Abbiamo recentemente pubblicato la recensione di Giorgio Griziotti al libro di Paola Imperatore ed Emanuele Leonardi, “L’era della giustizia climatica. Prospettive politiche per una transizione ecologica dal basso” (Orthotes 2023). Ne proponiamo oggi un estratto adattato, come parte del percorso di avvicinamento al WCCJ.

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È, questo, un sistema di capitalismo estrattivo e

non regolamentato che favorisce i bisogni dei Paesi ricchi,

e delle popolazioni più ricche al loro interno,

che sono più ricchi perché sono state le risorse naturali

dei Paesi più poveri, e i loro abitanti, ad arricchirli.

 Tale sistema preferisce distruggere il pianeta

per il tornaconto di pochi piuttosto che preservarlo per il bene di molti.

Si fonda sull’avidità e sullo sfruttamento

invece che sul benessere della famiglia umana.

È un sistema in cui i costi dello stile di vita insostenibile dei pochi

gravano sui molti: sia in termini finanziari sia per quel che riguarda

il loro benessere fisico e mentale, per il loro stesso futuro.

Permette a una minoranza di privilegiati di essere liberi,

limitando le possibilità di molti.

Vanessa Nakate[1]

 

La giustizia climatica degli anni Novanta non è la stessa di quella che abbiamo di fronte oggi. Essa ha subito una vera e propria metamorfosi.[2] Ciò su cui vorremmo riflettere qui, in vista del World Congress for Climate Justice di Milano (12-15 ottobre 2023) è la parte di elaborazione “positiva” implicata in tale metamorfosi. Se il momento “negativo” – l’effetto-Greta – si trova nel rifiuto di legittimare politicamente il Sistema delle COP,[3] la spinta in avanti – la visione-Greta – sta in un allargamento dell’orizzonte complessivo della lotta per il clima, nonché in un approfondimento della sua radicalità. È bene ribadire che la visione-Greta non esaurisce lo spazio di conflitto sociale schiuso dall’effetto-Greta: è cioè perfettamente legittimo abitare il processo di convergenza senza concordare con quanto Thunberg suggerisce nei suoi scritti e nei suoi interventi pubblici (è capitato, del resto, anche a noi; e in più di un’occasione).[4] Semplicemente, ci interessa precisare da un lato il contesto politico in cui una nuova istanza di movimento è emersa – nella crisi del Sistema delle COP – e dall’altro la dinamica attraverso la quale la giustizia climatica ha “allargato” il suo raggio d’azione da un focus esclusivo sulla diseguaglianza lungo l’asse Nord-Sud a un’attenzione profonda e ricca di potenzialità verso la questione sociale, cioè verso la diseguaglianza lungo l’asse redditi alti-redditi bassi.[5]

Per comprendere questa “svolta”, passiamo in rassegna alcune caratteristiche originali del movimento di massa per la giustizia climatica. Occorre cominciare con un dato storico: le piazze climatiche del 2019 sono legate al ciclo di lotte “anti-austerità” (attivo dal 2011), il che significa che nascono in un momento di crisi della globalizzazione neoliberale. Tale contingenza le distingue nettamente dalla giustizia climatica delle origini e contribuisce a spiegare l’originalità di alcuni dei loro tratti chiave. In primo luogo, queste piazze hanno cambiato completamente la percezione collettiva del riscaldamento globale: da scenario apocalittico, foriero di sventura, a tema propulsore della mobilitazione giovanile, a livello mondiale. Provate a pensarci: fino a pochi anni fa, pronunciare la formula “cambiamento climatico” significava evocare nella mente dell’interlocutore immagini di disastri ambientali e sofferenze umane; ora, invece, a queste si affianca un immaginario ben più appetibile, popolato di strade ricolme di ragazze e ragazze, di voci pronte a rivendicare potere decisionale sul proprio destino, di cartelli pieni di passione per la riconquista del futuro.[6] È una risposta politica all’eco-ansia[7] (il contrario, cioè, della sua accettazione passiva). Nelle parole di Thunberg: «Qualcuno sostiene che la crisi climatica porti le persone alla depressione, le impaurisca fino a paralizzarle. La mia esperienza è esattamente l’opposto: chi comprende le possibili conseguenze inizia a combattere».[8] In questa compresenza tra consapevolezza della catastrofe in corso e convinzione di poterla affrontare si situa la temporalità paradossale propria della giustizia climatica: “non c’è più tempo” per la governance climatica transnazionale; simultaneamente, però, “siamo ancora in tempo” – se si cambia registro in profondità. Di nuovo Thunberg:

