Presentiamo un articolo di Elsa Galerand e Daniéle Kergoat tradotto dal francese da Sandra Burchi. Qui potete scaricare il pdf dell’articolo originale francese con la relativa bibliografia: Le travail comme enjeu des rapports sociaux (de sexe).

Daniéle Kergoat (1942) è una figura molto importante della sociologia del lavoro e del genere in Francia. Già direttrice del Gedisst (Groupe d’étude de la division sociale e sessuale del lavoro) ha contribuito a importare la problematica dei rapporti sociali fra i sessi negli studi accademici mostrando come la divisione del lavoro è al centro dei rapporti sociali.

Vicina al filone di pensiero denominato “femminismo materialista francese” ha svolto molte indagini sul campo, misurandosi con gli ambienti di lavoro e le contraddizioni vissute dalle donne. “Operaie non è il femminile di operai”, con questa frase si apre l’introduzione di una raccolta di saggi uscita in Francia nel 2012, Se battre, disent-elles…, (Paris, La Dispute, 2012), che tiene insieme il suo percorso di studi, ricerche e attivismo che non hai mai smesso di provare a dimostrare che non si possono separare rapporti di classe, di genere e di razza.

L’altra autrice, Elsa Galerand, insegna presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università del Quebec a Montreal e si occupa in particolare di relazioni di genere e divisione sessuale del lavoro, teoria femminista e movimenti sociali, femminismo e globalizzazione.

Insieme hanno portato avanti una critica alla “sociologia del lavoro”, sul piano concettuale come su quello dell’analisi, attraverso una ridefinizione estensiva del concetto di “lavoro” che passa dalla concettualizzazione dei rapporti sociali tra i sessi e la divisione sessuale del lavoro.

Il “femminismo materialista francese” fa riferimento a un gruppo di teoriche (Christine Delphy, Colette Guillaumin, Nicole-Claude Mathieu, Paola Tabet e Monique Wittig) il cui lavoro, al di là dei diversi problemi esplorati e degli apparati concettuali elaborati da ciascuna, si è impegnato a restituire la dimensione culturale, storica e ideologica delle divisioni dicotomiche e gerarchiche attraverso cui sono organizzati sesso (uomo/donna), sessualità (etero/omo) e razza (bianchi/neri; noi/loro).

In Italia, il testo di Vincenza Perilli e Sara Garbagnoli Non si nasce donna. Percorsi, testi e contesti del femminismo materialista in Francia, (Quaderni Viola, nuova serie n.5, Alegre, Roma 2013), è un buon punto di partenza per conoscere queste autrici.

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A leggere certa letteratura si ha a volte l’impressione che il lavoro non sia più centrale per comprendere il genere o più esattamente che la riflessione sul sesso del lavoro si sia esaurita e che si tratti ormai di un tema superato tanto è stato trattato e discusso durante i primi decenni del neo-femminismo. Secondo questa letteratura sarebbe stato già detto tutto e sarebbe ormai auspicabile tematizzare il genere in un altro modo, fuori dai riferimenti al lavoro e allo sfruttamento.

Certo gli studi sono stati numerosi e importanti, ma possiamo, proprio oggi, in un epoca in cui assistiamo ai grandi cambiamenti che le politiche liberali, nel contesto della globalizzazione (Falquet et al. 2010), impongono al lavoro e alle sue modalità organizzative, fare a meno di una riflessione sul lavoro?

La nostra ipotesi è che, a meno di iscriverci nell’ideologia della “fine della storia”, una riflessione sul lavoro è essenziale. E’ evidente, infatti, che i rapporti sociali (compresi quelli fra i sessi) evolvono, si riconfigurano e che, per cogliere questa evoluzione, il lavoro resti un tema centrale.

Ancora, ci sembra che la divisione sessuale del lavoro come forma specifica di divisione sociale del lavoro sia uno snodo per comprendere la dinamica dei rapporti sociali e la loro trasformazione. Più precisamente, ed è quello che cercheremo di esplicitare qui, noi attribuiamo al lavoro e alle sue divisioni, lo statuto di tema centrale (enjeu) dei rapporti sociali.

Ma, prima di tutto, cosa intendiamo per “lavoro” quando lo guardiamo dal punto di vista della divisione sessuale del lavoro?

Verso una definizione ampia di lavoro

È stato un paradigma fondatore del femminismo degli anni ’70 quello che afferma che il concetto di lavoro non ricopre soltanto tutte le forme di lavoro professionale – salariato, non salariato, formale e informale etc. – , ma anche, e allo stesso modo, l’altro lavoro, quello realizzato gratuitamente nella sfera detta “privata”: le faccende domestiche e tutto il lavoro che serve per soddisfare i bisogni dei membri della famiglia, in termini di cura quotidiana ma anche di salute, così come il lavoro di mantenimento della rete sociale e amicale, e, infine, la messa al mondo dei figli.

