Le ipotetiche diramazioni delle normative pandemiche sono un esercizio mentale interessante, ma abbastanza noioso. In questi giorni mi ritrovo spesso a pensare cose come “come si fa a definire dove finisce la zona fieristica?”, perché nel paesino toscano dove mi trovo le bancarelle sono considerate zona fieristica, e nelle zone fieristiche secondo l’ultimo DPCM è obbligatorio portare il Green Pass. Oppure “chi è autorizzato a controllare che il Green Pass corrisponda ai miei documenti?”, davvero chiunque può fare funzione di pubblico ufficiale?

Un altro grattacapo riguarda la condizione dei vaccinati non residenti nel luogo di vaccinazione: sembra una cazzata, ma se non sei iscritto al sistema sanitario che ti ha vaccinato, ottenere il Pass è assai complicato, perché il documento è integrato col sistema di registrazione delle residenze. E non è un problema che riguarda solo le persone extraeuropee. E quelli che ho nominato sono solo alcuni dei casi singolari creati da una legislazione confusa e disorganizzata.

Ovviamente però, queste divagazioni ipotetiche non hanno nessuna utilità: l’efficacia del Green Pass non si misura a partire dal suo concreto utilizzo in ogni contesto dove è formalmente obbligatorio, né a partire dal numero di persone che “lascia indietro”. Il lasciapassare, in funzione da inizio agosto, è uno strumento di controllo e in quanto tale non funziona perché viene effettivamente controllato, ma perché ci sottopone alla possibilità di una verifica. Non funziona nemmeno perché è inclusivo, ma perché permette di nominare le soglie di esclusione, e naturalizzarle.

Ma ancora, in questo lungo preambolo per ora non ho detto niente: come tutto ciò che ci accade da un anno e mezzo, è la condizione pandemica a giustificare questa misura, quindi se si vuole gettare uno sguardo analitico, è necessario cercare di capire il cambio di paradigma che viene imposto tramite questo strumento. Cercherò di mostrare che il Green Pass comporta un cambio di prospettiva, perché fornisce una maniera di “far senso” di quella continua emergenzialità dell’epoca-covid: il Pass riesce a materializzare un’esigenza (quella del “ritorno alla normalità”) correlandola a un obbligo (per entrare qui e qua, devi avere questo documento); questa interpresa tra esigenza e obbligo, in più, si svolge su un piano assolutamente individuale, accessibile a chiunque. Se non fosse ancora chiaro, nella conferenza stampa del 2 settembre, il presidente del consiglio Draghi e il ministro della salute Speranza hanno ribadito che il Pass e gli obblighi vaccinali sono i simboli e gli strumenti con cui intendono gestire questa fase, definendo delle condotte sanitarie che sono una vera e propria morale cittadina, in grado – nelle loro intenzioni – di canalizzare le contraddizioni e le tensioni aperte da un anno e mezzo di pandemia.

Nelle righe che seguono non ho tenuto in considerazione un problema eclatante che si aggiunge agli altri ma che avrebbe richiesto una trattazione ancora più lunga: il Green Pass è uno strumento di controllo diffuso, il cui utilizzo generalizzato non possiamo ragionevolmente pensare che si limiterà al solo piano sanitario; come tanti strumenti di cui il potere si dota, anche questo potrà ben presto essere generalizzato, servire altre funzioni, più o meno politiche, più o meno repressive.

Fare senso di un’emergenza

Quello passato potrebbe non essere l’ultimo anno del Covid19, anzi al livello globale sicuramente non lo sarà, e anche nei paesi occidentali (quelli con largo accesso ai vaccini) l’incidenza futura del virus dipenderà da molti fattori impredicibili (infettività della variante Delta anche tra le persone vaccinate, emergenza di nuove varianti, ecc.). Inoltre, sembra ormai chiaro dai dati diffusi in più paesi, che questi vaccini non hanno la capacità di fermare del tutto la diffusione del virus, ma la loro diffusione resta necessaria perché capace di mitigare l’impatto sul sistema ospedaliero. Tutto fa quindi supporre che il Pass sia uno strumento gestionale destinato a restare (se entrerà in funzione in maniera soddisfacente), capace di accompagnare una pandemia che per ancora diversi anni costituirà almeno un’emergenza latente.

Il Pass in questo quadro non è soltanto un’ipotesi di gestione tecnica della campagna vaccinale, ma anche uno strumento in grado di mettere in forma dei discorsi politici, di inserire all’interno di circuiti di valorizzazione le pratiche divergenti che si possono osservare nei segmenti sociali più disparati. Il certificato verde permette di regolare i flussi urbani, l’accesso al consumo, l’accesso a servizi fondamentali come la scuola e la sanità, e infine anche di rivedere il diritto del lavoro. Funziona come trasduttore tra questioni diverse, unificandole all’interno dell’emergenza pandemica secondo un frame individuale: la responsabilizzazione del singolo cittadino diventa la chiave di attuazione di ogni politica collettiva, si concretizza in un oggetto a facile portabilità e aggira ogni dibattito sulla forma dell’organizzazione sociale.

