Il mio lavoro è fatto di bambini, ragazzini e qualche adulto, ma sopratutto di bambini: sono un’insegnante privata di pianoforte. Il mio lavoro esiste da secoli. Tutti i grandi compositori, a partire dalla nascita dei primi pianoforti, all’inizio dell’Ottocento, davano anche lezioni private di strumento.

Ho cominciato ad insegnare pianoforte e qualche elementare nozione di teoria musicale anni fa, nel 2011, in scuole private di musica, lavorando anche a progetti musicali per scuole pubbliche (dell’infanzia e di primo grado) fino a che, nel 2017, sono stata quasi obbligata a mettermi “in proprio”. Quasi tutte le scuole private di musica richiedono, per pochissime ore di lavoro, l’apertura di una Partita Iva. In ogni caso trattengono per la loro gestione economica almeno la metà della retta d’iscrizione chiesta alle famiglie. Di conseguenza all’insegnante arriva quello che rimane.

Ma non è solo un discorso di opportunità economica che mi ha spinto a lavorare da “autonoma” ormai da tre anni. È un discorso legato alla qualità del mio lavoro. A parte rare eccezioni, in una scuola privata che vive di iscrizioni, l’insegnamento viene valutato principalmente sulla base del numero degli allievi che l’insegnante riesce di anno in anno a portare almeno fino alla chiusura estiva, la quantità. La qualità dell’insegnamento passa in secondo piano e a noi insegnanti viene richiesto un costante lavoro di mediazione, in nome della capacità di mantenere buoni rapporti con il bambino e con le famiglie, di essere flessibili, di adattare l’insegnamento ad ogni singolo bambino indipendentemente dal suo reale interesse e poi ovviamente, con il saggio di fine anno, dimostrare che in qualche modo i nostri allievi sanno mettere le mani sullo strumento.

Non è molto diverso da ciò che faccio anche da sola, ma almeno la gestione e le modalità del lavoro le determino io.  La famiglia delega completamente il successo e i risultati all’insegnante, quasi il bambino non esistesse. La relazione tra insegnante e allievo non può, invece, esulare dallo specifico della materia che si insegna, deresponsabilizzando totalmente il bambino.

Molto spesso questo atteggiamento nasce dall’ignoranza, nel senso etimologico del termine, della peculiarità di ciò che insegno. Spesso nasce dal fatto che è il bambino a soddisfare un bisogno dei genitori (dovrebbe essere il contrario) oppure dal desiderio quasi ossessivo, molto in voga ultimamente, di riempire di attività il poco tempo che rimane ad un bambino dopo la scuola, sovraccaricandolo di impegni, come se la gestione autonoma del tempo libero e anche della noia non fossero fondamentali per la sua crescita e il suo sviluppo.

Fortunatamente, ho conosciuto anche casi in cui il desiderio nasce spontaneo sotto forma di richiesta esplicita del bambino, che a quel punto è fortemente determinato e autonomo nell’apprendimento, oppure casi in cui sono i genitori o qualcuno in famiglia che spinge a venire a lezione, ma che poi rimane sempre ricettivo rispetto alle reali motivazioni del bambino. In questi anni, le varie esperienze, gli incontri e sopratutto le reazioni dei bambini mi hanno aiutato a riflettere sul panorama educativo extrascolastico e a dare valore al mio ruolo e a quello che insegno.

Quest’ultimo anno, in particolare, mi ha dato l’occasione di dare un senso più generale e approfondito a queste riflessioni. Inizialmente, essendo prima di tutto una persona e poi un’insegnante, ho dovuto ammettere di avere simpatie e antipatie, anche trattandosi di bambini o ragazzi, di riuscire a relazionarmi meglio con alcuni e meno con altri o di vedere, nel tempo, lo stesso bambino evolvere, cambiare, e io con lui.

Adesso quando incontro per la prima volta un bambino di sei o sette anni (è l’età in cui genericamente i bambini iniziano a venire a lezione) ho imparato a “rubare” preziosi minuti per conoscerlo. Gli chiedo perché ha deciso di imparare a suonare proprio il pianoforte, quanto tempo pensa che occorra dedicare allo studio, quale genere di musica ascolta o chi sono i suoi cantanti preferiti. Le loro risposte mi fanno spesso sorridere o mi lasciano a bocca aperta, in silenzio, giusto quell’attimo per capire cosa mi vogliono comunicare esattamente e poi come rispondergli.

