In questa seconda e ultima parte (la prima è uscita su Effimera il 17 marzo) Giorgio Ferrari ricostruisce il carattere innovativo del conflitto in Ucraina, ma a partire da un esame storico e politico degli avvenimenti e dei fatti che l’hanno preceduto fino alla dottrina revanchista del russo Dugin. Il richiamo al pensiero e all’analisti di Franz Fanon è la chiave di lettura di questo vero e proprio saggio di critica a chi si ostina a leggere la vicenda solo e soltanto “con gli occhi dell’Occidente”
Fuori dall’Occidente?
Quando Alberto Asor Rosa scriveva, nel 1992 dopo la Guerra del Golfo, “Il nuovo ordine sarà tempestoso e terribile e la guerra ne sarà un elemento fondante e continuo”17 aveva visto giusto, ma non aveva considerato il tutto.
Nella sua riflessione sull’Occidente si avverte, in primo luogo, il timore per le conseguenze che l’unicità del potere Usa su scala mondiale porterà con sé. E’ sbagliato pensare, dice Asor Rosa, che “l’Unum imperium, unus rex, fondi un principio di pace”; al contrario, egli avverte, “scorreranno fiumi di sangue, non si avrà pietà per nessuno” quasi a voler riassumere in un flash le tremende profezie dell’Apocalissi di Giovanni che costituiscono la trama parallela del suo libro. Ma non è tanto per l’orrore della violenza con cui, secondo Giovanni, il Bene sconfiggerà il Male che Asor Rosa “rilegge” l’Apocalissi, quanto per il fatto che la battaglia risolutiva descritta da Giovanni, sarà l’ultima a cui il genere umano assisterà, dal momento che l’inveramento della civitas dei (la Gerusalemme celeste che scende sulla terra) “cancella la storia umana e la risolve in quella divina”. È la fine di tutte le fini (dell’umanità, della storia) si potrebbe dire, che se da un lato rivela il portato escatologico del messaggio cristiano secondo Giovanni (cioè che il trionfo del Bene celeste è legato alla scomparsa dell’umanità), dall’altro porta a riflettere sulla implacabile minaccia costituita dalla vittoria esclusiva dell’Occidente sul resto del mondo, nella raffigurazione che se ne aveva, all’epoca, attraverso la guerra del Golfo.
L’analisi di Asor Rosa è assai densa di rimandi e riflessioni filosofiche che attraversano il tema principale del libro, vale a dire come porsi di fronte alla rappresentazione che l’Occidente dava di sé in quel momento storico collocato a ridosso della caduta del socialismo. Da un punto di vista etico e filosofico, l’Occidente di Asor Rosa precede le altre culture anche (e forse) soprattutto nell’avvicinarsi al nulla, avendo bruciato a tappe forzate il suo bagaglio ideologico, religioso e razziale. Un percorso di “devalorizzazione” dunque che Asor Rosa vede – positivamente – come baluardo ad un eventuale resipiscenza di tipo fideistico-religioso, ma nel contempo esso porta alla perdita di senso generale dell’esistenza umana (L’umanità viene dal nulla e non va in nessun luogo), di cui il nichilismo rappresenta sul piano teorico la più efficace rivelazione. E datosi che “rivelazione” è sinonimo di Apocalisse, ecco che secondo lui “il nichilismo è l’autentica Apocalisse dell’Occidente”.
Come rapportarsi a tutto ciò? Quali eventuali rimedi sono ancora nelle nostre disponibilità di occidentali? Se fosse il titolo del libro a guidarci – Fuori dall’Occidente – rimarremmo delusi perché il testo non vi corrisponde, se non in modo interlocutorio.
