anni ’70 ha dovuto “ripulirsi” dalla vecchia immagine ormai insopportabile del manicomio, così oggi, attraverso le esperienze di partecipazione, si afferma una nuova immagine dei servizi di salute mentale, oltre i conflitti e l’apparenza di miseria, per permettere a una disciplina esteriormente “ripulita” di continuare ad agire indisturbata nelle sue pratiche di invalidazione, esclusione e legittimazione dell’esclusione nelle pieghe delle contraddizioni sociali più stridenti, in cui la pratica più diffusa resta irrimediabilmente legata al modello della asimmetria di potere e della assenza di ogni possibilità di partecipazione.

Inoltre, il rischio che le forme di partecipazione siano solo una riproposizione dei modelli culturali e professionali già dominanti nei servizi deriva dal fatto che nei contesti locali queste pratiche spesso creano un “trade off”: i gruppi di “coloro che partecipano”, effettivamente ottenendo una maggiore legittimazione della propria soggettività, in cambio mostrano una adesione consensuale al modello epistemologico e organizzativo del servizio, quale che sia. Questi ambiti sono attraversati da un associazionismo che viene “sussunto” e funzionalizzato dalla governance locale di turno fino ai livelli ministeriali nazionali. La commissione parlamentare che c’è stata nel 2020 che esiti ha prodotto, se non quello di rinnovare l’immagine progressista di alcuni ceti professionali dall’area particolarmente “engagé”, senza incidere nella possibilità reale di costruzione di un ampio movimento popolare capace di raccogliere e dare voce alle esperienze più significative di partecipazione, ponendosi in una dimensione di radicale modificazione dell’esistente? Dobbiamo capire queste forme di partecipazione come allusioni a possibili cambiamenti sistemici, cogliendone le dinamiche emancipatorie ma riconoscendo anche la loro dimensione tendenzialmente manipolatoria; questo può emergere solo attraverso nuovi modelli di conricerca sulle pratiche, che coinvolgano direttamente la cittadinanza e l’utenza come soggettività produttrici di saperi – sul  modello di quanto oggi viene portato avanti in contesti extranazionali dai critical disability studies, dai mad studies e dal movimento per la neurodivergenza, laddove questi abbiano sviluppato in ambito accademico e di ricerca saperi maturati in forme reali di coproduzione e attivismo. Dobbiamo capire cosa succede in questi processi creando una forma di ricerca emancipatoria che ci aiuti a trovare un ruolo politico in questi spazi ambivalenti di partecipazione[6].

1.4. Il mutualismo e il problema delle epistemologie

La fase di sindemia ha dato slancio a una serie di esperienze politiche di “mutualismo dal basso” che hanno riportato al centro dell’azione dei movimenti la pratica autorganizzata di sostegno alla salute sul territorio, in forma solidaristica e militante. Per adesso queste pratiche hanno prodotto un impatto ambiguo: la grande attenzione posta sulla salute psicologica, che alcuni di questi progetti hanno contribuito a costruire, si è risolta – come esito sul piano vertenziale – in un bonus governativo che ha finito per rinforzare i ceti professionali e ricondurre il campo problematico a una dimensione individuale. Tuttavia, per stare al di fuori da una prospettiva limitante che vuole vedere in queste forme di mutualismo solo una “quinta colonna” della destrutturazione del servizio pubblico, dobbiamo analizzare queste esperienze per il portato di soggettivazione politica, per la capacità di incidere direttamente sul malessere di moltissime persone, per le potenzialità di sviluppo a cui alludono. Gli ambulatori popolari, che ad oggi non hanno una significativa formula di aggregazione in Italia ma che svolgono varie forme di interlocuzione ai livelli locali, nazionali e anche con le cliniche autogestite europee, hanno costituito uno stimolo alla riflessione dei movimenti sui temi della cura e hanno attratto moltə giovani operatorə sanitariə in un attività di grande valenza pratica. Ad oggi l’ipotesi più recente che potrebbe si sta proponendo come luogo di aggregazione e dibattito per queste realtà è quella costituita dalla rete del mutualismo innescata dalle riflessioni di Rimake e Fuorimercato; non si tratta del primo tentativo di aggregazione a livello nazionale: nell’estate del 2022 si è svolta la prima assemblea nazionale pubblica a Labas a Bologna, a cui però non ha seguito uno sviluppo in termini di mobilitazione e di crescita del movimento a livello nazionale. Contestualmente, sia il Gabrio con la Microclinica Faith di Torino sia la Brigata Basaglia di Milano hanno svolto tentativi di costruzione di reti, aggregando i laboratori mtualistici transfemministi, le reti antipsichiatriche e il terzo settore impegnato nelle carceri, nei CIE e in alcuni segmenti particolarmente innovativi dei servizi di salute mentale. Tuttavia l’assenza di una prospettiva politica nazionale e di un coordinamento organizzativo pubblicamente riconosciuto, capace di tenere insieme mobilitazione, ricerca e interlocuzione con altri pezzi di movimento, non ha permesso lo sviluppo di un processo che avesse impatto sulle mobilitazioni.

