Note a margine de Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo, a cura di Federico Zappino, ombre corte, Verona 2016

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Cosa significa oggi, ai tempi dell’avanzata dell’ideologia gender

[1] e, al contempo, del dominio dell’ideologia neoliberale, rivendicare con orgoglio di essere “ideologici”? Significa, forse, non rassegnarsi alla speranza di disfare gli apparati egemonici del presente, dando così la possibilità a nuove soggettività e a nuove forme di vita-in-comune di emergere e di divenire leggibili. Questa mi pare la direzione suggerita dal volume di saggi curato da Federico Zappino, Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo, che parte da una questione assolutamente cruciale per la comprensione degli attuali sviluppi dell’era biocapitalista in cui viviamo, ovvero quella del “desiderio”.

Una questione cruciale anche per alcuni degli autori che ispirano il percorso tracciato da Zappino nella sua introduzione al volume; penso alla Butler di Subjects of Desire, o ai lavori di Dardot e Laval. Judith Butler ci ricorda che il soggetto è, hegelianamente parlando, sempre un “soggetto di desiderio”, poiché è un individuo la cui esistenza sociale diviene possibile solo grazie al riconoscimento che l’Altro gli conferisce – che si tratti dell’altro “concreto” o delle norme sociali da cui ciascuno di noi è costitutivamente dipendente. Pierre Dardot e Christian Laval d’altra parte, hanno a più riprese sostenuto (non ultimo, anche in Guerra alla democrazia. L’offensiva dell’oligarchia neoliberista[2]) che il neoliberismo non è solo un’ideologia economica, ma è una rivoluzione antropologica che soggiace al processo di produzione delle soggettività. Il compito che spetta a coloro che cercano di resistere al suo imperialismo consiste quindi, in primis, nell’interrogarsi al livello dei propri desideri; nell’analizzare, cioè, quanto ciascuno di noi si trovi in una condizione di «attaccamento appassionato»[3] ai suoi ideali normativi. La logica di sviluppo del capitale, «del suo divenire-mondo», in tal senso non si spiega solo alla luce di una serie di interventi politico-istituzionali o di un’ingente produzione di leggi, ma anche di un costante lavoro di rappresentazione simbolica; una messa in forma simbolica che è in grado oggi di fare di ogni aspetto della vita di un individuo, compresi i suoi gameti e i suoi organi riproduttivi, una fonte di plusvalore[4].

Questo nuovo homo oeconomicus, assai diverso da quello di cui parlava Adam Smith più di due secoli fa, è oggi un individuo che si percepisce nei termini di capitale umano finanziarizzato; un individuo, cioè, che vive con l’angoscia costante di accrescere il proprio credit rating al fine di attrarre nuovi investitori[5] e che, con le parole di Cristina Morini, è sempre pronto a «ripudiare tutti gli ancoraggi e […] a cambiare una molteplicità di contesti e relazioni»[6] in vista di una futura occupabilità. Quello a cui assistiamo, dunque, è sia un cambiamento politico nelle modalità di governo della popolazione sia una trasformazione che coinvolge sempre di più il piano dell’immaginario. È grazie a questo dominio simbolico infatti che il neoliberismo assurge ormai a “senso comune”, da un lato circoscrivendo preventivamente il campo di possibilità in cui può darsi una determinata proposta politica[7] (basti pensare – come ci ricordano Bruna Mura, Caterina Peroni e Camilla Veneri – alle resistenze che ancora oggi incontra l’idea di un reddito di autodeterminazione sganciato dal lavoro: un reddito di (r)esistenza che assume oggi un ruolo sempre più strategico, nella misura in cui sono ormai i corpi, le emozioni, le relazioni individuali a essere diventati «i terreni dello sfruttamento biopolitico al quale tutte partecipiamo in qualche modo, senza essere pienamente consapevoli e soprattutto senza individuare la dimensione non solo collettiva ma generalizzata di questo dispositivo»[8]); dall’altro, inglobando in sé tutte le ideologie in concorrenza sul mercato, comprese quelle che sembrano a prima vista le più distanti da esso.