Non fa sconti Asor Rosa all’avanzare del dominio occidentale sul mondo. Il nuovo ordine, da lui definito tempestoso e terribile, ci allontanerà dalla pace: “ Il mondo si separerà e contrapporrà sempre di più sostituendo ai principi universali la difesa dell’identità di ciascuno contro quelle di tutti gli altri. All’unum imperium, unus rex -fondato su di una invincibile supremazia economica e tecnologica, la quale costituisce il moderno principio di autorità- verrà accompagnandosi una disgregazione e separazione sempre più accentuata dei singoli individui, il marasma generalizzato dei poteri.” Ciò avverrà, peraltro, in costanza di condizioni di vita caratterizzate da povertà, emarginazione e degrado largamente diffuse tra la popolazione mondiale che, secondo Asor Rosa, testimoniano di una svolta evidente nella espressione della morale comune ormai frutto di disvalori, o meglio, dell’emergere di convenienze latenti e mai definitivamente espulse dal corpo sociale, al punto che: “ Gli stessi concetti di civiltà e di barbarie saranno messi in gioco e continuamente ribaltati”. Due i fattori che, secondo lui, soprintendono a questo processo: da un lato l’affermarsi di un principio di indifferenza generale verso i mali del mondo, inestricabilmente connesso al conseguimento del consenso da parte delle elites dominanti (La massima applicazione possibile del principio di indifferenza, coincide con la massima realizzazione possibile del consenso); dall’altro la definitiva rimozione del principio di contraddizione che aveva marcato tutta la storia dell’occidente (Il male principale dell’Occidente è l’essersi mangiato totalmente il proprio principio di contraddizione).
Date queste considerazioni, parrebbe scontato che l’autore, in ossequio al titolo del suo libro, giungesse a concludere che occorre abbandonare l’Occidente, ma non è così perchè, postosi di fronte all’interrogativo di come uscire dall’Occidente, Asor Rosa risponde con un ragionamento al limite del sofisma: “Il fatto stesso che io mi ponga questa domanda, – dice – che senta l’urgenza di farlo, e che sia in grado di farlo, è occidentale. Se fossi già fuori dall’Occidente -me ne rendo conto benissimo- o non me la porrei affatto, o non sarei in condizioni di farlo.”
Secondo lui dunque non c’è scampo all’essere implacabilmente “occidentali” ma, al tempo stesso si può essere “presuntuosamente” coscienti di non esserlo. Conclusione questa che solo gli intellettuali di rango possono permettersi, dato che proprio nelle società occidentali è demandato loro di occuparsi delle umane miserie (materiali e spirituali) con quel misto di misericordia e di (come potrebbe mancare!) “consapevole” riconoscimento dei propri errori, che però si risolve immancabilmente in un giudizio salvifico per sé e per la società cui appartengono.
Al termine di questa “coscienziosa” riflessione occidentale sull’Occidente, Asor Rosa lascia tuttavia aperto uno spiraglio: ”Se l’Occidente potesse “vedersi” – dice – anche una sola volta, nella sua indifferenza gelida e disperata, nel suo tetro grigiore di potenza esclusiva e soddisfatta, si aprirebbe probabilmente una crepa in quella corazza, che è anche un carcere. Il compito fondamentale in questo momento non è dunque “fare politica”, ma costringere l’Occidente a vedersi.” Ma attraverso quali occhi? Questo è l’interrogativo inevaso anche da Asor Rosa; la parte mancante di una riflessione sull’Occidente che non sia fatta, come quella di Conrad sulla Russia, proprio con gli occhi dell’Occidente.
In anticipo su Asor Rosa, sia nei tempi che nei modi, anche Sartre affrontò la medesima questione. Si era, è giusto ricordarlo, in un momento in cui l’Occidente e particolarmente l’Europa, era sotto attacco da parte di un intero continente, l’Africa, da essa dominato e saccheggiato per secoli. L’apice di questo scontro era rappresentato dalla guerra in Algeria, ma la ribellione covava in Tanzania, Mozambico, Angola, Congo, ed in tutta l’Africa centrale con rivolte e massacri sanguinosi. Accanto ai leader che guidavano materialmente queste rivolte – tra i più noti Amilcar Cabral, Julius Nierere, Patrice Lumumba, Samora Machel – spicca la figura di Frantz Fanon, autore del libro I dannati della terra, di cui Sartre scrisse la prefazione.
Il libro di Fanon18, pubblicato nel 1961, è sì un libro che tratta di colonialismo (un’intera parte è intitolata “Guerra coloniale e disturbi mentali”), ma è soprattutto un manifesto politico rivolto ai colonizzati di tutto il mondo. La sua pubblicazione fu, letteralmente, uno scandalo che Sartre cercò, da par suo, di far assurgere a condanna senza appello per l’Europa intera.
