Pubblichiamo un estratto dalla introduzione del libro di Mariacristina Sciannamblo, La rivincita delle nerd. Storie di donne, computer e sfida agli sterotipi di genere, da poco uscito per Mimesis Edizioni

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Nel 1984, esce al cinema un film intitolato “La rivincita dei nerd” (Revenge of the Nerds), commedia che ruota attorno alle vicende di due ragazzi americani, Lewis e Gilbert, che si iscrivono al corso di scienze dell’informatica in un college dell’Arizona, dove sono costretti a subire – insieme ad altri compagni nerd – le angherie da parte dei giocatori della squadra locale di football e membri della confraternita Alpha Beta. Il film – che con una produzione dozzinale è stato capace di guadagnare una cifra cinque volte superiore al suo budget, diventando ben presto un punto di riferimento nella cultura popolare geek e nerd – mette in scena diversi stereotipi narrativi e culturali tipici degli anni ‘80: la sfida tra nerd impacciati e particolarmente brillanti nelle materie scientifiche e giocatori di football muscolosi, ignoranti e prevaricatori; l’intraprendenza di questi ultimi con le ragazze della sorority Pi Delta Pi da una parte, e la totale incapacità dei nerd di approcciare il genere femminile dall’altra; le donne rappresentate come un oggetto d’uso o accessorio rispetto agli uomini e la finale rivincita dei goffi nerd sui rozzi atleti, con annessa conquista delle ragazze.

A guardare il film, difficilmente regia e sceneggiatura avrebbero potuto mettere in scena una rappresentazione più dicotomica di quella proposta, basata sull’opposizione tra due tipologie maschili divenute parte dell’immaginario culturale occidentale: i nerd e gli atleti. Tuttavia, se c’è un aspetto che accomuna questi due tipi umani e sociali è proprio la relazione con il genere femminile, considerato e trattato come ombra e appendice della parte maschile. Le donne che compaiono nel film – anche queste artificialmente divise tra ammiccanti cheerleader bionde e ragazze appesantite e brufolose – sono rappresentate come figure da conquistare, proteggere, aiutare, rendere felici, palpeggiare e portare a letto; le donne che popolano la pellicola sostengono il ruolo di mere esecutrici delle volontà e dei desideri maschili, senza alcuno spazio di iniziativa. In una scena del film, vediamo Judy – una ragazza esteticamente rappresentata come una nerd –, la quale, durante il laboratorio di informatica, impreca contro il computer perché non riesce a programmare; quando Gilbert – istruttore del corso – le si avvicina per prestarle aiuto, Judy esclama: “non sono fatta per interagire con una macchina”; a quel punto, Gilbert inizia a battere le dita sulla tastiera, mostrandole come programmare ed esclamando: “lavorare con un computer è qualcosa di divino, puoi avere il completo controllo”.

Sono passati oltre trent’anni dall’uscita del film, e le parole di Gilbert, che nel 1984 la maggior parte degli esseri umani avrebbe probabilmente bollato come deliri di un invasato, oggi sembrano essere state profetiche. I nerd, infatti, si sono presi la loro rivincita non solo nel finto Adams College (location del film), ma praticamente in tutti gli ambiti della vita umana, materiale, terrestre e ultraterrestre: dai social media agli smartphone, dallo sviluppo di microchip sottocutanei all’elaborazione dei big data, passando per il sistema di trasporto di razzi spaziali e i videogiochi. Non c’è discorso sull’innovazione che non sia legato alle tecnologie informatiche, sia che si tratti di apocalittici o integrati sia che si tratti di analisi e ricerche raffinate. I gadget tecnologici sono diventati belli, personalizzabili, oggetti da esibire per mostrare la propria capacità di essere sempre connessi e aggiornati sul mondo, e la competenza tecnica è diventata sinonimo di potere e successo.