È proprio lungo questo crinale che si innestano, ad esempio, tutti i processi di inclusione differenziale delle minoranze, come il pinkwashing o il diversity management, i quali, nell’analisi proposta da Renato Busarello[9], portano i soggetti Lgbt a essere subalterni all’economia della promessa del sistema capitalistico (perché, nelle condizioni date, sembra che la salvezza e il riconoscimento possano venire solo dal mercato e dai suoi processi di messa a valore). Un’inclusione differenziale che si inscrive all’interno del più ampio progetto sociale neoliberale di pervenire, attraverso la naturalizzazione delle gerarchie, a una de-politicizzazione del conflitto, a una privatizzazione degli affetti (la cui desiderabilità è ben esemplificata dai rassicuranti manifesti omonazionalisti della campagna Svegliati Italia del gennaio scorso a favore del ddl Cirinnà, oggetto di un’attenta lettura critica da parte di Alessia Acquistapace, Elisa A.G. Arfini, Barbara De Vivo, Antonia Anna Ferrante e Goffredo Polizzi[10]) e a un rafforzamento degli assi portanti della società eterosessuale. La norma eterosessuale, infatti, tanto nelle retoriche della “rispettabilità” matrimonialista quanto nelle politiche aziendali delle multinazionali volte a estendere i benefici a chi prima non ne aveva diritto, non viene in alcun modo messa in discussione. Anzi, dietro l’argomento della lotta per il riconoscimento e del contrasto all’omofobia, si producono nuove esclusioni nei confronti delle esistenze queer più marginali[11], alle quali è spesso del tutto precluso il godimento di questi nuovi diritti: o perché si tratta di soggetti privi di qualsiasi livello minimo di reddito, oppure perché si tratta di soggetti che performano il proprio genere in maniera troppo eccentrica rispetto ai parametri di accettabilità e di inclusione dell’ordine cis-etero-normativo[12]. In altri termini, ciò che a molti sembra sfuggire – e su cui invece il libro insiste – è che se i processi di inclusione differenziale diventano possibili e desiderabili è proprio perché sussiste una cornice culturale di riferimento fondamentalmente eteronormativa, che persiste nonostante il neoliberismo proceda per “inclusione” e il neofondamentalismo, invece, per “esclusione”.

Pertanto, se è vero che il neoliberismo comporta sempre una dimensione di immaginario (e di desiderio), allora l’unico strumento che abbiamo per non rimanere condannati all’impotenza è di ricercare nuovi immaginari di resistenza[13], poiché «per far nascere il desiderio di trasformare il mondo non serve altro che la potenza di un immaginario»[14]. Interrompere il circolo vizioso che intercorre tra neoliberismo e neofondamentalismo, dunque, diviene possibile solo se siamo disposti a maturare in noi stessi un’imprescindibile capacità di disidentificazione[15] o di disassoggettamento[16] dai regimi di verità consolidati, creando – attraverso una serie di atti collettivi e performativi di rifiuto/sciopero dalle istituzioni, dai generi e dal sistema economico – uno spazio autonomo che sia al contempo una comunità che si sostiene e un luogo di contro-potere. Un luogo sicuro da cui intraprendere un lavoro di teoria e prassi volto – come scrive Gianfranco Rebucini – a liberare i soggetti «dalle configurazioni egemoniche identitarie del presente» e di giungere a «una catarsi rivoluzionaria del soggetto desiderante»[17].

Questa reinvenzione delle pratiche politiche a partire da quella che Dardot e Laval chiamano la logica del comune[18], come può, tuttavia, resistere alla potenza della crisi e alla logica emergenziale del suo dispositivo? Se è indubbiamente vero che spesso dalla “crisi” può nascere la “critica”, cioè quell’«eccedenza di senso in grado di disfare il mondo» e di dar vita a «nuove forme di vivibilità»[19], c’è anche un altro aspetto da considerare e cioè che la crisi è un formidabile strumento di governo della razionalità politica neoliberale. La nozione di “crisi” ai nostri giorni ha perso infatti qualsiasi carattere di transitorietà ed è giunta ormai a indicare uno stato di incertezza permanente che si estende indefinitamente al futuro, legittimando decisioni politiche ed economiche «che di fatto privano i cittadini di qualsiasi possibilità di decisione»[20]. In nome della crisi (dei debiti sovrani) si ricattano, ad esempio, i governi democraticamente eletti – basti pensare al caso greco – ad accettare misure di austerity che trasferiscono risorse dai ceti più poveri a quelli più ricchi e che mettono all’indice chiunque cerchi di contravvenire ai programmi di flessibilizzazione del mercato del lavoro o di tagli al welfare[21]; in nome della crisi (del terrorismo) le liberal-democrazie europee proclamano continuamente nuovi “stati di eccezione” e sfruttano la paura di imminenti attentati per attuare un controllo illimitato sulla popolazione, attraverso la sospensione delle garanzie previste dalle Costituzioni[22]; in nome della crisi (di immaginario) il neoliberismo beneficia ormai di un’incondizionata legittimazione, ponendosi come l’unica e sola modalità razionale di governo dell’esistente[23] e riuscendo paradossalmente, nonostante l’ampio discredito di cui gode presso ampi strati della popolazione, a rafforzarsi sempre di più[24].