“In Algeria, in Angola – scrive Sartre – si massacrano a vista gli europei. È il momento del boomerang, il terzo tempo della violenza: essa ritorna su di noi, ci percuote e, mica più delle altre volte, noi non capiamo che è la nostra. I liberali restano storditi: riconoscono che non eravamo abbastanza gentili con gli indigeni, che sarebbe stato più giusto e più prudente accordar loro certi diritti nei limiti del possibile […] La Sinistra Metropolitana sta a disagio: conosce la vera sorte degli indigeni, l’oppressione senza quartiere di cui sono oggetto, non condanna la loro rivolta, sapendo che abbiamo fatto di tutto per provocarla. E tuttavia, pensa, ci sono dei limiti: quei guerrilleros dovrebbero avere a cuore di mostrarsi cavallereschi, sarebbe il miglior mezzo di provare che sono uomini.”
Vale a dire che per le anime belle dell’epoca (rappresentate dalla sinistra francese, qui definita Sinistra Metropolitana)19, se gli africani volevano essere considerati uomini e non bestie (che era l’appellativo ricorrente a loro riservato), dovevano comportarsi in modo cavalleresco nei confronti dei loro sfruttatori, i quali erano pur sempre i rappresentanti della civiltà e dei valori dell’Occidente. Rappresentanti che sotto l’insegna di un umanesimo razzista, predicavano e pretendevano (dagli africani) rispetto e non violenza dopo averli, per secoli, negati alle popolazioni indigene; ed è a costoro che Sartre riserva l’invettiva più feroce: “ Occorre affrontare intanto questo spettacolo inaspettato: lo streap-tease del nostro umanesimo. Eccolo qui tutto nudo, non bello: non era che un’ideologia bugiarda, la squisita giustificazione del saccheggio; le sue tenerezze e il suo preziosismo garantivano le nostre aggressioni. Bella figura, i non violenti: né vittime né carnefici! Andiamo! Se non siete vittime, quando il governo che avete plebiscitato, quando l’esercito in cui i vostri fratelli più giovani han prestato servizio e, senza esitazione né rimorso, si sono accinti ad un genocidio, siete indubbiamente carnefici.”
In cosa si differenzia l’atteggiamento di Sartre rispetto a quello di Asor Rosa? Preliminarmente va detto che il testo di Sartre preso a riferimento (la prefazione al libro di Fanon) risente della particolare situazione politica esistente nella Francia del 1961, lacerata dalla guerra d’Algeria, in cui Sartre ebbe un ruolo di primo piano20. Ciò premesso quello che è palese in lui è l’assoluta mancanza di rispetto per quei “valori occidentali” che invece tormentano Asor Rosa. Quella di Sartre è una presa di posizione che non ha radici lontane da chiamare in causa, ma solo l’implacabile necessità di affondare il coltello nelle contraddizioni del presente: “ Nell’Europa di oggi, tutta stordita dai colpi che le sono inferti, in Francia, in Belgio, in Inghilterra, la minima distrazione del pensiero è una complicità delittuosa con il colonialismo”. Mentre Asor Rosa sente (e fa sentire nel suo libro) il peso della storia dell’Occidente, Sartre se ne libera senza alcun rimpianto: “Un tempo il nostro continente aveva altre Tavole di salvezza: il Partenone, Chartres , i Diritti dell’Uomo, la svastica. Si sa adesso quello che valgono: e non si pretende più di salvarci dal naufragio se non col sentimento molto cristiano della nostra consapevolezza. E’ la fine, come vedete. L’Europa fa acqua da tutte le parti. Che è dunque successo? Questo, molto semplicemente, che eravamo i soggetti della storia e che ne siamo adesso gli oggetti […] Guardiamoci, se ne abbiamo il coraggio, e vediamo quel che avviene di noi.”
