Giorgio Griziotti recensisce il libro di recente uscita per Orthotes (2023), “L’era della giustizia climatica. Prospettive politiche per una transizione ecologica dal basso” di Paola Imperatore ed Emanuele Leonardi. Queste riflessioni si collocano perfettamente nel percorso di Effimera di avvicinamento al WCCJ.

****

La lunga Marcia verso la giustizia climatica

Il saggio di Imperatore e Leonardi ci guida attraverso un viaggio temporale, mettendo in luce le tappe cruciali che hanno portato all’era della giustizia climatica. È particolarmente significativo che questo libro sia pubblicato proprio in vista del World Congress for Climate Justice che avrà luogo a Milano nei prossimi giorni, offrendo così una preziosa opportunità.

Prima di immergerci nei contenuti, vale la pena esaminare brevemente le metodologie utilizzate, le quali ci aiuteranno a comprendere meglio il motivo per cui il concetto iniziale di giustizia climatica subisce una profonda trasformazione, evolvendosi fino a diventare il segno distintivo di un’era.

Il testo è molto ben documentato ma non si appesantisce su cifre e statistiche al di là dello stretto necessario. Segue una logica ben strutturata concepita per condurci verso una migliore comprensione delle sue tesi principali senza ricorrere a espedienti o scorciatoie. Questo approccio è quasi una metafora dei percorsi intrapresi dai movimenti dell’ecologia politica per evitare scogli e insidie continuamente poste dalle varie istanze delle Governance globali e locali, così come dal sistema economico dominante. Ci permette di ripercorrere la lunga marcia verso l’Era della Giustizia Climatica con una certa agilità, senza trascurare alcuno dei passaggi significativi.

Questa metodologia risulta molto accessibile a un vasto pubblico di lettori e lettrici, compresi coloro che, come me, sono entrati nel contesto della giustizia climatica provenendo da un periodo precedente di lotte politiche. Un’epoca dove le battaglie ecologiche potevano già entrare nella quotidianità[1], come posso attestare avendo partecipato attivamente, come giovane supplente d’un istituto tecnico contaminato dalla diossina, al movimento sviluppatosi nel 1976 nel territorio di Seveso in seguito al disastro dell’Icmesa. Nonostante questo anch’io, come forse capiterà a molt3 altr3, ho scoperto per esempio che Greta ha avuto una precorritrice in Severn Cullis-Suzuki che all’età di 12 anni riuscì a

“zittire il mondo per sei minuti con il suo discorso al Summit della Terra che si tenne a Rio de Janeiro nel 1992 e che può considerarsi la data di nascita della climate governance … e seppe cristallizzare in modo emblematico tre dimensioni ricorrenti del dibattito sul riscaldamento globale: – l’idea che la specie umana ne sia allo stesso tempo responsabile e vittima; – l’appello ai leader affinché escano dal torpore e agiscano risolutamente; – l’individuazione dell’asse Nord-Sud come perno dell’ingiustizia climatica»[2].

La grande svolta

Nel percorso verso la giustizia climatica, gli autori mettono in evidenza il significativo episodio noto come l’ammutinamento di Greta. Nonostante l’allarme lanciato da Severn, sin dall’inizio il sistema COP

“appare uno strano ibrido tra progressismo politico (si raccoglie una sfida inedita, basata sul riconoscimento dell’origine dello sconvolgimento atmosferico sia antropogenica – cioè: sono le attività umane, in particolare l’utilizzo di combustibili fossili, a causare il riscaldamento globale) e neoliberismo economico (si sostiene che solo i mercati possano risolvere la crisi: non le politiche pubbliche, non la cooperazione internazionale, non la partecipazione della società civile planetaria – solo i mercati)”[3].

Dal già citato summit di Rio del 1992 sino all’Accordo di Parigi (COP 21 del 2015) ci viene mostrato come il filo conduttore della Governance climatica transnazionale giri costantemente attorno all’equazione dogmatica: “stabilità climatica = riduzione delle emissioni di CO2 = mercati-carbonio = crescita economica sostenibile”.

Si tratta in sintesi di un tentativo di “transizione ecologica dall’alto”, che col passare degli anni si dimostra non solo inefficace ma addirittura controproducente: “una gara in cui ci si allontana dal traguardo invece che tentare di raggiungerlo”. Per un lungo periodo, tuttavia, il gruppo delle grandi ONG ambientaliste, tra cui Greenpeace, che rappresentava numericamente l’attore più significativo nel contesto della giustizia climatica, ha mantenuto un’attitudine un po’ ambigua di “prossimità critica” con questo orientamento politico neoliberale.

Tutto precipita a partire dal 2018, durante la Cop 24 a Katowice, quando Greta compie l’atto di rottura che delegittima definitivamente il sistema delle COP con i suoi 30 anni di “bla bla bla”. Questo gesto viene accolto con entusiasmo dal crescente movimento di massa che sta emergendo e che si esprimerà con grande vigore nel corso del 2019.