Quanto alla condizione femminile, se la rappresentazione mediatica delle donne in Occidente è complessivamente migliorata dal 1984 (sebbene non manchino casi di sessismo), lo stesso non si può dire della relazione tra donne e tecnologie. Nei Paesi occidentali, infatti, le donne rappresentano una esigua minoranza nel vasto panorama delle professioni tecniche dell’informatica: dall’ingegneria informatica allo sviluppo software, passando per le posizioni accademiche apicali e i settori dell’hardware, della cybersicurezza e della data science. La scarsa socializzazione delle bambine alla tecnologia (a cominciare dai videogiochi), la resistenza, i pregiudizi di genere, il sessismo nel settore IT, la divisione del lavoro di genere, e la pervasività degli stereotipi sulle presunte diverse attitudini degli uomini e delle donne rispetto alle materie scientifiche sono alcune delle cause di questo divario di genere.

A tal proposito, basti ricordare la dichiarazione che, nel 2005, il rettore dell’università di Harvard del tempo, Lawrence Summers, fece a proposito dell’inferiorità biologica delle donne quale causa del divario di genere nei campi scientifici; oppure il recente polverone sollevato dal memorandum redatto da un ingegnere software di Google, e circolato nella mailing list dell’azienda, nel quale l’ingegnere afferma che il motivo della scarsità di donne in ruoli tecnici e di leadership si deve, in parte, a cause di natura biologica.

La situazione non sembra migliore nel mondo dei videogame, recentemente teatro del Gamergate, una delle più violente campagne di misoginia e molestie a danno di alcune sviluppatrici (Zoë Quinn e Brianna Wu) e della critica mediale e attivista femminista Anita Sarkeesian

[1]. Il Gamergate, che per molti dei suoi sostenitori nasce dalla battaglia per garantire l’etica del giornalismo videoludico, è stato solo una delle ultime vicende che testimoniano la resistenza alle rivendicazioni in favore della diversità e del rispetto di genere da parte dell’industria dei videogiochi.

Questo testo si propone di indagare proprio tali questioni nel campo della tecnologia, dando voce alle donne professioniste che popolano il settore dell’informatica nei ruoli di sviluppatrici, ingegnere, accademiche, studentesse, attiviste che hanno deciso di problematizzare apertamente le disparità di genere attraverso la formazione di network, organizzazioni e iniziative di varia natura. Come si vedrà in seguito, uno degli aspetti più interessanti emersi dalle interviste e dalle osservazioni condotte nell’arco di tre anni di ricerca è proprio la tendenza a contestare la caratterizzazione dell’informatica come mondo di soli uomini nerd; da una parte, infatti, sono le donne stesse a definirsi ‘nerd’, considerato dunque come un attributo positivo e sinonimo di competenza tecnica che anche le donne possiedono, dall’altra si sostiene la necessità di superare lo stereotipo del nerd perché inadeguato a rappresentare le istanze emancipatorie portate avanti dalle donne.

Al di là delle posizioni diverse espresse dalle voci che animano queste pagine, la scelta di affiancare donne e nerd – a cominciare dal titolo del volume – deriva dalla volontà di mettere in discussione gli stereotipi sui quali si incardina ancora oggi la relazione tra genere e tecnologia. Come tutti gli stereotipi, anche quelli che regolano la co-costruzione tra maschile, femminile e cultura tecnica sono costituiti da immagini parziali del mondo, comunemente accettate e riprodotte, nelle quali, ad esempio, i bambini sono generalmente familiarizzati al gioco con i videogame o gli scacchi, attraverso cui allenano pensiero logico, pianificazione strategica e memoria, mentre alle bambine viene proposto di prendersi cura di una bambola dalla pelle solitamente bianca e innamorata di un uomo oppure a identificarsi con Cenerentola piuttosto che con il principe; si tratta di immagini del mondo nelle quali è generalmente più probabile che uno studente venga selezionato per partecipare alle olimpiadi di matematica del liceo, nonostante le sue performance nelle materie scientifiche siano uguali a quelle della sua compagna femmina; o mondi nei quali succede che le poche donne presenti agli eventi di programmazione vengano scambiate per le “ragazze” dei programmatori anziché essere naturalmente identificate come programmatrici.