Questo richiamo a “guardarsi” che in Sartre è dominato dall’impellenza della guerra in Algeria, è presente anche in Asor Rosa (costringere l’Occidente a vedersi), ma mentre per quest’ultimo rappresenta la condizione necessaria per restare nell’Occidente, per Sarte si tratta di prendere atto della sua fine, scegliendo di schierarsi dalla parte di quelli che si ribellano al suo dominio perché è da questi, in ultima istanza, che secondo lui ci verrà la spinta a fare nuovamente la storia dell’uomo.
Le cose non sono andate propriamente così, dato che né il colonialismo si può dire definitivamente sconfitto, né si è riusciti a “vedersi” e a vedere il mondo con occhi diversi da quelli dell’Occidente. Anzi, la guerra in corso in Ukraina testimonia l’esatto contrario: lungi dall’ammettere di aver contribuito a provocarla, l’Occidente pretende di legittimarla in nome dell’universalità dei suoi valori e dell’esclusività del suo passato. Era già successo con la guerra dei Balcani e con le due guerre del Golfo e continuerà a succedere a meno che, guardandoci finalmente con altri occhi, riusciremo a vedere -almeno qui, nella vecchia in Europa – che questa teoria della storia universale, questo progetto politico globale su cui si fonda il primato dell’Occidente, è frutto di una costruzione ideologica che non ha precedenti.
Con gli occhi dell’altro
Di questo parla abbondantemente Samir Amin nel suo libro “Eurocentrismo: critica di una ideologia”.
Il processo descritto da Amin avvolge tutti gli aspetti dell’ideologia dominante, dallo sviluppo del capitalismo alla sua interazione con il cristianesimo, dal settorialismo religioso all’universalismo dei suoi valori etico-sociali. L’idea di Europa che ne viene fuori, è in realtà frutto di continue rimozioni e inglobamenti arbitrari che, nel tempo, hanno teso a creare una visione globale e coerente della società e della storia, secolarizzando il concetto di Occidente come se fosse sempre esistito: “ Il culturalismo dominante ha quindi inventato un “sempre Occidente”, unico e singolare fin dall’inizio. Questa costruzione, arbitraria e mitica, imponeva contemporaneamente la costruzione altrettanto artificiale degli “altri” (gli “Orienti”, o “l’Oriente”) su basi altrettanto mitiche, ma necessarie per affermare la preminenza dei fattori di continuità su cui operare. La tesi culturalista eurocentrica si fonda su un noto ceppo di “caratteri occidentali” – l’antica Grecia, Roma, l’Europa cristiana, prima feudale e poi capitalista – che costituisce una delle idee correnti più popolari. I libri di scuola elementare e l’opinione generale contano qui tanto – e anche di più – delle tesi accademiche che cercano di giustificare la parentela della cultura e della civiltà europea in questione. Questa costruzione, come quella dell’antitesi che le si oppone (“l’Oriente”): (i) strappa l’antica Grecia dall’ambiente reale entro cui era dispiegata, che è appunto “l’Oriente”, per annettere arbitrariamente l’ellenismo all’europeità; (ii) non prende le distanze da un’espressione razzista delle basi fondamentali su cui sarebbe stata costruita l’unità culturale europea in questione; (iii) esalta il cristianesimo, anch’esso arbitrariamente annesso all’europeità e interpretato come il principale fattore di permanenza dell’unità culturale europea, secondo una visione idealista, non scientifica del fenomeno religioso (che è la visione con cui la religione si afferma, il modo in cui vede se stessa); (iv) in modo perfettamente simmetrico, l’Oriente immediato e gli Orientali più lontani, vengono costruiti su basi in parte razziste e in parte fondate su una visione immutabile delle religioni.” (Amin)