Partire dal basso

A partire da questa data il libro ci guida nel nuovo spazio politico della transizione ecologica dal basso. Si compie la metamorfosi dell’idea di giustizia climatica, che dall’iniziale denuncia di Severn delle disuguaglianze geopolitiche tra Nord e Sud si allarga alla “intersezione tra marginalità territoriale, stratificazione di classe e oppressione di genere” come contesto in cui la crisi climatica si fa maggiormente sentire, amplificando il proprio impatto.

Da questa prospettiva emerge la necessità di adottare un metodo intersezionale, capace di “costruire un soggetto politico rivoluzionario in grado di rovesciare i rapporti di forza.” Di fronte all’aggravarsi inimmaginabile degli abissi di disuguaglianza “carbonica”, si osserva una crescente e diversificata serie di segnali di convergenza tra lotte e antagonismi.

A questo punto, gli autori hanno abilmente evidenziato come siano stati respinti i tentativi di divisione tra chi lavora e chi rivendica un pianeta abitabile, in particolare riferimento alla Francia e all’Italia.

In Francia i Gilets Jaunes hanno dato vita ad uno dei primi grandi movimenti sociali ecologisti di massa, in opposizione frontale alla politica di Macron, tutta tesa a far pagare ai ceti medi impoveriti il finanziamento di una presunta transizione ecologica dall’alto.

Da questa esperienza sono emersi con una forza straordinaria i tre movimenti del 2023: quello, imponente, per la difesa delle pensioni, che ha sancito la rottura fra capitale e lavoro; il movimento ecologico radicale contro i mega-bacini idrici dell’agroindustria, culminato nell’epica battaglia di Sainte Soline e infine una grande rivolta contro la razzializzazione scaturita dopo l’assassinio a sangue freddo del giovane Nahel da parte della polizia. Un elemento rilevante è che durante questo semestre infuocato sono emerse ripetutamente connessioni inedite tra soggetti provenienti dai quartieri popolari, l’ecologismo radicale e il sindacalismo.

Sul fronte italiano, al quale gli autori dedicano, tra l’altro, un dettagliato capitolo[4], emerge con grande evidenza il ruolo esemplare svolto dal Collettivo di Fabbrica GKN. Questa azienda nel settore dell’automotive è stata brutalmente chiusa nel ‘21 dal fondo finanziario britannico che ne era proprietario, con il licenziamento improvviso di tutti i 400 lavoratori tramite una semplice email.

Gli ulteriori tentativi del capitale di scaricare la responsabilità della chiusura sui movimenti per la transizione ecologica non solo sono stati respinti, ma, anzi, hanno creato una situazione in cui il Collettivo di Fabbrica è stato “in grado di costruire alleanze inedite con i movimenti ecologisti e capace di ripensare le categorie di ‘lavoro’ e di ‘fabbrica’ dentro lo scenario attuale.”

Tutto bene?

Imperatore e Leonardi sottolineano che i grandi movimenti giovanili costituiscono anche una risposta politica all’eco-ansia generata dalle prospettive catastrofiche correlate al riscaldamento globale.

Tutto bene, quindi?

La situazione è effettivamente complessa, poiché stiamo assistendo a una sorta di secessione climatica da parte delle élites; non si tratta (almeno per ora) di una Grande Fuga spaziale guidata da Elon Musk, ma rappresenta qualcosa di più concreto e potenzialmente pericoloso.

Dietro la recente immagine dell’affettuoso e sorridente abbraccio fra il tecno-tycoon e il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ci sono sia lo spettro dell’ur-fascismo populista, solubile nel neoliberalismo che la realtà della guerra.

Tuttavia, la partita è aperta, e opere come L’era della giustizia climatica costituiscono un contributo significativo alla costruzione di una teoria ed una pratica in grado di far convergere l’ecologia radicale, il mondo del lavoro e più in generale le lotte contro le oppressioni legate a classe, genere, “razza” e provenienza. Questo può rappresentare l’unica e probabilmente ultima possibilità di sopravvivenza della civilizzazione.

 

Note

[1] Lotte talvolta anche vittoriose, come quelle che hanno contribuito ad evitare finora una massiccia presenza del nucleare in Italia, come menzionato nel libro: “Ma anche l’insorgere di un movimento

contro il nucleare, contro l’energia padrona come si usava dire allora. E poi le grandi mobilitazioni popolari: Montalto di Castro nel Lazio nel 1977; i campeggi No Nuke nel 1978 e 1979 a Nova Siri, in Basilicata; le proteste ad Avetrana del 1982, in Puglia, che fermarono la realizzazione di una centrale nucleare.”

[2] P. 16

[3] P. 19

[4] “Dalla lotta contro la nocività alla giustizia climatica”,

Print Friendly, PDF & Email