Nel dare voce alle professioniste dell’informatica che considerano il proprio lavoro e il proprio sapere tecnico non neutrale dal punto di vista del genere, questo libro vuole dunque fare emergere l’immagine di un altro mondo, in cui le donne, invece che essere intimorite dai computer, ne traggono piacere e ne riconoscono il valore sociale, contribuendo, anche attraverso l’aperta contestazione delle asimmetrie di genere, a sfidare gli stereotipi che permeano la cultura e le pratiche tecniche.

Cenni meta-teorici: il carattere performativo degli studi femministi sulla scienza e la tecnologia

Il presente volume si propone di esaminare l’informatica intesa come cultura tecnica e professionale attraverso la lente analitica degli studi femministi sulla scienza e la tecnologia. Tale questione teorica è affrontata attraverso lo studio empirico di alcune associazioni e iniziative italiane che si impegnano per favorire una maggiore presenza femminile e la diffusione della cultura di genere nei campi tecnici, con particolare riferimento all’informatica.

La relazione tra ricerca teorica e ricerca empirica è particolarmente rilevante nella misura in cui alcuni dei temi messi in luce dalla riflessione femminista sulla scienza e la tecnologia – come le asimmetrie di genere nelle discipline tecnico-scientifiche, la rivendicazione di pari opportunità, l’informatica come mondo prevalentemente maschile, la genderizzazione degli oggetti tecnici – sono problematizzati in termini empirici attraverso l’esperienza delle donne che abitano il mondo dell’informatica in qualità di sviluppatrici, ingegnere, manager, attiviste, accademiche.

Nel suo complesso, questa ricerca è attraversata dall’assunto secondo cui le teorie e i metodi che caratterizzano l’analisi sociale sono performativi [2], vale a dire caratterizzati da pratiche materiali e di senso che permettono di plasmare e attivare la realtà di cui facciamo esperienza, piuttosto che semplicemente osservarla. Un simile approccio alla ricerca sociale si avvicina a quanto John Law ha illustrato con il termine ‘interferenza’, cioè l’atto di mettere in luce, e dunque creare, differenze attraverso descrizioni e pratiche di conoscenza [3]. Secondo Law, questo è uno dei meriti principali del pensiero femminista sulla scienza e la tecnologia nella misura in cui diverse studiose hanno denunciato l’assenza di un discorso politico negli Studi Sociali sulla Scienza e la Tecnologia (d’ora in poi, STS) delle origini, affermando che produrre conoscenza significa generare differenze, dunque interferire inevitabilmente con l’oggetto di studio. Un simile approccio alla ricerca non si traduce nello sviluppo di regole o schemi classificatori per distinguere ciò che è buono da ciò che non lo è, bensì, nelle parole di Law, esso produce interferenze e interventi rispetto all’ordine della realtà. Studiare le culture e le pratiche tecniche come l’informatica attraverso la lente teorica gli studi femministi sulla scienza e la tecnologia significa, per esempio, partire dalla consapevolezza che gli oggetti e le discipline tecniche non sono territori neutrali dal punto di vista del genere così come non sono intrinsecamente maschili o femminili; a partire da tale osservazione, l’intento è dunque quello di mettere in luce ordini di senso e di azione che emergono dalle narrazioni delle donne che lavorano nell’informatica, al di là delle rappresentazioni convenzionali della tecnologia in relazione ai ruoli di genere e viceversa.

Femminismo, genere, donne, tecnologia dell’informazione, informatica: parole chiave per una ecologia del linguaggio

“Il fatto è che, semplicemente, essi non parlano la stessa lingua”. L’espressione “non parlare la stessa lingua”, piuttosto frequente nel discorso quotidiano, viene riportata da Raymond Williams nell’introduzione alla sua storia culturale della società britannica, nel passaggio in cui descrive una conversazione che lo stesso Williams ebbe con un uomo, suo commilitone nell’esercito britannico durante la Seconda guerra mondiale. Nel discutere sulle differenze tra il mondo prima della guerra e il mondo post-bellico, Williams e il suo interlocutore pervengono alla medesima conclusione: “Il fatto è che, semplicemente, essi [i due mondi] non parlano la stessa lingua” [4].

