Riavvolgendo il nastro

Afrin, regione siriana di Iblid. L’avanzata dell’esercito turco provoca centinaia di migliaia di sfollati. Un nuovo archivio d’immagini dell’esodo: la foto del bambino nella valigia. Poi, i bombardamenti. Jacopo che, dalle strade curde, ci informa della situazione. Ancora bombardamenti. La notte e i silenzi, il mattino e le macerie. Millecinquecento morti, forse di più. Razzie, violenze. Stupri. La statua di Kawa abbattuta. Il terrore negli occhi di un uomo, che vaga, circondato dai fucili turchi. Esecuzioni in pubblico, una dopo l’altra. L’Europa volta lo sguardo. Gli Usa dicono che il territorio non è di loro competenza. La Russia attende. Afrin non è caduta, Afrin resiste. Sarà guerriglia, annuncia Hadia Yousef. Saltano in aria dei mezzi turchi, colpiti da un razzo. Sono uccisi numerosi jihadisti e militari dell’esercito turco. Decine gli arresti da parte delle YPG.

Di qui, in poi, si aggiungeranno altri eventi. Ma questa non è una cronaca. Né il tentativo di fornire un’analisi geopolitica della situazione. Perché Afrin non è solamente una questione curda. Non può esserlo. Afrin, come prima Kobane, è una frattura nella storia, una discontinuità nella geografia, una crepa nell’immaginario. La mia domanda è: ‘quanto può essere vicina a noi, Afrin?’. È proprio per questa prossimità, e non per un calcolo meramente ideologico, che dovremmo rileggere la rivoluzione in Rojava. Essa rimette in discussione la spartizione dell’area tra Usa, Russia, Turchia e Iran. Come scrive Lorenzo Trombetta, fin quasi dall’inizio della crisi siriana, le forze curde locali, col sostengo del Pkk, si sono ritagliate un’autonomia di fatto, sia politica sia militare. È una rivoluzione che coinvolge donne e uomini da ogni dove, come avvenne per le brigate internazionali durante la guerra di Spagna. Ma in quel caso, il nemico aveva un nome e una posizione. Oggi, invece, molteplici soggetti e relativi rapporti di potere si sovrappongono, costruendo un’intelaiatura mobile e in continua ridefinizione del capitalismo globale. Proprio per questa visione d’insieme, diremmo globale, quanto accade nel nord della Siria riguarda l’Europa non solamente come entità politica, fatta di stati e organismi sovranazionali, ma come individui, gruppi e soggettività all’interno dei confini del Vecchio Continente.

In un’intervista, rilasciata a Fabrizio Lorusso di Carmilla, Davide Grasso parla di sé, prima della partenza per andare a combattere nelle YPG. “Non ho mai avuto un unico lavoro – racconta – sono stato prima studente e poi dottorando. Ho lavorato con cooperative di pubblicità e sociali, e anche con collaborazioni part-time con l’università. Prima di partire ero operatore sociale a Torino con i senzatetto e i disabili”. In continuità con la sua militanza politica, Davide decide di andare a combattere l’Isis in Rojava (Hevalen, Alegre 2018). Come lui tantissimi altri, arrivati da ogni parte del mondo. Il suo racconto si colloca, cioè, in un quadro ben più ampio e  rivela, proprio a partire dai dati biografici, dalle condizioni di vita in Europa e delle scelte personali, una geografia della crisi come momento rivelatore e di rottura, in cui soggettività disgregate e disperse dall’incessante trasformazione del capitalismo, riescono ad unirsi e ad agire, a combattere insieme. Intendo questo processo in due prospettive: quella di chi ha deciso di lottare in Rojava; ma anche quella di coloro che, a migliaia di chilometri di distanza, sentono la rivoluzione del popolo curdo connessa alle proprie battaglie, combattute su altri fronti e con altre pratiche. Ecco, queste simmetrie parlano di un mondo globale in movimento e chiedono una presa di posizione, ciascuno a suo modo e nei territori che attraversa.