Ogni riflessione su politiche di spesa, su una revisione dei criteri produttivi o sul tracciamento, viene a cadere in secondo piano, perché il pass (e l’eventuale obbligo vaccinale) è esattamente un modo per sopperire alle carenze nel tracciamento e nella prevenzione (carenze del sistema sanitario così come di quello logistico-produttivo). Puntare su strumenti di controllo individuale, significa assegnare un ruolo primario ai comportamenti privati, rinviando a un momento successivo – fuori dal tempo dell’emergenza – le azioni su quelli che possiamo chiamare “determinanti sociali” della pandemia, che ci spingono piuttosto a parlare di sindemia.

Interessante che su questi aspetti ci sia una differenza di approcci tra paesi: in alcuni come Germania e Austria la strategia del Pass sembra accompagnare una possibilità di controllo e “tamponamento” che fin dall’inizio della pandemia è stata larga, diffusa e gratuita. In Francia e Italia, invece, il Pass si pone come alternativa al tracciamento: l’instaurazione del Pass ha infatti coinciso con l’innalzamento del costo dei tamponi, secondo una logica economicista che vede nella vaccinazione l’unica linea di risposta. Questo non significa che anche Germania o Austria non cerchino di rinviare alla responsabilità individuale quegli stessi determinanti collettivi, ma permette prospetticamente di inserire il Pass dentro la storia lunga delle retoriche di Stato e delle specificità territoriali, oltre che nel quadro di una alleanza (da capire quanto sia forte) tra Macron e Draghi.

Vaccini dell’occidente

L’OMS è scomparsa dalle cronache (almeno sui giornali italiani) ma porta avanti da alcune settimane una battaglia contro i booster shot, cioè le “terze dosi” di vaccini che molti paesi si preparano a inoculare una volta giunte a “scadenza” le prime due (terminato cioè il periodo in cui l’efficacia dei vaccini è considerata statisticamente accettabile). Per l’organizzazione mondiale della sanità la strategia di rinforzare la protezione in occidente, senza nessun test soddisfacente che ne accrediti l’efficacia, è uno schiaffo in faccia a quel pezzo di mondo che ancora aspetta un largo accesso ai vaccini. Anche l’agenzia sanitaria europea (EMA) ha sconsigliato per il momento questa soluzione, ma a giudicare dalle dichiarazioni del governo italiano (obbligo di Pass in sempre più contesti, e in futuro forse addirittura obbligo vaccinale per tutti), queste indicazioni non sono di alcun interesse di fronte alla linea politica della morale vaccinale.

Sembra paradossale una considerazione sulla effettiva diffusione dei vaccini in un articolo che critica il Green Pass, ma questo paradosso è solo frutto di una distorsione del dibattito: qui non è in discussione l’utilità dei vaccini dentro la vasta gamma di strategie anti-covid, ma la specifica torsione politica assunta dai vaccini dentro il paradigma dell’obbligo (che sia totale o condizionale a specifiche attività). La strategia del Pass introduce un automatismo socialmente pervasivo, una volta integrato il Pass alla vita di un paese, le terze dosi sono incluse in un dispositivo necessario per gesti quotidiani. In nome di una necessità immediata si è quindi resa quasi automatica anche una strategia futura.

Il rapporto tra Green Pass e confini è stringente, perché come ogni sistema di identificazione individuale deve essere integrato al sistema di registrazione della residenza e quindi le forme di discriminazione che introduce per immigrati o residenti all’estero non sono passeggere e marginali, ma strutturali allo strumento stesso. Col Green Pass sembra rendersi esplicito un segreto mal custodito: i governi occidentali non pensano di poter eradicare il virus al di fuori dei loro confini, si muovono alla giornata mantenendo i loro privilegi e probabilmente intendono nel prossimo futuro barricarsi dentro frontiere fortezza, separati dai focolai a più alta infettività.

Questa prospettiva non ha niente di certo, come già detto il virus potrebbe ritrovare ritmo nonostante l’alto numero di persone vaccinate, ma ciò che sembra certo è l’integrazione tra le misure sanitarie e il controllo dei confini: il lasciapassare è una prima mossa in questa direzione, che moltiplica per due le forme di “messa in regola” e gli step di controllo, aprendo a una gamma di situazioni differenziali (in regola col vaccino ma non coi documenti (e quindi privo di GP), in regola con niente, in regola coi documenti ma scettico sul vaccino…) a tutto vantaggio di una normatività individuale. È bene sottolineare però che se si intende il confine come uno strumento che agisce solo verso l’esterno, si va verso un fraintendimento: così come le linee della nazionalità e dell’origine si riversano all’interno degli stati, striando la popolazione e alimentando gerarchie interne, allo stesso modo l’ingiunzione individuale a comportamenti sanitari nasce già integrata alla stessa logica razzista.