Il racconto della conversazione tra Williams e il suo amico ex-soldato è utile per discutere alcune importanti questioni che l’uso di parole “difficili” – come ‘cultura’, ‘famiglia’ ‘classe’, ‘materialismo’, ‘storia’, ecc. – pone per l’analisi sociologica. Infatti, lungi dall’essere solamente un problema di definizione del significato appropriato, la comparsa e l’uso di “parole chiave” (come le definisce Williams) implica due tipi di problema: la necessità di stabilire significati chiari da una parte, e, dall’altra, le connessioni esplicite e implicite che le persone operano attraverso i significati delle parole, i quali, secondo Williams, non rappresentano solo modi di parlare, bensì modi di vedere le nostre esperienze. Queste diverse associazioni tra significati ed esperienze sono dunque incorporate in tutte quelle parole che veicolano idee, credenze, e valori, oltre a referenti più o meno corretti. Nelle parole di Williams:

Dunque, quando andiamo oltre questi [i dizionari di uso comune] verso i dizionari storici e i saggi di semantica storica e contemporanea, siamo decisamente oltre il raggio dei “significati”. Troviamo una storia e una complessità di significati; cambiamenti consapevoli oppure usi consapevolmente differenti; troviamo innovazione, obsolescenza, specializzazione, estensione, sovrapposizione, trasferimento; oppure troviamo cambiamenti mascherati nominalmente come continuità, cosicché parole che sembrano esserci state per secoli con significati generali continui hanno finito per esprimere significati e implicazioni di significato radicalmente differenti o radicalmente variabili, eppure a volte difficilmente notati. [4]

Il problema della costruzione di significati così come descritto da Williams riguarda profondamente le principali parole chiave che formano questa ricerca: ‘femminismo’, ‘genere’, ‘donne’, ‘tecnologie dell’informazione’, ‘informatica’. Ricostruire la loro genealogia eccede la portata di questo testo, dal momento che un tale lavoro meriterebbe uno studio dedicato. Molto più modestamente, vorrei chiarire qui alcuni significati e usi che appaiono in queste pagine così come emergono dalla letteratura e dal campo empirico che ho esplorato. Questo sforzo risponde all’obiettivo di fare i conti con l’ambiguità che inevitabilmente caratterizza tali spazi di senso, provando ad anticipare potenziali fraintendimenti a cui queste parole possono indurre.

La parola ‘femminismo’ (e l’aggettivo corrispondente ‘femminista’) si riferisce alla prospettiva analitica e teorica degli studi femministi sulla scienza e la tecnologia introdotti nel precedente paragrafo. Anche se la parola ‘femminismo’ presenta connessioni dirette con i termini ‘genere’ e ‘donne’, è importante precisare che essi non coincidono. In questo testo, il riferimento alla critica femminista pertiene principalmente a quelle epistemologie che hanno offerto una critica radicale del sapere scientifico, mettendo in discussione pratiche, valori, assunti e relazioni di potere dietro la produzione della scienza. Nelle parole della filosofa della scienza e femminista Sandra Harding, tale critica può essere efficacemente descritta nel passaggio dalla “questione delle donne nella scienza” alla “questione della scienza nel femminismo” [5]. Quest’ultima prospettiva ha offerto concetti e sensibilità analitiche importanti – ad esempio ‘conoscenza situata’, ‘oggettività forte’, ‘intrattività’, ‘diffrazione’, ‘realismo ‘agenziale’, ‘onto-epistemologia’ [6] [7] [8] [9] [10] – che sovvertono le norme e i valori (quali universalismo, disinteresse, oggettività, imparzialità) sui cui poggia l’impresa scientifica moderna, portando alla luce questioni politiche ed etiche che si nascondono dietro la presunta neutralità del metodo scientifico. A tal riguardo, le autrici e la letteratura da cui tali questioni emergono non hanno necessariamente il genere e le donne come oggetto di studio primario.