Nel mio cuore c’è sempre stato spazio per la parola “speranza”. A maggior ragione oggi, anche se per sperare non possiamo continuare con le stesse politiche adottate finora. Ma c’è ancora un po’ di tempo per intervenire ed evitare il disastro. La mia più grande speranza è creare un movimento forte per esercitare una grande pressione su chi sta al potere.[9]

In secondo luogo, le piazze hanno incorporato la centralità del transfemminismo – il riferimento è in particolare a Ni Una Menos[10] – non solo per quanto riguarda i repertori critici, ma anche, più direttamente, all’interno della sua struttura organizzativa: Greta Thunberg è da sempre accompagnata da giovani donne come Helena Gualinga, Vanessa Nakate, Luisa Neubauer, Angela Valenzuela. In terzo luogo, dentro e contro il processo di climatizzazione del mondo,[11] cioè la dinamica centripeta che rende il riscaldamento globale un prisma in grado di leggere la quasi totalità dei fenomeni sociali, queste piazze hanno trasformato la giustizia climatica da posizione interlocutoria e settoriale a quadro politico generale per la pratica e la teoria della convergenza di lotte diverse – apparentemente non legate, o comunque non prioritariamente, all’ecologia. Si tratta di una sorta di effetto sineddoche,[12] tale per cui ogni azione volta a proteggere l’ambiente – ma anche ogni riflessione volta a meglio comprendere la fenomenologia sfaccettata della crisi biosferica – viene per l’appunto risemantizzata in termini climatici. Si dice “clima” ma si intende “ecologia”, in generale: la parte per il tutto. È un modo per trasformare il movimento di lotta per il clima – l’unico, al momento, ad aver raggiunto dimensioni di massa e planetarie – in una cassa di risonanza per tutte le istanze di giustizia ambientale. Va sottolineato che si tratta di un passaggio esplicito, meditato e rivendicato: «Siamo all’inizio di una crisi ecologica e climatica in rapido peggioramento. Una crisi di sostenibilità. La tecnologia da sola non basterà a salvarci».[13] I temi che si susseguono nelle pagine di The Climate Book – espressi dai titoli dei vari capitoli – confermano ulteriormente il punto: “Siccità e alluvioni”, “Microplastiche”, “Incendi boschivi”, “Biodiversità terrestre”, “Suolo”, “Permafrost”, “Inquinamento atmosferico”, “Cibo e nutrizione”, “Penuria d’acqua”, “La sfida dei trasporti”, “Rifiuti in giro per il mondo”; e la lista potrebbe continuare.

Insomma: ci pare davvero che le critiche di riduzionismo carbonico mosse ai movimenti post-2019 poggino su fragili fondamenta. Inoltre, è su queste basi “espansive” che momenti di confronto come il World Congress for Climate Justice possono da un lato accelerare e dall’altro sedimentare pratiche di convergenza che a oggi non hanno ancora trovato modalità efficaci di generalizzazione.

 

Note

[1] V. Nakate, Aprite gli occhi, Feltrinelli, Milano, 2022, p. 170.

[2] https://www.leparoleelecose.it/?p=47374

[3] «Non possiamo vivere in modo sostenibile all’interno del sistema economico odierno. Eppure, quello che ci viene costantemente detto è che possiamo […] Sono bugie. Bugie pericolose che causeranno un ulteriore, disastroso ritardo […] Io dico basta. Io dico: “teniamo la posizione” […] Siamo vicini a un precipizio. E vorrei suggerire caldamente a quelli di noi cui il greenwashing non ha ancora fatto il lavaggio del cervello di tenere la posizione. Non lasciamo che ci trascinino di un altro centimetro più vicini al precipizio. Neanche di un solo centimetro. È qui, è ora, che tracciamo la linea. È questa la nostra posizione, e da qui non ci muoviamo»; G. Thunberg, The Climate Book, Mondadori, Milano 2022, pp. 303-305.