Fra le teorizzazioni di questo lavoro altro, a lungo ritenuto senza valore, le analisi proposte dalle femministe materialiste si sono rivelate decisive. Dimostrando che il lavoro domestico gratuito, escluso dal mercato, rientra pienamente nella categoria di lavoro sfruttato – in se stesso e per se stesso – e che la figura del lavoratore “libero di vendere la sua forza lavoro” non è la sola figura sfruttata delle nostre società, le teorizzazioni del “modo di produzione domestico” (Delphy 1970) e del “sexage”

[1] (Guillaumin 1978) hanno indotto un vero e proprio rovesciamento di pensiero. Con esse, la definizione classica di lavoro, costruita a partire dal modello del lavoro salariato si è rivelata di una insufficienza feroce in relazione all’enorme quantità di lavoro “domestico” che lasciava fuori.

Più si interrogava questo lavoro, le sue ripartizioni sessuate, il modo di appropriazione specifico di cui è stato oggetto, la relazione di servizio e la “disponibilità permanente” che implicava [Chabaud-Rychter, Fougeyrollas-Schwebel et Sonthonnax, 1985], più appariva che i contorni della “divisione sociale del lavoro” fino a là pensati intorno al solo presunto lavoro produttivo cui spetta un salario, dovevano essere ripensati ed estesi all’insieme del lavoro socialmente fornito, quale che siano le sue forme.

È precisamente in questa prospettiva che la problematica della divisione sessuale del lavoro è stata pensata. Essa rispondeva a una doppia necessità: da una parte quella di integrare il lavoro domestico, non salariato, nella definizione di lavoro, dall’altra quella di spiegare sociologicamente i rapporti asimmetrici degli uomini e delle donne rispetto al lavoro domestico e al lavoro salariato. Questo approccio materialista portava a dare alle differenze osservate (in termini di salario, di qualificazione, di tempo lavorato, di settore di impegno, di assegnazioni prioritarie all’una o all’altra sfera, all’uno a all’altro lavoro…) non più lo statuto di semplici diseguaglianze quantitative ma quella di diseguaglianze strutturali risultate da una divisione sociale, dunque politica e non “naturale”, del lavoro.

Così denaturalizzata, la divisione sessuale del lavoro poteva essere storicizzata e prendere lo statuto di questione politica dei rapporti sociali fra i sessi, essendo questi ultimi definiti come dei rapporti di forza fra gruppi (classi sociali, classi di sesso) dagli interessi antagonisti (Kergoat, 2012). La divisione sessuale del lavoro permetteva, d’altronde, di fare apparire la funzionalità (per i dominanti) della sfida che avrebbe reso le donne produttrici di ricchezze economiche. E’ questo che permette, senza fare troppo rumore, di relegarle al rango di cittadine di serie B e, poiché restano comunque relegate alla sfera del privato, di non riconoscere altro “valore” al loro lavoro riproduttivo che quello della sua “utilità sociale”.

La trasversalità della divisione sessuale del lavoro

Il lavoro che identifichiamo attraverso il concetto di divisione sessuale del lavoro è dunque produttore di valore e costituisce la posta in gioco di un rapporto di sfruttamento e di espropriazione. Una tale asserzione si inscrive nella linea delle piste aperte dalle teorizzazioni del sexage e del modo di produzione domestico. Nonostante questo, l’idea di una discontinuità fra lavoro domestico e lavoro salariato continuava a essere presente. Per contro, la problematica della divisione sessuale del lavoro prende in contropiede le dicotomie “privato/publico”, “lavoro/famiglia”, “produzione/riproduzione”, per tentare di pensare l’insieme del rapporto asimmetrico che gli uomini e le donne hanno con il lavoro. Tanto più che, e si tratta di una delle acquisizioni delle ricerche antropologiche (Edholm, Harris et Young, 1982), la separazione degli spazi di produzione come le opposizioni privato/pubblico, produzione/riproduzione, lavoro domestico/lavoro salariato sono esse stesse delle costruzioni che rinviano a una configurazione particolare dei rapporti sociali di produzione. Queste separazioni sono dei prodotti storici, non possiamo partire da esse, a meno di voler correre il rischio di reificarle.

Così il concetto di divisione sessuale del lavoro è un concetto trasversale poiché implica un ragionamento sull’insieme del lavoro socialmente prodotto. Negli anni questo concetto si è ulteriormente arricchito, inglobando la questione della divisione del lavoro nella produzione di bambini (Tabet 1985), della divisione sessuale del mercato del lavoro (Maruani 2000) e di quella del lavoro militante (Dunezat 2009) . Descrive dunque un rapporto di produzione di sfruttamento in se stesso, che non è limitato a una sfera di attività ma, al contrario, partecipa a organizzare tutta la società, l’insieme del lavoro sociale. Insomma, il concetto di divisione sessuale del lavoro, nel senso in cui lo usiamo, vuole designare l’insieme del rapporto sociale di sfruttamento che porta non soltanto all’appropriazione del lavoro, osservabile nel quadro della famiglia e del matrimonio, ma anche allo sfruttamento particolare che subisce la forza del lavoro femminile nel mercato del lavoro.