Il termine ‘genere’ è in queste pagine inestricabilmente intrecciato alla parola ‘donne’, dal momento che queste ultime sono le protagoniste della ricerca empirica. Con il termine ‘genere’ intendo fare riferimento a una categoria relazionale [11] [12] [13] e al prodotto di pratiche sociali, discorsive e materiali [14] [15] [16] che attribuiscono caratteristiche femminili (ad esempio cura, dolcezza, subalternità) alle donne e caratteristiche maschili (ad esempio spregiudicatezza, forza, leadership) agli uomini, svelando, in questo modo, le iniquità sociali e le asimmetrie di potere alla base di tali associazioni. Concepire il genere e la tecnologia come concetti in relazione tra loro e osservabili sulla base di tale relazione significa guardare agli artefatti tecnici come il prodotto di un sistema di divisione del lavoro basato su asimmetrie tra uomini e donne, nonché materialmente e simbolicamente affetto da determinate concezioni della maschilità e della femminilità. Questo significa che il femminile non è definito automaticamente dal maschile, ma diviene oggetto di ‘posizionamento’ [17] [18], ossia il risultato temporaneo di processi attraverso i quali gli individui definiscono se stessi discorsivamente e materialmente, costruendo la propria identità in termini relazionali rispetto ad altri individui e al mondo materiale.

Tecnologie dell’informazione (traduzione dall’inglese ‘information technology’, d’ora in poi ‘IT’) è un’altra parola che popola questo testo. Sebbene essa sia spesso utilizzata, così come anche in questo caso, come sinonimo di ‘tecnologie computazionali’ o ‘informatica’, è utile tracciare alcune distinzioni ai fini della chiarezza.

Secondo lo storico della tecnologia Ronald Kline, l’espressione ‘information technology’ emerge negli anni ’60 dello scorso secolo negli Stati Uniti, nell’ambito delle scienze manageriali, per indicare le tecniche matematiche computazionali utilizzate per sostituire le mansioni manageriali di medio livello [19]. Durante gli anni ’80, tale conoscenza di base viene infatti trasferita in artefatti elettronici e tecnologie di calcolo introdotte nei contesti organizzativi attraverso un atteggiamento tecnoentusiasta. Secondo Kline, ‘information technology’ presenta tutte le caratteristiche di una parola chiave (così come inteso da Williams) poiché combina il termine ‘information’– un nome comune che diventa popolare grazie alla cibernetica e all’emergere delle applicazioni computazionali e della comunicazione – e il termine ‘tecnologia’– un altro termine che indicava una forza sociale considerata molto potente [20]. Proprio negli anni ’80, secondo lo storico Thomas Haigh, la parola ‘IT’ diventa “un modo nuovo e più pretenzioso di dire ‘computer’” [21]. A tal proposito, Haigh fa notare che la parola ‘computing’ presentava confini più definiti rispetto a ‘IT’ nella misura in cui si riferisce piuttosto chiaramente all’operazione del calcolo. Tuttavia, con il rapido sviluppo delle potenzialità e delle applicazioni computazionali, tale delimitazione semantica diventa progressivamente limitata. Allo stesso tempo, i termini ‘computing’ e ‘computer science [informatica]’ diventano più descrittivi riferendosi direttamente alle tecnologie computazionali e alle relative attività. Il termine ‘IT’, d’altro canto, presentava confini più ampi, riferendosi ad applicazioni informatiche, pratiche di lavoro, e significati culturali capaci di guidare i processi di innovazione. Se ‘computing’ e ‘informatica’ rimangono parole piuttosto specialistiche nell’indicare primariamente il calcolo matematico computazionale, l’elaborazione elettronica di dati e il lavoro al computer, il termine ‘IT’ va configurandosi come un concetto “ponte” capace di connettere diverse comunità di pratiche, tecnologie e campi disciplinari.

Nonostante i termini ‘informatica’ e ‘IT’ non siano dunque completamente sovrapponibili, in questo testo sono utilizzate come sinonimi e come parole chiave in quanto esse esprimono la molteplicità dei significati, i campi di applicazione, le diverse comunità e discipline che questa ricerca contiene. Una simile scelta, dunque, non risponde direttamente all’esigenza di superare le ambiguità di senso [22], ma piuttosto definisce lo sforzo analitico di fare i conti con la complessità che ogni ricerca sociale presenta.

