Pubblichiamo l’intervento di Simona Bonsignori tenuto al Giardino dei Ciliegi di Firenze il 17 giugno scorso, in occasione della presentazione del libro di Cristina Morini, Vite lavorate. Corpi, valore, resistenze al disamore, Manifestolibri 2022

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La pubblicazione dell’ultimo lavoro di Cristina Morini Vite lavorate. Corpi, valore, resistenze al disamore (Manifestolibri 2022) prende forma nelle conversazioni tra Cristina e me, appoggiate sulla lunga esperienza di ricerca e attenzione di Morini su questi temi, durante questo periodo angoscioso e sospeso prodotto dal Covid-19 e dalla pandemia che, rendendo visibile l’invisibile e mostrando le perdite, ci ha costrette a riconoscere e ripristinare i nessi tra politica e vita, e ci ha convinte a recuperare un nuovo valore dei corpi e degli affetti che la precarietà esistenziale – che vive e si nutre da sempre di distanziamento – continua a tentare di levarci.

In questo (quel?) periodo, le donne sono ritornate nelle case proprio per riparare a tutte quelle assenze di relazione e di welfare, mentre si riservavano i posti di lavoro ai maschi capofamiglia (se osservate, molti commessi nei supermercati ora sono uomini). Questa esperienza ci ha mostrato quanto le donne, le/i migranti, le/i lavoratori più subalterni hanno un peso determinante nella crisi del ruolo dell’uomo protagonista. Ecco, anche il lavoro ha un significato diverso a seconda di come è situato nel luogo nel tempo nella condizione sociale, nel genere.

L’oppressione femminile è, sappiamo, processo sociale originario, la donna è il soggetto imprevisto che Lonzi ha visto, è il soggetto rivoluzionario che Marx non ha visto, che Rossanda ci ha incitate ad essere. È lì che si annida lo sfruttamento contemporaneo che ci accompagna a riconoscere Cristina Morini in questo lavoro.

È in questa faglia, ci dice, che il lavoro delle donne potrebbe essere il motore di una politica veramente radicale; se affrontasse, però, il rapporto complesso e irrisolto che esiste tra donne, sfera pubblica e mondo della produzione.

Come rendere possibile questo passaggio, dunque? Politicizzando i corpi (di cui il lavoro è la prima forma di valore/disvalore come diceva ancora Rossanda), ma anche i linguaggi – ci dice Cristina – le scritture, i significati, i simboli e i desideri, le differenze dalla norma maschile. Nei femminismi abbiamo questi saperi, quest’elaborazione delle differenze ma anche dell’inclusione; continuamente interrogate, non solo dal valore, ma dal sesso, dal gender, dalla razza, dai viventi, dall’ambiente: è la ricerca del nostro stare nel mondo. Un divenire-donna del lavoro che si faccia eversivo – scrive Cristina –, nel tentativo di sottrarsi scegliendo l’altrove come aggiunge Tiziana Villani.

Occorre fare molta attenzione però: il capitale omologa per disinnescare proprio il potenziale rivoluzionario delle differenze qual è, appunto, il campo di applicazione più importante delle lotte agite dai movimenti femministi e transfemministi di questi anni: la vita e non la salute (e dunque la riproduzione sociale necessaria per sostenerla) è il nostro bene primario; il nuovo vero campo di lotta su cui confido si possano tessere alleanze politiche nelle differenze.

Il problema è che non riusciamo ancora a sottrarci ai processi di valorizzazione che «sfruttano il tempo e l’agire sociale, l’ambiente, ciò che vive e che consente di vivere» cito da Cristina.

Tutto questo si incunea in una sorta di «divenire minore delle donne» con la loro/nostra progressiva invisibilità, una fragilità esistenziale che ci spinge nella violenza fisica ed economica: è la precarizzazione dell’esistenza, la perdita, quella «frantumazione della collettività politica», come la chiama ancora Cristina, che avviene quando l’oppressa/o diventa datore di lavoro di se stessa/o.

