Ci sedemmo dalla parte del torto
visto che tutti gli altri posti erano occupati
(Bertolt Brecht)
Grandi sommovimenti agitano il welfare locale milanese. I fronti sono almeno due: da un lato il Comune di Milano sta discutendo il nuovo Piano di Zona cittadino, documento di indirizzo delle politiche sociali per il triennio 2018-2020; dall’altro i due grandi protagonisti della riforma del welfare locale del 2012, di cui il Piano di Zona in discussione è figlio, sono in procinto – se tutto va secondo i piani – di lasciare il ristretto campo cittadino per abbracciare più vasti orizzonti. L’assessore alle Politiche Sociali e Cultura della Salute Pierfrancesco Majorino è candidato per il PD al Parlamento Europeo, mentre il meno mediatico Giovanni Fosti, Professore Associato della Scuola di Direzione Aziendale della Bocconi e del Cergas dove insegna “Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche”, nonché punto di riferimento tecnici della riforma del 2012, è tra i candidati di punta per la successione al “grande vecchio” Giuseppe Guzzetti alla presidenza di Fondazione Cariplo.
Che succederà al welfare milanese ora che i suoi riformatori lasceranno la città? Certo, non la abbandonerebbero del tutto: l’assessore lascerebbe un presidio politico-amministrativo forte, mentre il tecnico andrebbe a guidare una delle due fondazioni filantropiche più ricche e potenti d’Italia, con un ruolo centrale nel sistema bancario nazionale e internazionale (Fondazione Cariplo è la seconda azionista di Intesa Sanpaolo e ha erogato nel 2018 contributi per 183 milioni di euro). E tuttavia una stagione si chiude, all’interno della più ampia stagione del governo di centrosinistra di Milano iniziato nel 2011 con Pisapia e continuato dal 2016 con Sala (e senza più Rifondazione Comunista).
Vale dunque la pena di tornare sulla riforma del welfare milanese approvata in consiglio comunale più di sei anni fa, per riflettere sui suoi contenuti e sulla sua eredità specifiche ma anche più in generale sul sistema di governo che l’ha generata.
Tutta la Milano possibile! Parliamo della riforma, ma quale riforma? La riforma del welfare cittadino di Milano approvata dal Consiglio Comunale alla fine del 2012[1]! Certamente sconosciuta ai più, si è tuttavia da subito presentata come epocale e ha in effetti avuto l’ambizione di cambiare profondamente il sistema di welfare locale.
Attorno a questa operazione è stata costruita una campagna di comunicazione massiccia e senza precedenti nel settore: “forum” che a cadenza annuale per otto anni, nel corso di una settimana, presentavano in diversi luoghi della città buone pratiche in corso e visioni per il futuro[2]. Le politiche sociali uscivano dal ghetto per aprirsi alla città e per coinvolgerla, sotto l’egida di uno slogan che visto da chi ne è rimasto escluso o si è rifiutato di parteciparvi, suona assai totalitario: “Tutta la Milano possibile”. E gli altri? E i non invitati? – si chiede chi resta fuori. È forse la Milano impossibile? Fatto sta che all’interno dei tanti forum, irrimediabilmente organizzati in tavoli, a volta perfino rotondi, e in formato “dicci la tua in cinque minuti” come in una puntata del vecchio “Vieni via con me” a marchio Endemol, si sono susseguiti dirigenti comunali e del terzo settore, accademici e consulenti del welfare per dire che la riforma era bellissima (bastava ce ne fosse un po’ anche per loro). Sarebbe bello poter elencare ricerche, dibattiti e confronti tra posizioni diverse sollevate dall’università e da altri centri di ricerca presenti in città o ancora dagli enti del terzo settore che lavorano tutti i giorni sul campo come si suol dire. E invece bisogna registrare un silenzio pressoché generalizzato. Pochissimi tentativi di analisi seria, pochissime voci critiche[3].