Poi, spiego loro che cosa faranno con me, quale genere di musica insegno e comincio a sondare le loro reazioni: c’è chi non vuole perdere tempo, chi sa già tutto e chi educatamente commenta o semplicemente annuisce. In questo modo, non solo riesco a farmi un’idea del carattere del bambino e delle sue aspettative ma comincio ad avere un’idea del tipo di lavoro che farò con lui per permettergli di crescere musicalmente.

Sono convinta che instaurare una buona relazione, empatica e solidale con il bambino è la base di partenza del mio lavoro, ma nel tempo ho capito che non può essere tutto affidato a quest’ultima, a meno che non sia reciproca e ammetta che vi siano due ruoli ben precisi e che uno dei due abbia necessariamente un potere sull’altro.

Pensando a questo mi vengono in mente le parole di Foucault quando in Sorvegliare e punire scrive:

“Forse bisogna anche rinunciare a tutta una tradizione che lascia immaginare che un sapere può esistere solo là dove sono sospesi i rapporti di potere e che il sapere non può svilupparsi altro che fuori dalle ingiunzioni del potere, dalle sue esigenze e dai suoi interessi…. Bisogna piuttosto ammettere che il potere produce sapere… che potere e sapere si implicano direttamente l’un l’altro”.

Il mio ruolo implica necessariamente un potere sull’allievo, anche se lo scopo è quello di renderlo autonomo: capace, in pochi anni, di aprire uno spartito, scelto da lui, di qualsiasi genere musicale, e poterlo suonare da solo. Quindi, quello che ritengo altrettanto necessario è incontrare fin da subito nel bambino il desiderio, la volontà, l’entusiasmo di imparare e di aprirsi alla relazione. Continuando il percorso di studi, acquisendo maggiori competenze e crescendo d’età, questo bisogno deve assumere risvolti sempre più personali, che non riguardano né me né nessun altro.

Per questo motivo, ho imparato in alcuni casi, sperando di stare dalla parte del bambino, a mettere io fine a questa esperienza di studio, perché senza i presupposti di cui sopra, come si fa a pensare che un bambino che ha imparato da poco a scrivere, leggere e a contare, abbia ancora spazio mentale ed energie, dopo ore di scuola, per capire cos’è una frazione in chiave? Imparare a leggere le note musicali, che nel pianoforte comprendono due chiavi (quella di Sol e quella di Fa) è come imparare una lingua straniera.

Tutta la questione dell’espressività: le frasi musicali e le dinamiche che bisogna introdurre sin dall’inizio e che si possono paragonare alla punteggiatura… per un bambino piccolo non sono concetti facili. Ovviamente ci sono libri di didattica musicale che aiutano gli insegnanti a spiegare le cose in modo semplice, c’è l’esperienza, c’è lo stesso bambino che con un commento chiarisce lui la tua spiegazione,  ma è necessario oltre allo spazio della lezione, il desiderio e la voglia di rielaborare.

A livello tecnico, deve imparare quasi subito a suonare con due mani, (molti bambini fanno ancora fatica a distinguere la destra della sinistra). Le due mani fanno spesso cose differenti. Il bambino deve imparare sia a coordinarle sia a renderle indipendenti e questi meccanismi non sono automatici ma richiedono tempo, pazienza e piccoli esercizi quasi quotidiani, soprattutto in fase iniziale.

Dopo uno o due anni, si devono introdurre anche nozioni di teoria un po’ più complesse: la tonalità, il minore e il maggiore, la modulazione. Si deve spiegare qualcosa anche sulla forma del brano, tutti argomenti fondamentali per l’interpretazione e la comprensione di quello che si sta suonando. Insomma, non si tratta di diventare dei piccoli Mozart ma è necessaria un po’ di applicazione tra una lezione e l’altra. Purtroppo spesso questo non viene compreso. È una leggerezza da imputare alla totale mancanza di cultura musicale che accompagna gran parte della nostra società attuale.