Il recupero dell’ellenismo è quanto mai efficace a chiarire quest’opera di arbitraria costruzione del pensiero occidentale, dato che esso avvenne solo col Rinascimento europeo; vale a dire più di mille e cinquecento anni dopo che il meglio della cultura ellenica – filosofia, scultura, architettura – si era espresso, mentre per tutto il medio evo restò ignorato (se non occultato) dal cristianesimo dominante, il cui unico oppositore – non solo religioso – era rappresentato dal mondo arabo-islamico. “ Il mito dell’antenato greco ha svolto una funzione essenziale nella costruzione eurocentrica. È un argomento emotivo costruito artificialmente per evadere la vera domanda (perché il capitalismo è apparso in Europa prima degli altri?) sostituendola, nella panoplia delle false risposte, con l’idea che l’eredità greca predisponesse alla razionalità. In questo mito, la Grecia sarebbe la madre della filosofia razionale, mentre “l’Oriente” non sarebbe mai riuscito ad andare oltre la metafisica. In questo spirito, la presentazione della storia del cosiddetto pensiero o filosofia occidentale (che quindi presuppone altri pensieri e filosofie essenzialmente differenti, che si chiameranno orientali) si apre sempre con il capitolo sulla Grecia antica, sul quale si pone l’accento la varietà e il conflitto delle scuole, l’apertura di un pensiero libero da costrizioni religiose, l’umanesimo, il trionfo della ragione (il vero miracolo!) senza riferimento “all’Oriente” – il cui contributo al pensiero ellenico si presume nullo. […] La filosofia arabo-islamica è trattata come se non avesse altra funzione che quella di trasmettere l’eredità greca al Rinascimento. L’Islam, inoltre, in questa visione dominante, non sarebbe andato oltre l’eredità ellenica e, quando avrebbe tentato di farlo, l’avrebbe fatto male. Questa prima costruzione, le cui origini risalgono al Rinascimento, assolveva una funzione ideologica essenziale nella formazione dell’uomo borghese onesto e affrancato dal pregiudizio religioso del medioevo. Alla Sorbona, come a Cambridge, le generazioni che si sono succedute come prototipi della élite borghese si sono nutrite di questo rispetto per Pericle, riprodotto anche nei libri delle scuole elementari.”(Amin)
Storicamente dunque la costruzione dell’eurocentrismo -in quanto perno della concezione occidentale del mondo – si afferma col Rinascimento (Amin arriva persino a individuarne l’anno, 1492, coincidente con la scoperta dell’America) non tanto per il contenuto filosofico-umanistico di cui era portatore, quanto per la consapevolezza, da parte degli stati europei, di aver raggiunto uno sviluppo economico e militare tale da consentir loro di procedere alla conquista del mondo. “Diventano quindi consapevoli di una superiorità in qualche modo assoluta, -dice Amin – anche se l’effettiva sottomissione degli altri popoli richiederà ancora tempo. Disegnano le prime vere mappe del pianeta. Conoscono tutti i popoli che lo abitano e sono gli unici ad avere questo vantaggio. Sanno che anche se un tale impero ha ancora i mezzi militari per difendersi, loro, europei, saranno in grado di sviluppare mezzi più potenti. L’eurocentrismo si è cristallizzato in questa nuova coscienza, da allora, non prima.”
Questo processo ha due momenti fondamentali: l’espropriazione manu militari da parte degli stati centrali europei (dopo 700 anni di dominazione araba in Spagna e 200 anni in Sicilia) della summa di conoscenze sviluppatesi in seno alla civiltà arabo-islamica e, in parte, italiana (l’Italia dei comuni e delle repubbliche marinare) che Amin chiama “sistema Mediterraneo”; il conseguente trasferimento dei centri del potere economico e militare nelle regioni europee del Nord atlantico con l’emarginazione del vecchio centro mediterraneo.
Per tutto questo periodo l’universalismo, inteso come odierno vessillo della superiorità occidentale, non è maggiormente presente nella “coscienza europea” (ancora in formazione) di quanto lo sia in quella araba, se non in una forma metafisica, ovvero religiosa, come dimostrano le crociate dove cristiani e musulmani si credono egualmente detentori di una religione superiore, a cui però nessuno dei due contendenti (i cristiani-europei certamente meno dei musulmani-arabi), può far corrispondere un sistema di valori etico-sociali che possa dirsi universale. L’universalismo resta quindi latente, un’aspirazione incompiuta, fino a quando -col Rinascimento – la nascente società europea riesce ad imporre i suoi valori sul mondo allora conosciuto.