Sulla riforma, nel metodo. Sotto la patina della partecipazione dal basso, la riforma ha confermato la precedente impostazione di Piano di Zona unico per tutta la città, da sviluppare attorno a un grande documento di indirizzo caratterizzato da un mix tra registro politico (il terreno dell’assessore: le politiche sociali come luogo dei diritti) e tecnico (il terreno dell’economista: ogni discorso politico neutralizzato nel registro dei numeri e della necessità che questi indicano).
Dunque il processo di “ascolto della comunità e degli stakeholder” si è svolto in una cornice saldamente in mano al Cergas Bocconi e alla sua visione della New Public Governance (di cui diremo) e la “partecipazione” si è svolta lungo i rodati binari di un ascolto senza impegno delle voci dal basso e della negoziazione a porte chiuse con gli attori di secondo livello della cooperazione sociale: la partecipazione come rito, la cooptazione come sostanza[4].
Di più: il passo decisivo per l’attuazione della riforma, con la realizzazione della piattaforma online per cull’informazione, la pubblicizzazione e l’acquisto di servizi e l’apertura dei “punti di accesso WEMI diffusi sul territorio”, è avvenuta nel quadro di un progetto finanziato da Fondazione Cariplo, nel cui comitato di indirizzo già sedeva lo stesso Fosti.
Al di là dello spettacolo della partecipazione, la politica milanese sul welfare del decennio in corso si è dunque costruito in uno spazio, politico e discorsivo, stretto e delimitato dal Partito Democratico cittadino, la Fondazione Cariplo e il Cergas Bocconi, con l’inclusione di alcuni fedelissimi attori della cooperazione sociale. Politica e tecnica nella loro peggior declinazione: dirigismo partitico da un lato, impostazione tecnocratica dall’altro.
Sulla riforma, nel merito. Nel merito la riforma esprime l’approccio, fatto proprio dalla Bocconi, della New Public Governance: il futuro dell’amministrazione pubblica è il management delle reti e delle collaborazioni tra privati (imprese, famiglie, associazioni, individui, tutti sullo stesso piano)[5]. Bisogna saper incoraggiare, dirigere e favorire, nel modo meno direttivo possibile, le risorse private che si muovono nella città (o “nella comunità” come oramai è uso dire[6]). La maggior parte delle risorse economiche per il welfare sono nelle mani dei cittadini attraverso i trasferimenti economici pubblici (INPS in primis) e dunque il Comune non deve affannarsi a costruire servizi per tutti ma piuttosto per gli ultimi, e invece favorire la strutturazione di un mercato del sociale per gli altri, dai penultimi in su. È un approccio gradito alle amministrazioni locali e regionali di ogni colore e il Cergas non manca di venderlo, dalla Lombardia all’Emilia.
In questa prospettiva la riforma si proponeva principalmente due cose: 1) riorganizzare a costo zero i servizi sociali pubblici; 2) strutturare un mercato privato dei servizi di welfare per le cooperative sociali, soprattutto le più grandi, con un legame sempre più strumentale con un territorio (un processo incoraggiato a partire dai criteri per l’accreditamento introdotti con la riforma). E così i servizi ora si articolano su due livelli di accesso: il primo, accessibile a tutti, che screma chi ha diritto e chi no e il secondo che, nel retroscena, annaspa in cronica insufficienza di risorse (non è bastato che l’assessore difendesse, come gli va dato atto di aver fatto, il budget dell’assessorato)[7]. Non si parla più di “settori di intervento”, che era troppo statalista e burocratico, ma di “linee di prodotto”, che invece fa molto impresa sociale: i cittadini – grazie anche al portale online a marchio Fondazione Cariplo – possono finalmente comprare il prodotto che più apprezzano[8]: in uno dei tanti Forum, il nostro tecnico l’aveva detto: “possibile che se vado al supermercato a fare la spesa mi posso scegliere la frutta pezzo a pezzo e quando ho bisogno di servizi sociali devo prendermi un pacchetto pronto?” E allora perché non bersi una birretta mentre si cerca la badante? I punti WEMI sul territorio vi aspettano!