Europa, la linea; Afrin, la traccia

Collochiamo l’Europa ad Afrin, ossia smontiamo i confini della modernità, e osserviamo le contradizioni. Primo, lo spazio è il prodotto delle relazioni (network, connessioni, scambi, ecc.); secondo, lo spazio è caratterizzato della molteplicità – ossia, la coesistenza di più elementi contemporaneamente; terzo, lo spazio è sempre un processo ‘in costruzione’, nel senso dell’indeterminatezza e continua riformulazione dei fenomeni sociali. Intorno a queste tre regole, che trasformano quelle proposte da Henri Léfebvre, Doreen Massey problematizza la ‘geometria del potere’ (2005), rivelando come ogni geografia è politica, ossia è il prodotto di rapporti egemonici tra soggetti. Applicando queste lenti interpretative, la ragione cartografica (Farinelli 2009) e il suo storicismo sono rimessi in discussione. Recuperando un dibattito iniziato con gli scritti di Michel Foucault, Massey parla anche al presente e smonta le intelaiature teoriche su cui si articolano le mappe, la geografia, l’immaginario politico, la produzione di spazio.

Proviamo ad applicare le suggestioni di Massey al contesto siriano. Se Afrin e l’intera rivoluzione in Rojava sono una traccia costruita forzando la griglia globale dello spazio politico, allora è necessario usare questa soglia per spostamenti di significato che connettano soggettività e territori. In altre parole, intendere questo confine come metodo (Mezzadra Nielson 2014) significa mostrare la sovrapposizione di quei soggetti locali, nazionali e sovranazionali che premono sul territorio curdo; ma vuol anche dire raccontare la resistenza come processo culturale, ossia un spazio problematico per l’intera geografia ufficiale. Quanto sopra significa realizzare uno spostamento di significato che eccede la governamentalità (Foucault 1978). Tale questione è stata teorizzata in molteplici prospettive: quella dalla critica femminista, attraverso le figurazioni come pratica politica (penso a Anzaldúa, Haraway, Trinh Minh-ha, ecc.), quella degli studi culturali con riarticolazioni del pensiero critico fuori dal contesto originario – mi viene in mente, per esempio, la rilevanza di Antonio Gramsci e Jacques Derrida per Stuart Hall.

Attraverso queste partiche è possibile problematizzare il canone ed elaborare uno sguardo che sveli le genealogie dei rapporti di potere. La norma, a quel punto, appare nella sua violenza perché, prima di tutto, è un artefatto condiviso, adottato e reiterato con la legge, la morale, il senso civico, l’idea di civiltà e modernità, lo sviluppo economico. Ma è anche fittizia perché risultato di narrazioni e pratiche che solo apparentemente sembrano omogenee, coese, coerenti. Governare la complessità è possibile solo attraverso la differenza come opposizione di senso che rimanda alla e reitera la norma. Potremmo parlarne in molteplici modi: l’eteronomatività, l’umanesimo e la centralità dell’Europa, la linea come soglia immaginata per proteggere il territorio (la nazione, lo stato, il popolo, ecc.), il mito di un’Europa come contesto omogeneo e coeso dominato da singoli poteri nazionali, come spazio precostituito (Beck & Grande 2007).

La mia proposta, quindi, è di portare l’Europa in Rojava, in quella frattura nella storia e della geografia liscia globale che continua a vivere e a produrre significati, nonostante il silenzio del mondo e le violenze turche e islamiste.