Queste due modalità di appropriazione del lavoro femminile costituiscono due facce della divisione sessuale del lavoro e formano un tutto coerente. Concretamente questo significa che le donne non sono sfruttate secondo il modo di produzione domestico o il sexage nella sfera familiare e secondo il modo di produzione capitalista nella sfera detta produttiva. Al contrario i rapporti sociali fra i sessi non si arrestano alle porte del focolare domestico ma organizzano il mercato del lavoro. In altri termini il capitalismo non è il solo a spiegare cosa succede in fabbrica, così come il patriarcato non si esaurisce con quello che succede in famiglia. I rapporti sociali di sesso e di classe, a cui bisogna aggiungere i rapporti sociali di “razza” (bianchi versus gruppi razzializzati), sono coestensivi: organizzano insieme tutte le sfere di attività e, così facendo, si modulano gli uni sugli altri, si ricompongono e si riorganizzano mutualmente e reciprocamente (Kergoat 2009). Per dirlo diversamente, le differenti forme di divisione del lavoro sono indissociabili nella realtà, ognuna di esse contribuisce a ri-configurare le altre e questa dinamica complessa è al cuore delle trasformazioni del lavoro (Galerand 2009).

Il lavoro come tema centrale dei rapporti sociali

Se una divisione del lavoro è osservabile in tutte le società conosciute e nel corso di tutta la storia, le sue modalità concrete mostrano delle forti variazioni spazio-temporali. E’ la stessa cosa per quello che riguarda il lavoro salariato: le distinzioni fra lavoro maschile e lavoro femminile sono dei costrutti sociali che evolvono nel corso del tempo e delle società a favore delle lotte fra gruppi e classi (Milkman, 1987 ; Dawns, 2002).

Contrariamente a quello che si è creduto troppo spesso, il lavoro domestico è esso stesso periodizzabile: le sue forme attuali sono strettamente legate alle società salariali [Fougeyrollas-Schwebel, 1998] e all’apparizione o all’evoluzione di queste [Talahite-Hakiki, 1981]. Inoltre queste forme sono plurali: per esempio la nozione di lavoro domestico pensata negli anni ‘70 e ‘80, a partire dalla sua gratuità e dall’esperienza delle donne piccolo borghesi, è stata rimessa in questione dal femminismo nero (Davis, 1983, Collins 1990). Non tanto per contestare la sua esistenza ma al contrario per mostrare che, come per il lavoro professionale, le modalità di lavoro domestico variano se si prende in considerazione l’esperienza delle donne nere che spesso devono esercitare simultaneamente il “loro “ lavoro domestico e quello di un’altra donna, nel secondo caso all’interno di un lavoro professionale.

Nella stessa prospettiva Evelyn Nakano Glenn (2009) mette in evidenza l’insufficienza delle analisi centrate su “il” genere del lavoro domestico. Occultando il suo carattere razializzato queste analisi lasciano credere nell’esistenza di un’ esperienza femminile universale e a-razzializzata del lavoro. Nakano Glenn mostra, infine, come le divisioni razziali e sessuali del lavoro si sono sostenute e simultaneamente riorganizzate con l’industrializzazione e l’istituzionalizzazione del lavoro riproduttivo negli Stati Uniti.

Così, il lavoro domestico – allo stesso modo del lavoro salariato – appare come una realtà complessa che si tratta di decostruire per mostrare la plasticità delle sue forme, la sua complessità, il fatto che sia modellato dalla differenza dei rapporti sociali. Più recentemente, sotto la tematica del care, della globalizzazione e della ridistribuzione spazio-temporale del lavoro su scala mondiale, molte ricerche hanno mostrato come il lavoro che consiste nel prendersi cura degli altri, è molto connottato in termini di classe e di razza, oltre a rimanere fortemente sessuato (Scrinzi 2000; Parrenas, 2000 ; Hoschshild, 20049.

È bene, d’altra parte, sottolineare lo spostamento di prospettiva che implica il fatto di prendere sul serio e di mettere al centro dell’analisi proprio questo lavoro cui le donne precarizzate e razializzate sono relegate. In effetti, la comprensione degli esiti della globalizzazione non passa più dall’osservazione degli attori comunemente presentati come centrali in questo processo (i grandi amministratori delegati o gli operatori finanziari) ma dall’attenzione portata al lavoro della tata, dell’assistente, della guardia del corpo, dell’operatore ecologico, senza i quali né l’accumulazione del capitale né la sua circolazione su scala mondiale sarebbero possibili (Sassen, 2010).