Lavoratori! E per chi lavora nel sociale come è cambiata la città? C’è una piccola storia che racconta tante cose. Estate 2013. Sotto la spinta del rischio di brutale taglio ai fondi comunali dei Centri Diurni (poi effettivamente ridimensionati anche se non nella misura temuta), nasce la Rete Operatrici e Operatori Sociali – Milano[9]. Un presidio e una serie di altre iniziative di informazione e sensibilizzazione, un diffuso senso di insoddisfazione e preoccupazione per le condizioni di lavoro dell’intero settore condiviso da centinaia di lavoratori, la voglia di prendere in mano la propria condizione di lavoratori sociali, per sé e per i cittadini con cui si lavora. L’iniziativa tocca nel vivo il sistema di governance cittadina: i presidenti di molte cooperative incoraggiano i lavoratori a “farsi sentire” perché “noi stiamo ai tavoli ma non possiamo esprimerci liberamente” (a proposito dei metodi partecipativi); l’assessorato e i suoi più fedeli dirigenti di terzo settore si adoperano per far rientrare la protesta; presto anche i presidenti che incoraggiavano invitano a più miti consigli; i sindacati balbettano. Piccola breccia nel grigio consenso arancione, la Rete continua ad esistere sei anni dopo ed è uno dei pochi, fragili e preziosi punti di riferimento per gli operatori sociali che in città vivono difficili condizioni lavorative e provano a resistere e far conoscere la propria voce. Nel corso degli anni sono stati molti i lavoratori del sociale che, individualmente o in gruppo, hanno condiviso la propria condizione di precarietà e sfruttamento: vicende terminate con cause legali, azioni sindacali, presidi di solidarietà ma anche licenziamenti, isolamento e mobbing nei posti di lavoro. Su tutto questo, a ogni richiesta di intervento e tutela, la risposta, non solo nel capoluogo, è sempre che “il Comune non ha titolo di intervenire perché si tratta di rapporti di lavoro privati tra cooperative e lavoratori”[10].
Eppure, nella sua riforma, il Comune si proponeva anche di creare le condizioni per migliorare le condizioni di lavoro, soprattutto per il terzo settore in cui, si riconosceva, il pubblico ha (…) sospinto i produttori verso compressioni sempre più marcate dei salari e dei diritti contrattuali dei lavoratori, chiedendo prezzi di produzione sempre più contenuti e agevolando meccanismi di auto-sfruttamento nel mondo del sociale. Diversi altri passaggi del Piano richiamavano lo stesso problema e annunciano soluzioni nel ricalcolo delle tariffe, nella revisione dei modi e tempi delle gare d’appalto fino all’elaborazione di una tariffa. Non risultano ad oggi iniziative nella direzione indicata e la bozza del nuovo Piano non nomina nemmeno il problema.
Cosa resta? La fortuna! Così sono passati gli anni e la riforma del welfare ha portato fortuna ai suoi promotori che, forti di questa stagione di “innovazione” e “sperimentazione”, ci lasciano – ma solo per prepararsi a governarci da un gradino più in alto.
Cosa resta in città?
Certo i mille progetti nuovi, insieme ai mille cessati, interrotti, “non sostenibili”. Certo una nuova energia. Un po’ più a fondo, almeno tre cose.
Intanto il fatto che – alla faccia del nuovo mantra della misurazione dell’impatto sociale – sei anni dopo l’avvio della riforma, si discute di tutto tranne che di dati e risultati valutabili. Tanto il mondo accademico quanto quello della consulenza privata si tengono al riparo, elencano le buone pratiche, si fanno finanziare qualche nuova azione innovativa. Del Terzo Settore, non parliamo. E qua viene un punto politico più generale spesso in ombra: la Milano del Centrosinistra come città di conformismo. Un conformismo che, già evidente nel ventennio di dominio della destra, e ancora prima nella Milano da bere, continua a caratterizzare la città e la sua cultura politica. Un conformismo diverso, certo: smart, radicato attorno a nuove parole d’ordine e nuovi luoghi fisici della città – il conformismo dei co-working e degli incubatori di impresa, degli avvocati progressisti del centro e, nel più ristretto campo del welfare, degli innovatori e degli imprenditori sociali.