[4] Un esempio di questo legittimo atteggiamento, che si pone in dialogo e non certo in contrapposizione rispetto ai movimenti per la giustizia climatica, lo si trova nella ricca recensione a The Climate Book redatta da P. Cacciari, La visione di Greta, «Critica Marxista», 1/2, 2023, p. 27: «La “giustizia climatica” a me pare raggiungibile solo in una prospettiva eco-sociale. Il più volte evocato da Thunberg “sistema” non è oggetto indefinito e anonimo, ma una struttura di potere e di coman­do che indirizza anche la ricerca scientifica, organizza le relazioni economiche, pianifica l’uso delle ri­sorse naturali in funzione della massimizzazione del risultato eco­nomico, trasforma le istituzioni cul­turali in strumenti di propaganda, controlla e asservisce le istituzioni politiche elettive. Questi aspetti a me sembrano mancare nelle anali­si di Greta Thunberg».

Come detto, si può concordare o meno: la giustizia climatica è un campo di pratiche e riflessioni plurali, il dibattito è benvenuto. Va comunque sottolineato che la presenza di voci molto radicali nella sinfonia di The Climate Book non può essere casuale. Alcuni rapidi esempi, tra i tanti: Jason Hickel, «Non sono gli esseri umani in quanto tali la causa del problema, ma uno specifico sistema economico, il capitalismo» (p. 310); Naomi Klein, «la ricerca incessante di profitto che costringe così tante persone a lavorare più di cinquanta ore a settimana senza nessuna garanzia, provocando un’epidemia di isolamento e disperazione, è la stessa ricerca incessante di profitto che ha messo in pericolo il nostro pianeta» (p. 391); Naomi Oreskes, «Il capitalismo, per come è praticato al giorno d’oggi, ha messo in pericolo l’esistenza di milioni di specie in tutto il pianeta, ma anche la salute e il benessere di miliardi di esseri umani» (p. 31).

[5] Si veda R. Mastini, Un clima di grande ingiustizia, 2018, «Comune.info» [https://comune-info.net/un-clima-di-grande-ingiustizia/].

[6] Si veda V. Pellegrino, Futuri possibile, ombre corte, Verona 2019.

[7] Il termine eco-ansia (dall’inglese eco-anxiety), o ansia climatica, descrive la sensazione e lo stato emotivo di disagio e di paura all’idea ricorrente di possibili disastri ecologici correlati al riscaldamento globale.

Si veda C. Bellante, L’eco-ansia è un lusso occidentale?, 2022, «Il Tascabile» [https://www.iltascabile.com/scienze/eco-ansia/].

[8] G. Thunberg, intervistata da Luca Fraioli, Green&Blue, 30 giugno 2021, p. 20.

[9] Ibid. Altrove leggiamo: «Credo fermamente che l’unico modo in cui riusciremo a evitare le conseguenze peggiori di questa crisi esistenziale che avanza sia creare una massa critica di persone che pretendano i cambiamenti necessari», G. Thunberg, The Climate Book, cit., p. 3.

[10] Movimento contro il femminicidio e la violenza sulle donne, nato in Argentina nel 2015 e rapidamente estesosi a livello globale – Italia inclusa, come approfondiremo nel capitolo IV.

Si veda https://niunamenos.org.ar/.

[11] Si veda S. Aykut, Climatiser le monde, Quai, Parigi 2020.

[12] Figura retorica per la quale si usa in senso figurato una parola di significato più ampio (o meno ampio) di quella propria. Per esempio, una parte per il tutto (“prora” per “nave”).

[13] G. Thunberg, The Climate Book, cit., p. 41.

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