Questo è l’embrione dell’eurocentrismo che oggi conosciamo, il quale per successive lacerazioni ed integrazioni, mai pacifiche, diviene un progetto politico globale capace persino di coniare una teoria della storia universale. Fondamentale, da questo punto di vista, l’avvento del capitalismo con la sua accumulazione originaria ( non a caso affermatasi “a tratti di sangue e di fuoco” come scrive Marx), ma ciò secondo Amin, non è determinante per affermare la superiorità europea, anche perché, verosimilmente, gli europei del Rinascimento non sapevano che stavano “costruendo” il capitalismo. No, la superiorità valoriale degli europei si afferma innanzitutto come appartenenza di fede (cristiana) e come discendenza dall’antenato greco, appena riscoperto dal Rinascimento. Per usare le parole di Amin: ” L’eurocentrismo nel suo insieme c’è già. In altre parole, l’apparizione della dimensione eurocentrica dell’ideologia del mondo moderno precede la cristallizzazione delle altre dimensioni che definiscono il capitalismo.”
E’ un passo spiazzante per noi occidentali tutti, perché nonostante la versatilità intellettuale di cui disponiamo, e pur mettendo in conto tutta la nostra “consapevolezza” (cristiana o materialista che sia) per gli errori commessi, ci troviamo di fronte ad un pregiudizio storico – la costruzione dell’eurocentrismo e dell’idea stessa di Occidente – che anticipa, sul piano dei valori, le forme e i modi con cui il capitalismo assurgerà poi a sistema-mondo. Detto in altri termini è il pregiudizio eurocentrico, il suo cristallizzarsi come insieme di valori eterni e superiori, che fa del modo di produzione capitalistico l’elemento principe di una teoria sociale potenzialmente universale che, prima ancora di essere concepita come tale, non poteva che nascere in Europa, ovvero nella “culla” dell’Occidente.
Non saprei dire, a questo punto, se “lo sguardo dell’altro” (quello di Amin) possa essere posto all’origine del “nostro” occidentale senso di colpa per aver rimosso, pur avendone sentore, questo pregiudizio storico che, nel migliore dei casi, saremmo tentati di risolvere in base alle riflessioni di Asor Rosa secondo cui si può (e si deve) uscire dal capitalismo, ma non si può uscire dall’Occidente. Certo è che Amin non si esime dal fare, anche su questo aspetto, una riflessione critica che coinvolge la storia stessa del marxismo: “L’ideologia moderna non è stata costruita nell’etere astratto del modo di produzione capitalista puro. La stessa consapevolezza della natura capitalista di questo mondo moderno è relativamente tarda, poiché è stata prodotta dal movimento operaio e socialista proprio attraverso la critica all’organizzazione sociale nel XIX secolo, culminata nella sua espressione marxista. Quando è emersa questa critica, l’ideologia moderna, che aveva già alle spalle tre secoli di storia (dal Rinascimento all’Illuminismo), si è ridefinita come un’ideologia propriamente europea, razionalista e laica, postulando una nuova dimensione universalistica. La critica socialista, lungi dal costringere questa ideologia a misurare meglio la sua reale portata storica e il suo contenuto sociale, al contrario ha indotto l’ideologia borghese, dal diciannovesimo secolo in poi, a rafforzare le sue proposte culturaliste, anche in risposta alle domande dei suoi avversari sociali. La dimensione eurocentrica dell’ideologia dominante ha così assunto maggiore rilievo.”
In senso storico dunque, Amin sembra insinuare che la critica marxista, concentrata com’era sulla denuncia delle contraddizioni strutturali della società capitalista, abbia sottovalutato il portato ideologico-culturale che la sorreggeva (l’eurocentrismo), rivelatosi, sul piano dell’universalismo, assai più dinamico e convincente di quanto fosse l’universalismo di matrice marxista.