La ricerca: tensioni analitiche, oggetto di studio e domande

Le sensibilità analitiche e le parole chiave presentate nei paragrafi precedenti costituiscono le coordinate che mi hanno permesso di definire e di orientarmi all’interno del campo di ricerca, il quale, a sua volta, è diventato una risorsa attraverso cui arricchire e problematizzare la discussione teorica. Sebbene informazioni più dettagliate sulle questioni concernenti il campo di ricerca siano presenti nel capitolo metodologico, in questo paragrafo vorrei offrire una breve descrizione del caso di studio e accennare al significato della ricerca empirica.

In primo luogo, è importante sottolineare proprio il valore della conoscenza dei fenomeni sociali attraverso la ricerca empirica rispetto al dibattito teorico [23], specialmente quando si tratta di affrontare una questione alquanto intricata quale lo studio dell’IT attraverso la lente critica del pensiero femminista sulla scienza e la tecnologia. Come sostengono le studiose Rosaling Gill e Keith Grint, confrontarsi con l’irriducibilità delle pratiche umane, esplorare la capacità di azione dei soggetti, portare alla luce le condizioni di invisibilità create dai sistemi sociotecnici è un’operazione cruciale allo scopo di superare la cosiddetta “tendenza al funzionalismo” rispetto allo studio della relazione tra genere e tecnologia [24]. In questa ricerca, tendere al funzionalismo significherebbe, per esempio, correre il rischio di interpretare la relazione tra donne e tecnologie informatiche e, più in generale, la relazione genere-informatica in termini ideologici, cioè riproducendo e rinforzando punti di vista e relazioni esistenti come, ad esempio, l’assunto secondo il quale la tecnologia è un fenomeno intrinsecamente maschile oppure l’argomentazione dicotomica per la quale i sistemi tecnici (come Internet) sono o oppressivi o liberatori.

Per contrastare il rischio di riprodurre comprensioni della realtà a volte un po’ stereotipate, due tensioni analitiche – che vanno sotto il nome di ‘conoscenza situata’ [6] [25] [26] e ‘coltivare lo sconcerto’ [27] [28] – suggerite dagli STS e studi femministi sulla scienza e la tecnologia hanno orientato la ricerca. Entrambe indicano un atteggiamento critico e attivo rispetto alla produzione della conoscenza, la quale, come si è detto in precedenza, non è mai neutrale o universale.

La nozione di ‘conoscenza situata’ è stata formulata da Haraway per sostenere l’idea che qualsiasi forma di sapere non può che essere parziale, cioè costruita all’interno di uno spazio (geografico, storico, sociale, culturale, politico, economico) circoscritto, da parte di soggetti diversi, individuali e collettivi, e attraverso l’impiego di determinati strumenti [6]. Una simile posizione impone al ricercatore (con un sesso, un’età, un ruolo sociale e una storia personale) la responsabilità di rispondere del proprio ruolo e delle pratiche di ricerca messe in campo, e di rinunciare all’idea della conoscenza intesa come universale e pura, cioè libera dai vincoli materiali e storici. Per dirla con le parole di Haraway:

Tutte le narrative culturali occidentali relative all’oggettività sono allegorie delle ideologie che governano i rapporti tra quelli che chiamiamo mente e corpo, distanza e responsabilità. L’oggettività femminista ha a che fare con ubicazioni circoscritte e conoscenze situate, non con la trascendenza e la scissione soggetto/oggetto. Ci permette di imparare a rispondere di quello che impariamo a saper vedere. [6]

Il termine ‘sconcerto’ (traduzione dall’inglese ‘disconcertment’), così come articolato da Law e Lin si avvicina a quello di ‘saperi situati’ di Haraway nella misura in cui costituisce un “importante potenziale rilevatore di differenze” [27]. Nel riconoscere che qualsiasi analisi del mondo è incarnata e circoscritta, Law e Lin invitano a fare i conti con il disordine della realtà e a costruire descrizioni e narrative differenti e resistenti a una coerenza immediata, dunque capaci di dare vita a realtà molteplici.