Questo spostamento di sguardo e di analisi si inscrive perfettamente nella tradizione del femminismo materialista. Là, ancora, non si tratta di operare un’addizione (il lavoro del care come un lavoro che si aggiunge alle altre forme di lavoro) ma di perseguire l’implosione del concetto di lavoro prodotto negli scorsi decenni in vista di un generale ripensamento (Hooks, 2000). Questa prospettiva permette inoltre di integrare pienamente il piano delle emozioni (Soarés, 2002) e quello della soggettività mostrando a che punto sono entrambi mobilitati dal lavoro. Come scrive Christophe Dejours, “lavorare non è soltanto trasformare il mondo, è anche trasformare se stessi, produrre se stessi” (1998).

Il concetto di lavoro che proponiamo come base di partenza per una riflessione include l’insieme delle attività umane di “produzione del vivere in società” (Godelier, 1984, Hirata e Zarifian 2000). Il lavoro, e torniamo alle premesse del materialismo, è l’attività degli individui reali che, producendo i propri modi di esistenza, producono anche ciò che sono e allacciano dei rapporti determinati di produzione. La presa in conto di questa attività diventa allora essenziale per comprendere l’organizzazione delle nostre società in classi, sia i processi attraverso cui si producono, si riproducono o si ricompongono dei gruppi separati e gerarchizzati. I rapporti sociali che producono questi gruppi, in particolare le classi di sesso, trovano necessariamente una parte della loro spiegazione nella distribuzione del lavoro, inteso nel senso ampio che noi li attribuiamo. Questa distribuzione è dunque inaggirabile per comprendere il dominio di una classe su un’altra, in questo caso degli uomini sulle donne, nelle sue dimensioni sia ideali che materiali.

Il lavoro e le sue divisioni, la condivisione delle ricchezze prodotte sono dei cardini centrali nella produzione delle categorie (le classi sociali, di sesso, di razza). Questa ultima riposa su una base materiale: si tratta di un approccio materialista. Ma riaffermare questo non significa ri-trovare una postura determinista. Al contrario: la divisione sessuale del lavoro ha dei principi organizzativi stabili (separazione, valore diverso, gerarchia) ma, lo abbiamo visto, le sue modalità variano molto nel tempo e nello spazio secondo le formazioni sociali considerate. Queste variazioni sono il risultato dell’azione dei diversi rapporti sociali che si intrecciano, si rafforzano o si scontrano gli uni gli altri.

Gli individui e i gruppi sociali si trovano, dunque, in situazioni determinate, ma solo parzialmente. È questa ambivalenza dominio/margine di libertà, che permette ai gruppi complessi di rinegoziare, in un rapporto conflittuale, natura e ripartizione del lavoro. D’altronde è bene ricordare che se è vero che ogni rapporto sociale riposa su un antagonismo, è anche vero che può essere fonte di coesione e di solidarietà potenziale.

È in questo senso che accordiamo al lavoro, su un piano sociologico, lo statuto di posta in gioco (cardine) dei rapporti sociali, e sul piano politico quello di posta in gioco centrale di lotta. Il contesto attuale di difficile articolazione delle lotte lo testimonia: il problema della ineguale distribuzione del lavoro fra uomini e donne, ma anche fra le donne, spiega l’inasprirsi delle contraddizioni cui assistiamo in epoca di globalizzazione e motiva il problema delle solidarietà politiche.

A partire da qualche elemento di definizione si vede bene che la riflessione femminista sul lavoro, i suoi bordi e le sue definizioni, è lontana dal perdere le sue energie. Se il lavoro è al cuore della dinamica dei rapporti di potere, se costituisce la posta in gioco dei rapporti sociali così come noi li pensiamo, deve allora essere messo al centro di ogni riflessione tanto sul dominio (il lavoro ne è una leva essenziale) che sulle strategie di emancipazione. Questa definizione del lavoro permette di porre, senza rinunciare a considerare la sua complessità, il problema delle condizioni nelle quali il lavoro può costituire un motivo di lotta comune.

NOTE

[1] Per designare e delineare compiutamente i caratteri del rapporto di classe tra uomini e donne, Colette Guillaumin in un saggio pubblicato nel 1978 conia il termine “sexage”, un neologismo forgiato sui vocaboli “exclavage” (schiavitù) e “servage” (servitù).  L’autrice configura la relazione tra i sessi non come espropriazione della forza lavoro femminile, ma come appropriazione  illimitata del corpo delle donne.

Ringraziamo Sandra Burchi per la traduzione e la revisione del testo.

Immagine: Fortunato Depero, “Tornio e telaio”, collezione Verzocchi.

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