Diritti, pace e civiltà, ossia il loro contrario

250.000 persone in fuga dalla Turchia e dalle truppe islamiste. Sono curdi, armeni, arabi, siriani, assiri. 1500: è il numero dei combattenti curdi morti da quando è iniziata l’operazione Olive Branch. Oltre 300 sono i civili che hanno perso la vita sotto i bombardamenti e durante le esecuzioni sommarie ad opera dei turchi/islamisti. Numeri che non impensieriscono minimamente gran parte delle democrazie europee: a parte la Francia di Macron, tutte rimangono a guardare. Per Erdogan, quella in corso, è un’operazione antiterrorismo contro le formazioni curde. Le stesse che combattono, ormai da anni, contro i gruppi affiliati all’Isis. Non solo, l’operazione militare turca è stata realizzata in coordinamento con fazioni islamiste. Infatti, come hanno mostrato alcune fotografie scattate ad Afrin, l’esercito turco è comparso al fianco delle bande jihadiste. Quindi, potremmo dire che Erdogan è alleato di gruppi che, nel Vecchio Continente, si definirebbero terroristi o islamisti. Prima dei recenti fatti, proprio il confine della Turchia era la via d’accesso attraverso cui da tutto il mondo affluirono, si stima, 40.000 combattenti pronti a schierarsi sotto il vessillo nero dell’Isis. Ecco l’incoerenza di un’Europa che ha sfilato compatta contro il terrorismo, al grido ‘Je suis Charlie’, ma che poi è divenuta alleata della Turchia, lasciandole carta bianca in termini militari e geopolitici. O forse l’incoerenza, nel calcolo politico, si chiama convenienza, opportunità e mancanza di prospettive.

Il silenzio dell’Europa ha una ragione: la Turchia gestisce il controllo dei flussi migratori orientali. Ankara ha ricevuto, proprio per questo motivo, 6 miliardi di euro da Bruxelles. Così, l’immaginario dell’immigrato-islamista che in Europa è usato dai movimenti xenofobi e populisti per generare voti, si disintegra quando osserviamo globalmente il fenomeno. Da un lato l’Europa finanzia profumatamente la Turchia per il controllo dell’immigrazione; dall’altra, è lo stesso Erdogan a creare centinaia di migliaia di profughi. Le bande islamiste vengono aiutate da Ankara a discapito di chi migra.

L’Europa è responsabile di un silenzio che rimette in discussione il concetto di diritto internazionale. Si pensi al genocidio perpetrato sotto la bandiere turche; l’obbligo di conversione all’Islam che viene imposto da alcune fazioni entrate in Afrin e nel nord della Siria; lo sfollamento, dalla zona, di migliaia di persone che avrebbero diritto alla protezione internazionale. E poi violenze, omicidi e stupri. Tutti documentati. Inoltre, per controllare le migrazioni, è stato realizzato un muro di oltre 800 chilometri, a cui ha contribuito, con un finanziamento di 80 milioni di euro, anche l’Unione Europea. Erdogan non sta “solamente” accerchiando e massacrando le popolazioni: sta impedendo il diritto di fuga, la protezione internazionale.

Anche dal punto di vista meramente geopolitico, quanto avviene in Rojava è indicativo delle logiche che determinano gli accordi tra le potenze. Ankara dopo aver tentato di coinvolgere l’Europa nel conflitto abbattendo un aereo russo, in modo da sbarazzarsi di Assad grazie a un possibile intervento NATO, ha cambiato strategia. E ha stretto con Mosca un accordo, onde evitare che la rivoluzione curda prendesse la forma di uno stato nazione. Logiche, si diceva prima, in cui repentinamente possono cambiare le posizioni di chi sono gli ‘alleati’ e i ‘nemici’, che non hanno nulla a che vedere con un governo dal basso dei territori. Anzi, semmai, questo tipo di controllo è molto più simile ai domini coloniali, alla riscrittura dei territori successiva a linee tracciate su una mappa.

Le contraddizioni dell’Europa sono evidenti, sia nei silenzi, sia nel coinvolgimento dell’industria bellica nel conflitto in corso. Perché, quindi, Afrin e il Rojava sono così importanti? Perché quella traccia è una speranza, perché alle logiche delle linee, e dei loro confini che producono dicotomie, è sostituita una geografia nata dalle amministrazioni dal basso dei territori, in forme partecipate e condivise. Afrin è ovunque, questa è la vera scommessa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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