Ho cercato di lavorare attraverso queste due tensioni analitiche durante tutto il corso della ricerca empirica che, nello specifico, comprende una serie di interviste semi-strutturate con professioniste (sviluppatrici, programmatrici, ingegnere, manager, accademiche, studentesse) attive nelle reti che contestano le asimmetrie di genere nel campo dell’IT, e i resoconti delle osservazioni che ho condotto durante la partecipazione a eventi dedicati a sensibilizzare le giovani studentesse di scuola superiore alla cultura tecnoscientifica. L’esplorazione di tali campi empirici mi ha permesso di cogliere i discorsi e le retoriche impiegate per avvicinare le giovani donne alle discipline tecnoscientifiche, esortandole a iscriversi a corsi universitari in informatica e ingegneria informatica. In questo modo, è stato possibile ricostruire le pratiche discorsive che ruotano attorno alle questioni di genere nell’informatica nonché il rapporto tra donne e computer così come raccontato durante le interviste e le osservazioni.

L’esortazione a ‘coltivare lo sconcerto’ mi ha permesso di costruire un approccio alla ricerca sul campo guidato dall’interesse a mettere in discussione quelle analisi – presenti anche nella letteratura su genere e tecnologia – che partono dall’assunto culturale secondo il quale la tecnologia sarebbe una pratica intrinsecamente maschile e che, conseguentemente, la relazione tra donne e computer sarebbe caratterizzata da timore e alienazione. Dal canto suo, l’attenzione al concetto di ‘conoscenza situata’ mi ha permesso di mantenere uno sguardo riflessivo e auto-critico nei confronti delle pratiche di ricerca, del contesto, degli attori coinvolti, nonché del mio posizionamento rispetto ai temi oggetto di studio.

Queste tensioni analitiche emergono da un approccio alla ricerca che vuole privilegiare le differenze e l’unicità delle esperienze e delle narrazioni raccolte piuttosto che l’ordine astratto e le spiegazioni complessive. Questi orientamenti informano alcune domande di ricerca di carattere generale, che rappresentano le coordinate seguite sia durante il periodo della raccolta dei dati (accesso al campo, interviste, osservazioni) sia nel momento della loro elaborazione e interpretazione. Tali domande, dunque, devono intendersi come uno strumento interpretativo piuttosto che come una richiesta urgente di risposte chiare. Il loro scopo è infatti quello di fornire una guida affidabile nell’affrontare la ricerca empirica, suggerendo direzioni cui guardare durante l’esplorazione del campo.

Il primo interrogativo riguarda la problematizzazione dell’associazione ideologica tra tecnologia e maschilità [24]. Sebbene io riconosca il valore di tale connessione culturale (non fosse altro perché esistente in parte della letteratura su genere e tecnologia), la ricerca qui presentata è mossa dall’interesse a scandagliare la relazione tra tecnologie informatiche e donne professioniste nel settore IT, tema ancora poco trattato, soprattutto in Italia. Questa curiosità ha generato le seguenti domande di ricerca:

  1. Che tipo di relazione intercorre tra donne che abitano il mondo dell’IT e le tecnologie informatiche?
  2. In che modo le donne problematizzano le questioni di genere nel proprio campo tecnico (generalmente considerato un territorio maschile)?

Una terza domanda di ricerca rappresenta una sorta di ritorno alle questioni teoriche e concettuali accennate all’inizio. In particolare, il problema riguarda il ruolo del dibattito teorico e della ricerca empirica femminista nel rintracciare differenze [27] all’interno dell’eterogeneo campo di studio dell’IT:

  1. In che modo la ricerca empirica ridefinisce la riflessione teorica? Qual è il contributo del femminismo e degli approcci femministi allo studio dell’informatica come cultura materiale e professionale?

Queste domande di ricerca rappresentano una sorta di bussola che orienterà sia la discussione teorica e metodologica sia l’elaborazione dei dati provenienti dalla ricerca empirica.

 

NOTE

[1] Giulia Trincaldi, Perché si parla tanto del #GamerGate?. https://motherboard.vice.com/it/article/ae78ba/cos-e-davvero-il-gamergate

[2] John Law e John Urry, (2004). Enacting the social. Economy and Society, 33(3), 390-410.

[3] John Law (2009). The Greer-Bush test: on politics in STS. draft paper, version of

23rd December.