In secondo luogo un intreccio tra pubblico e privato difficile da districare, non solo nella pratica e in quella che si chiama “erogazione” dei servizi ma ancora prima nella loro concezione e produzione istituzionale: welfare di comunità, coesione sociale, generatività, innovazione sociale, housing sociale sono solo alcuni tasselli della melassa linguistica e culturale che trasuda dai Forum e dai discorsi cittadini sul welfare[11]. Una melassa funzionale alla digestione della prolungata austerità dell’ultimo decennio, particolarmente dura per gli enti locali: se lo Stato, e ancora meno il Comune, non ha soldi, la salvezza verrà dalla capacità di attrarre capitali privati, in diverse vesti (imprese, imprese sociali, fondazioni, famiglie e individui che donano denaro o che comprano servizi) e di coordinarli al meglio.
Infine, il filo rosso: una patina luccicante, conformista ed edificante (parliamo pur sempre di iniziative per i poveri e le periferie) che si presenta come “tutta la milano possibile” attorno a cui nascono e crescono piccole e grandi clientele politiche e interessi privati per il mercato del welfare. C’è pur sempre però qualcuno per cui il gioco non funziona, spettatore esausto del welfare-spettacolo: i tanti abitanti della città che continuano a dipendere dai servizi pubblici che faticano a prendere in carico anche le situazioni più pesanti o che aspettano la sostanza dei diversi “rilanci delle periferie”, le realtà dell’intervento sociale che cercano disperatamente una guida pubblica affidabile per il proprio lavoro, i lavoratori del sociale che continuano a tenere in piede spazi e servizi di relazione in condizioni di lavoro spesso inaccettabili.
Verrebbe da scoraggiarsi e intristirsi ricordando le speranze del maggio 2011, ma una nuova fase inizia e Milano è pur sempre la città delle mille possibilità! Basta darsi da fare e la fortuna girerà!
Note
[1]https://www.secondowelfare.it/enti-locali/il-piano-di-sviluppo-del-welfare-della-citta-di-milano.html
[2]https://wemi.milano.it/milanofamiglie/al-via-lottavo-forum-delle-politiche-sociali/
[3]Nello specifico dei Forum, e all’interno di una visione più generale va ricordato il lavoro di Franca Caffa e del Comitato Inquilini Molise-Calvairate-Ponti: http://www.arcipelagomilano.org/archives/16710Ee quello della Rete Operatrici e Operatori Sociali: https://operatorisociali.noblogs.org/post/2014/01/24/forum-politiche-sociali/
[4]Per una panoramica sociologica sul tema: Giulio Moini, Teoria critica della partecipazione, Milano, Franco Angeli 2013
[5]Giovanni Fosti, Rilanciare il welfare locale, Milano, Egea, 2013
[6]http://www.fondazionecariplo.it/it/progetti/servizi/welfare-di-comunita/index.html
[7]Perfino una CGIL fedele alla linea ha avuto dei sussulti: http://www.milanox.eu/servizi-sociali-black-out-in-comune/
[8] wemi.milano.it
[9]milanoinmovimento.com/milano/milano-tagli-al-sociale-la-mobilitazione-degli-operatori
[10]operatorisociali.noblogs.org/carta-identita/. Alcune delle iniziative e mobilitazioni intraprese negli anni si trovano negli archivi del blog. La rete si trova anche su FB: https://www.facebook.com/profile.php?id=100006150971297
[11]Un breve e ricchissimo testo, ancora attuale dopo vent’anni, per provare a districarsi in questa melassa è quello di Ota de Leonardis, In un diverso welfare, Milano, Feltrinelli 1998