Può, dunque, la disidentificazione/critica sopravvivere a tutto questo? Soprattutto quando vengono a mancare, anche a causa di una politica degli sgomberi che in Italia sembra ormai andare per la maggiore, gli spazi fisici in cui tale lavoro di resistenza dovrebbe essere messo in atto?

Ne Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo una possibile risposta a queste domande ci è offerta, a mio avviso, dall’intervista di Federica Castelli a Judith Butler, Cosa possono fare i corpi insieme? A un certo punto dell’intervista, Butler, riflettendo sulle potenzialità e sui limiti dell’esperienza del movimento Occupy, afferma:

[…] io tengo ferma questa idea delle relazioni di sostegno, al centro di ogni narrazione di resistenza, perché si tratta di una domanda che si ripresenta puntualmente: come meglio sostenerci l’una con l’altra mentre resistiamo? Penso che il movimento Occupy abbia provato a insistere su entrambi gli elementi, ma […] dal momento che questi assembramenti pubblici sono stati velocemente dispersi dall’azione delle forze dell’ordine, essi hanno dovuto ricostituirsi come reti […] E quindi ovviamente accade che alcune delle persone che erano in prima linea, tornano a casa, tornano ai propri studi, al proprio lavoro, e altri vanno avanti, verso le prime linee e la rete si ricostituisce. Deve esserci una pratica ricostituente. Altrimenti non può funzionare.[25]

Butler solleva qui una questione ben nota agli studiosi del fenomeno delle occupazioni di piazza, ovvero quella della necessità per questi movimenti di mantenere una continuità anche dopo che il momento della rivolta[26] è definitivamente venuto meno. Una continuità[27] che non va intesa ovviamente come l’anticamera di un processo di istituzionalizzazione, ma come il mantenimento nel tempo di una rete collettiva – e corporea – di mutuo sostegno. Il ché equivale ad affermare una verità in apparenza scontata, ma che è in realtà reiteratamente “forclusa” dall’immaginario neoliberale: da soli non ci si salva. Se il neoliberismo cerca continuamente di indurci a fare affidamento soltanto su noi stessi, sulla nostra autosufficienza (in un contesto in cui, peraltro, la possibilità di divenire autosufficienti è irrimediabilmente messa a repentaglio dalle misure di precarizzazione economica e sociale[28]), una politica di resistenza che punti alla trasformazione dell’identità e dei desideri potrà avere successo dunque solo se saremo in grado di espandere la nostra rete di solidarietà sociale. Pensare in modo “ideologico”, in altri termini, ancor prima dell’articolazione di nuove “catene di equivalenze” o di nuovi “significanti vuoti” attraverso cui universalizzare strategicamente l’antagonismo degli oppressi in direzione di una sovversione del sistema[29], richiede oggi una presa di distanza critica da quello che è lo strumento cardine della gestione neoliberale della crisi: la distruzione del legame sociale e l’induzione di una condizione di generalizzata solitudine.

NOTE

[1]             D. Ardilli, F. Zappino, La volontà di negare. La teoria del gender e il panico eterosessuale, in «il lavoro culturale», 14 luglio 2015, http://www.lavoroculturale.org/la-volonta-di-negare/.

[2]             P. Dardot, C. Laval, Guerra alla democrazia. L’offensiva dell’oligarchia e neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2016.

[3]             J. Butler, La vita psichica del potere. Teorie del soggetto, a cura di F. Zappino, Mimesis, Milano 2013.

[4]             A. Balzano, Le conseguenze dell’amore ai tempi del biocapitalismo. Diritti riproduttivi e mercati della fertilità, in F. Zappino (a cura di), op. cit., p. 110.