Ecco che di nuovo torna il tema della costruzione ideologica dell’Occidente, specie nella modernità post-illuministica dell’800, quando la filosofia europea – assolutamente dominante – disegna i connotati della nuova società: “ La filosofia europea dell’Illuminismo ha definito il quadro essenziale dell’ideologia del mondo capitalista europeo. Questa filosofia si basa su una tradizione di materialismo meccanicistico che afferma una serie di concatenazioni causali inequivocabili. Il principale tra questi è che la scienza e la tecnologia determinano con il loro progresso (autonomo) quello di tutti i settori della vita sociale; il progresso tecnico impone la trasformazione delle relazioni sociali. La lotta di classe è rimossa dalla storia: al suo posto subentra un determinismo meccanico che si impone come forza esterna, come legge di natura. Questo crudo materialismo, che spesso si crede contrario all’idealismo, è in realtà solo il suo fratello gemello: sono due facce della stessa medaglia. Sia che si dica che Dio (la Provvidenza) guida l’umanità sulla via del progresso o che sia la scienza a svolgere questa funzione, il risultato non cambia: l’uomo cosciente, non alienato, le classi sociali, spariscono dal mondo. […] A poco a poco si costituisce un nuovo funzionamento del mondo delle idee e del loro rapporto con la società reale. L’autonomia della società civile è la prima caratteristica del nuovo mondo moderno, basato sulla separazione tra vita economica (a sua volta offuscata dalla generalizzazione dei rapporti di mercato) e potere politico. Tale è la differenza qualitativa tra il nuovo modo capitalista e tutte le formazioni precapitalistiche. Questa autonomia della società civile è alla base sia del concetto di vita politica autonoma (e quindi di democrazia moderna) sia di quello di possibile scienza sociale. La società sembra, per la prima volta, essere governata da leggi esterne alla volontà degli uomini, anche dei suoi Re. Questa banalità si impone immediatamente a livello delle relazioni economiche e dell’evoluzione che esse comandano. Da allora in poi, l’eventuale scoperta di queste leggi sociali non è più, come lo era stata fino a Ibn Khaldoun e Montesquieu, il prodotto di una semplice curiosità, ma diventa un’emergenza necessaria per la “gestione del capitalismo”. (Amin)
La sottolineatura che Amin fa della società civile (prima caratteristica del mondo moderno) è quanto mai utile a comprendere il processo di costruzione ideologica dell’eurocentrismo. Basta pensare che la stessa Costituzione europea, introducendo il principio della democrazia partecipativa (Titolo VI, Artt. I-47; I-50) riconosce alla società civile e alle sue associazioni il ruolo di interlocutore delle istituzioni.
Questo sommo riconoscimento testimonia ancora una volta dell’esclusività europea, non solo perché il concetto di società civile non gode della stessa importanza in altre regioni occidentali (Nord America) e risulta praticamente assente nel resto del mondo, ma soprattutto perché la sua definizione è frutto di una lunga serie di riflessioni tutte interne al pensiero europeo.
Già nella tradizione giusnaturalistica (Locke, Russeau) la società civile è vista come l’antitesi della società naturale e si costituisce nel momento in cui gli individui decidono di uscire da questo “stato di natura” dandosi di comune accordo delle regole. C’è qui in embrione l’idea di stato in quanto società “artificiale” che si eleva al di sopra dei rapporti naturali, ma nel momento in cui questa concezione pre-moderna cederà il posto alla concezione dello stato come entità separata, la connotazione di società civile sarà modificata. Successivamente Hegel, per quanto abbia lavorato a lungo alla sistemazione della filosofia pratica (cioè l’etica), non riuscirà a concepire la società civile se non come categoria residua dove comprendere tutto ciò che non poteva essere rappresentato nei due aspetti fondanti della società –la famiglia e lo Stato- dibattuti fin dai tempi di Aristotele. La conclusione, parziale e controversa, fu quella di concepire la società civile come momento giuridico amministrativo delle relazioni fra gli uomini, mentre lo Stato vero e proprio avrebbe rappresentato il momento etico-politico con cui il cittadino si sarebbe dovuto identificare intimamente e totalmente. Allo Stato, dunque, il compito di far applicare le leggi, dirimere i conflitti di interesse e imporre il diritto, alla società civile il compito di provvedere all’educazione, l’assistenza ai poveri, la ripartizione del lavoro.
Sarà Marx a riconsiderare quest’interpretazione, da cui in ogni caso trasse spunto, sotto il profilo di interdipendenza della società civile dallo Stato o sistema politico determinato, riconducendo l’analisi della società civile nell’ambito dell’economia politica proprio in quanto le istituzioni politi