Negli ultimi anni stiamo assistendo alla nascita di un soggetto nuovo in relazione con gli altri viventi e con il mondo. Com’è sempre stato nella storia, gli oppressi e tutti i soggetti secondi (in questa nostra lettura, l’eccedenza femminile e precaria), hanno da sempre dato vita a esperienze di rottura, a forme di lotta contro l’oppressione. La complessa e antica relazione con l’altro, la dipendenza dal dominatore, svalutando il fare più indispensabile provoca questo «divenire invisibile» del lavoro delle donne, ma anche dei giovani e, appunto, di tutti i soggetti secondi. Ma qual è questo fare?

Cristina lo ravvisa nel rivendicare una nuova economia politica, per cambiare radicalmente il mondo dove le donne, i migranti, le differenze, non rappresentino più un accessorio – dice –, nelle rivoluzioni degli uomini (anche nostri abituali compagni di analisi e di lotte), ma rivendica e pretende, aggiungo io, un diverso modo di osservare il mondo.

Molta parte si basa sull’assunto che il lavoro riproduttivo non è considerato produttivo di valore. Infatti, in uno scarto vero, Cristina lo nomina non più riproduzione ma «produzione sociale», proprio perché siamo in presenza di una trasformazione dei paradigmi della produzione fondati sulla relazione e sui saperi: è lo sfruttamento tecnologico delle piattaforme, ad esempio. Siamo tutte e tutti un po’ delle «casalinghe del capitale» che con il proprio lavoro involontario sostengono la produzione contemporanea.

Insomma, questo libro ci vuole dire che la precarietà femminile è diventata la modalità principale dell’organizzazione del lavoro per tutte ma anche per tutti: chiamiamo femminilizzazione del lavoro tutto lo sfruttamento che il lavoro subisce dal capitale estrattivo. Questo pericoloso passaggio sul border mi sembra però anche molto generativo.

Non riconoscere e rappresentare i lavoratori non standard è il sintomo, riconosciamolo, della malattia politica; è un tema politico sindacale, di rappresentanza e di diritti completamente irrisolto. Invisibile.

Nonostante l’era dell’innovazione tecnologica, infatti, le nostre società non si sono affatto liberate dal lavoro come avevamo sperato, esse sono piovre che si alimentano dell’energia umana per il proprio profitto diretto e per supplire ai bisogni sociali di cura dei soli soggetti che il capitale stesso utilizza (in una sorta di dismissione del vivente classificato da processi di omologazione/esclusione progressiva).

La vita tutta con la finanziarizzazione non è più essenziale. Pensiamo, ad esempio, a una compagnia aerea low cost: svolgere il servizio di trasporto delle persone da A a B non è più primario: l’importante è collegare le due destinazioni (volando anche vuota), per accumulare plusvalenze. I meccanismi del capitale contemporaneo attualmente in atto, si nutrono nel frattempo delle nostre interazioni sociali, politiche, con l’ambiente, con il tempo. Relazioni che diventano esse stesse produzione di valore da sfruttare, e avanti così.

Ciò che in questo scenario continua a mancare, ci dimostra Cristina è, intanto, un’equa quanto urgente distribuzione dei frutti di un lavoro sociale già in atto (sia esso casalingo o di piattaforma o di un welfare fai-da-te): siamo tutte e tutti lavoratrici e lavoratori non salariati.

Ricostruire, dunque, un corpo collettivo desiderante, nuovi orizzonti immaginativi, una lotta comune in cui «scegliere dove mettere e trovare amore e piacere» – perché la lotta senza l’amore non è mai data –, riscoprire che la dipendenza dall’altro può essere un valore.

L’utopia del corpo congiunta a quella del comune, è l’incitazione di Cristina che faccio mia e rimbalzo a tutte e tutti.

 

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