[5]             W. Brown, Undoing the Demos. Neoliberalism’s Stealth Revolution, Zone Books, New York 2015, p. 33.

[6]             C. Morini, Femminismo e neoliberismo, in F. Zappino (a cura di), op. cit., p. 139.

[7]             P. Dardot, C. Laval, Guerra alla democrazia, cit., p. 59.

[8]             B. Mura, C. Peroni e C. Veneri, Gender Strike! Il Tariffario del lavoro gratuito, in F. Zappino (a cura di), op. cit., p 163.

[9]             R. Busarello, Diversity management, pinkwashing aziendale e omo-neoliberismo. Prospettive critiche sul caso italiano, in F. Zappino (a cura di), op. cit., p. 78.

[10]           A. Acquistapace, E. A. G. Arfini, B. De Vivo, A. A. Ferrante, G. Polizzi, Tempo di essere incivili. Una riflessione terrona sull’omonazionalismo in Italia al tempo dell’austerity, in F. Zappino (a cura di), op. cit., pp. 61-73.

[11]           F. Zappino, Sovversione dell’eterosessualità, in F. Zappino (a cura di), op. cit., p. 192.

[12]           O. Fiorilli, Giustizia è fatta? Lavoro, soggettività e riconoscimento ai tempi del neoliberismo, in A. Simone, F. Zappino (a cura di), Fare giustizia. Neoliberismo e diseguaglianze, Mimesis, Milano 2016, p. 197.

[13]           B. Casalini, Governo neoliberale dei corpi disabili e immaginari di resistenza, in F. Zappino (a cura di), op. cit., pp. 86-96.

[14]           P. Dardot, C. Laval, Guerra alla democrazia, cit., p. 58.

[15]           J. E. Muñoz, Disidentifications: Queers of Color and Performance of Politics, University of Minnesota Press, Minneapolis 1999.

[16]           M. Foucault, Illuminismo e critica, a cura di P. Napoli, Donzelli, Roma 1997.

[17]           G. Rebucini, Cannibalismo queer. Gramsci e le strategie di trasformazione molecolare, in in F. Zappino (a cura di), op. cit., p. 57.

[18]           P. Dardot, C. Laval, Del comune o della rivoluzione nel XXI secolo, a cura di A. Ciervo, L. Coccoli, F. Zappino, DeriveApprodi, Roma 2015.

[19]           F. Zappino, Crisi, in L. Coccoli, M. Tabacchini, F. Zappino (a cura di), Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti, Mimesis, Milano, 2014, p. 67.

[20]           La crisi perpetua come strumento di potere, intervista con G. Agamben, trad. it. a cura di N. Perugini, in «il lavoro culturale», 2 ottobre 2013, http://www.lavoroculturale.org/la-crisi-perpetua-come-strumento-di-potere-conversazione-con-giorgio-agamben/.

[21]           P. Dardot, C. Laval, Guerra alla democrazia, cit., p. 25.

[22]           G. Agamben, Guerra allo stato di diritto, trad. it. di R. Antoniani, «Il Sole 24 ore», 23 Gennaio 2016, http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2016-01-23/guerra-stato-diritto–212159.shtml?uuid=AC3pO39B.

[23]           J. Butler, A. Athanasiou, Dispossession: The Performative in the Political, Polity Press, Cambridge 2013, p. 149.

[24]           C. Crouch, The Strange Non-Death of Neoliberalism, Politiy, Cambridge 2011.

[25]           F. Castelli, Cosa possono fare i corpi insieme? Intervista con Judith Butler, in F. Zappino (a cura di), op. cit., pp. 167-168.

[26]           F. Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino 2000.

[27]           «[…] the ultimate aim would be to create local assemblies in every town and neighborhood, as well as networks of occupied dwellings, occupied workspaces, and occupied farms that can become the foundations of an alternative political and economic system» (D. Graeber, The Democracy Project: A History, a Crisis, a Movement, Allen Lane – Penguin 2013, p. 261).

[28]           J. Butler, Notes Towards a Performative Theory of Assembly, Harvard University Press, London 2015, p. 25.

[29]           E. Laclau, C. Mouffe, Egemonia e strategia socialista. Verso una politica democratica radicale, Il Nuovo Melangolo, Genova 2011.

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