A livello europeo l’interlocuzione con le cliniche autogestite (soprattutto greche, inglesi e tedesche) è invece supportata in termini di ricerca e organizzativi da soggetti legati al Centro di Salute Internazionale di Bologna, che a livello locale svolge varie interlocuzioni istituzionali formalizzate e si rapporta soprattutto con gruppi di tecnichə e professionistə dei servizi. La rete europea non sembra in questa fase costituire un ambito in cui emergano stretegie esplicite di movimento, rapporti chiari con altre mobilitazioni o ipotesi sul rapporto con le istituzioni ed è forte il rischio che queste aggregazioni si disperdano sul terreno dei dibattiti sull’egemonia. Rispetto a questi tentativi, la rete innescata da Fuorimercato ha il merito di aver unificato nella riflessione mutualismo militante nato dai centri sociali e terzo settore più impegnato in pratiche emancipatorie. Ci sono probabilmente delle questioni di egemonia, da cui deriva questa frammentazione di ipotesi organizzative – in cui si mescolano ai temi teorici, rischi di opportunismi e fraintendimenti, indipendentmente che essi riguardino aree autonome/post-operaiste, marxiste-leniniste o anarchiche. Oggi non sappiamo se i vari tentativi di aggregazione possano ancora produrre qualcosa, se il tentativo dei trotzkisti milanesi, o altri tentativi di aggregare realtà mutualistiche (a Bologna per esempio la “Colonna solidale”) possono superare una tendenziale incapacità relazionale che spesso prende la forma semplificatoria di una contrapposizione teorica. Per ora qui ci limitiamo a cercare di capire, a partire dai temi legati alla salute mentale, quali contraddizioni e quali potenzialità esprime questo ambito all’interno di una riflessione più generale su salute, movimenti e politica.

Il punto principale da cui guardare a questo campo denso di contraddizioni è il rapporto tra prassi mutualistica e possibilità di cambiamento delle epistemologie e delle prassi codificate; rispetto all’altro tema brevemente sopra evocato – se il mutualismo sia cioè la quinta colonna dell’erosione del servizio pubblico – riteniamo che la questione sia mal posta e vada ricompresa, appunto, all’interno della domanda su come prassi ed epistemologie “di movimento” possano interloquire da una parte con le istituzioni esistenti e dall’altra con le altre ipotesi di mobilitazione che insistono sul terreno della salute e della sanità. Ricalcando il ragionamento svolto sul terzo settore nel paragrafo precedente, si può meglio rintracciare il filo del nostro pensiero: il problema non è tanto se un territorio – povero di accessibilità ai servizi in generale o per articolari gruppi di popolazione – si  autorganizza per produrre risposte con la militanza. Certo, in questa azione possono esserci molte ambiguità: dal farsi finanziare a da fondazioni bancarie che con l’altra mano promuovono programmi più generali di mercatizzazione del welfare attraverso improbabili “