Qui si potrebbe aprire una lunga parentesi sull’educazione musicale e lo studio di uno strumento all’interno della scuola pubblica che ha invece via via svalutato il ruolo educativo fondamentale della musica e delle arti in generale. Parallelamente, andrebbe analizzato il fenomeno (anche un po’ di moda negli ultimi decenni) degli effetti terapeutici della musica soprattutto sui bambini, dai primi mesi di vita all’età prescolare. Tutto, ovviamente, relegato al privato e a carico delle famiglie.

Quest’anno ho smesso di vedere i miei allievi poco prima dello scoppio della pandemia. Alcuni, dopo le vacanze di Carnevale, già a inizio marzo hanno deciso di tenere i figli a casa.

Buio!

Praticamente son rimasta senza lavoro e senza reddito. Quindi, pur non essendo obbligata, ho pensato anch’io di lavorare online, sia per continuare ad avere un contatto diretto con i miei allievi non mediato dai mille messaggi che mi inviavano i genitori (su cosa si doveva o non doveva fare, su come il mondo sarebbe cambiato, sulle preghiere del Papa o sui messaggi del sindaco…) sia per mantenere una continuità didattica che altrimenti avrebbe significato, soprattutto per i bambini che avevano iniziato in settembre, riprendere, prima o poi, partendo in buona parte dal principio.

Ho usato Skype, probabilmente non è stata la scelta della piattaforma migliore. Per tutto il periodo del lockdown, era sovraccarica, in particolare nel tardo pomeriggio che spesso coincideva con l’orario di alcune lezioni. Indipendentemente dalla piattaforma però, le lezioni online di qualsiasi strumento, se non supportate da mezzi tecnici adeguati, sono praticamente un fallimento.

Mi riferisco in particolare alla qualità del suono: riprodurre con un microfono di un pc o di un i-pad il suono di un pianoforte è praticamente impossibile. Per ottenere un risultato decente, bisogna tener conto della distanza dallo strumento: il pc o l’i-pad dovrebbero essere messi il più possibile vicino al pianoforte. Io però avevo l’esigenza di vedere almeno un pezzo di tastiera insieme alle braccia del bambino e possibilmente anche il busto e  il viso. Con un pianoforte elettrico il problema della riproduzione del suono è già meno complesso. Cercando in qualche modo di adattarmi, ho avuto la fortuna di avere a casa quasi tutti gli spartiti che faccio comprare ai miei allievi.

Non è una cosa così scontata: soprattutto con i più grandi a volte basta sfogliare una raccolta in libreria, capire quali sono le difficoltà tecniche affrontate nei vari brani e farli acquistare direttamente a loro.

Durante le lezioni in presenza, sulla base dei progressi o delle difficoltà riscontrate, decido, sempre con una scorsa veloce dei brani, se e come proseguire. Ovviamente a distanza questo non è possibile: dovevo per forza avere tutto quello che suonavano sotto gli occhi, ma qualcosa con qualcuno è rimasto inevitabilmente indietro.

Con i più piccoli la vera difficoltà è stata proseguire nello studio, perché se durante le lezione in presenza, i bambini suonano con me i brani nuovi in modo tale che a casa non partano da zero, con la didattica a distanza era difficile fargli capire da quale battuta doveva riprende o dove avevano sbagliato. Bisognava contare prima le righe del pentagramma e poi le battute.

A volte ero io per prima a far confusione, in ogni caso si perdeva un sacco di tempo e di energie. In ultimo, i tentativi falliti di suonare a quattro mani, io con il mio piano a casa, seguendo loro sullo schermo. Un vero disastro. Peccato! Perché suonare con l’insegnante è un’esperienza che permette di trasmettere al bambino, in modo immediato e usando solo lo strumento, il senso del ritmo, l’espressività e in generale è un’esperienza che stimola lo studio e piace molto anche a loro.

Per fortuna, da fine maggio quasi tutti hanno voluto riprendere con le lezioni in presenza: mascherina, gel e distanza…  il peggio sembra essere passato.

Tiro un sospiro di sollievo e, per ora, non penso all’autunno.

 

Immagine in apertura: l’origami di Gea | un pensiero di fine anno per l’insegnante per la fine delle lezioni di pianoforte | foto di Ulianova Movio

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