[4] Raymond Williams (1976). Keywords: A vocabulary of culture and society. Oxford University Press, pag. 11.

[5] Sandra G. Harding (1986). The science question in feminism. Ithaca: Cornell University Press, pag. 29.

[6] Donna J. Haraway (1988). Situated knowledges: The science question in feminism and the privilege of partial perspective. Feminist studies, 14(3), 575-599.

[7] Donna J. Haraway (1997). Modest−Witness@Second−Millennium.FemaleMan− Meets− OncoMouse: Feminism and Technoscience. New York: Routledge. (Trad. It. Donna Haraway (2000), Testimone – modesta @ femaleman – incontra – Oncotopo. Femminismo e tecnoscienza, Feltrinelli, Milano).

[8] Sandra G. Harding (2011). The postcolonial science and technology studies reader. Durham and London: Duke University Press.

[9] Karen Barad (2007). Meeting the universe halfway: Quantum physics and the entanglement of matter and meaning. Durham and London: Duke University Press.

[10] Karen Barad (2003). Posthumanist performativity: Toward an understanding of how matter comes to matter. Signs, 28(3), 801-831.

[11] Michela Cozza e Barbara Poggio (2007). Computing e Gendering. La costruzione del Genere nel settore informatico. Quaderni di donne e ricerca, 7-8.

[12] Michela Cozza (2008). Fare e disfare il genere. Studiare la tecnologia in un’ottica di genere, paper presentato al II Convegno nazionale STS Italia: Catturare Proteo. Tecnoscienza e società della conoscenza in Europa, Università di Genova, 19- 21 Giugno; disponibile su www.stsitalia.org/papers2008.

[13] Attila Bruni, Silvia Gherardi, e Barbara Poggio (2005). Gender and entrepreneurship: An ethnographic approach. London and New York: Routledge.

[14] Patricia Yancey Martin (2003). “Said and done” versus “saying and doing” gendering practices, practicing gender at work. Gender & society, 17(3), 342-366.

[15] Judith Butler (2004). Undoing gender. London and New York: Routledge. (Trad. It. Judith Butler e Federico Zappino (2014). Fare e disfare il genere. Mimesis).

[16] Charis Thompson (2005). Making parents: the ontological choreography of reproductive technologies. Cambridge, MA: MIT Press.

[17] Bronwyn Davies e Rom Harré (1990). Positioning: The discursive production of selves. Journal for the theory of social behaviour, 20(1), 43-63.

[18] Silvia Gherardi (2006). Organizational knowledge: The texture of workplace learning. Hoboken, NJ: John Wiley & Sons.

[19] Ronald R. Kline (2006), Cybernetics, Management Science, and Technology Policy: The Emergence of “Information Technology” as a Keyword, 1948-1985. Techno- logy and Culture, 47(3), 513-535.

[20] Leo Marx (2010). Technology: The emergence of a hazardous concept. Technology and Culture, 51(3), 561-577.

[21] Thomas Haigh (2011). The history of information technology. Annual Review of Information Science and Technology, 45(1), 431-487.

[22] Donald N. Levine (1988). The flight from ambiguity: Essays in social and cultural theory. Chicago: University of Chicago Press.

[23] Lucy Suchman (2007). Human-machine reconfigurations: Plans and situated actions. Cambridge University Press.

[24] Rosalind Grint e Keith Gill (Eds.) (1995). The gender-technology relation: Contemporary theory and research. London and Bristol, PA: Taylor & Francis.

[25] Sandra G. Harding (2004). The feminist standpoint theory reader: Intellectual and political controversies. New York: Routledge.

[26] Nancy Harstock (1987). The feminist standpoint: Developing the ground for a specifically feminist historical materialism. In Sandra Harding (Ed.), Feminism and methodology: Social science issues. Bloomington, IN: Indiana University Press.

[27] John Law e Wen-yuan Lin (2010). Cultivating disconcertment. The Sociological Review, 58(s2), 135-153.

[28] Helen Verran (1999). Staying true to the laughter in Nigerian classrooms. The Sociological Review, 47(S1), 136-155.

 

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