Il Pass contro la cura

Questa seconda estate pandemica quindi imprime un tornante, e dopo un anno e mezzo di vita sotto il Covid possiamo cominciare a abbozzare delle ipotesi su cosa possa significare la parola “cura” dentro il linguaggio del governo, e quale invece potrebbe essere una sua controsignificazione.

Il Pass ci parla di cura e solidarietà come esecuzione di atti individuali necessari per una buona partecipazione alla vita sociale. Una cura adatta al profitto, perché fornisce (non si sa con quale efficacia al livello di contagiosità, ma con assoluta certezza sul piano burocratico-legale) un lasciapassare per poter tornare a lavorare, e comincia a sdoganare la presunzione di colpevolezza: se ti ammali hai sbagliato qualcosa tu.

Ancora di più, la cura sottintesa dal Pass presuppone un ulteriore oggettificazione del corpo del paziente: la decisione sull’eventuale esenzione dal vaccino per chi avesse condizioni di rischio è stata demandata ai medici vaccinatori (che decidono sulla base di certificati e condizioni specifiche come la gravidanza), dei medici cioè che non conoscono personalmente la storia del soggetto e che lo incontrano una tantum al momento della vaccinazione. Quello che potrebbe sembrare un dettaglio, mostra invece un distacco procedurale tra il corpo del cittadino e le sue scelte, anche per quanto riguarda le condizioni di rischio e di precauzione.

Dall’altra parte, possiamo fare l’ipotesi di un’altra idea di cura, valorizzando qualcosa di cui abbiamo fatto esperienza in questo anno e mezzo: l’attenzione per le prossimità affettive e relazionali, la possibilità di controllarsi (con i tamponi, anche autogestiti) e le pratiche di buon comportamento verso le persone a rischio. Cura come capacità di saper leggere i rischi e pesarli anche rispetto a necessità non sociali, come la festa, l’incontro, la salute psichica. Cura come legittimazione del dubbio: un trattamento sanitario se reso obbligatorio tradisce il suo significato primario.

Lavorando per estensione a un’ipotesi di più ampio respiro, si può immaginare la cura come rottura di alcune forme del Sociale e delle loro tossicità? Si tratta di un passaggio politico che l’entrata in vigore del Pass cerca di scongiurare: adesso che è sufficiente un singolo gesto per dare il proprio contributo al “ritorno alla normalità”, adesso che c’è una soluzione racchiusa in un atto specifico, non c’è motivo di mettere in discussione gli stili di vita, le relazioni che intratteniamo, i lavori che facciamo, le norme del lavoro, le forme di tutela garantita e quelle di attenzione reciproca, o anche la possibilità di controlli medici autogestiti e diffusi. La somma di singoli atti individuali diretta logisticamente dall’alto diventa un modo per tutelare il Sociale, contro ogni ipotesi di presa in carico situata – per un tempo continuato e indefinito – della cura, contro ogni domanda di ristrutturazione della topologia urbana e dell’organizzazione lavorativa.

La differenza tra queste due impostazioni si spiega bene con un paradosso: se l’efficacia del vaccino cala anche di pochi punti percentuali – e se continuiamo a utilizzare il solito sguardo individualizzante – una persona vaccinata che ritorna a “far tutto” potrebbe essere un pericolo (rispetto alla diffusione) maggiore di una persona attenta/tamponata. Per questo nessun Green Pass potrà mai assicurare contro il ritorno delle restrizioni se non ci sono interventi sui luoghi di lavoro o nei gangli del sistema di trasporti; ma nonostante questo la narrazione del GP serve a mantenere la prospettiva di una gestione individualizzata senza stravolgimenti sistemici. Il GP in sostanza mette in forma una solidarietà puntuale votata al disimpegno, perché la strutturazione di solidarietà più forti non è politicamente gestibile senza enormi scossoni: con il GP non dobbiamo più preoccuparci – ci dicono – non tanto perché non ci siano più rischi, ma perché quei rischi non ci possono essere individualmente additati («io ho fatto tutto il possibile»). In una strana auto-produzione di ingiunzioni, si desidera un obbligo perché il suo soddisfacimento ci liberi dalla colpa, e così facendo si abbandona la possibilità di mettere in discussione le forme di vita.

Per farla finita con l’idea di gestione

È possibile reintrodurre discriminanti politiche dentro un dibattito che è stato completamente fagocitato dall’imperativo della buona gestione (governamentale e individuale)?

Credo che esista un sentimento diffuso di impotenza e inutilità attorno a ogni discussione sulla messa in sicurezza dei luoghi di lavoro, un’aura di ingenuo utopismo aleggia su ogni domanda di gratuità per gli strumenti sanitari come i tamponi. L’entrata in vigore del Pass ha reso ancora più acute queste sensazioni, perché la sua logica implicita è proprio di rendere automatici alcuni passaggi, di aggirare ogni bilanciamento dei poteri che possa mettere in discussione le priorità. Ogni “giusta rivendicazione” in questo schema nasce castrata, perché non esiste una forza che la possa supportare attivamente contro il parere dei governanti.

Lo stesso si può dire per l’organizzazione della sanità: ogni critica, anche la più banale constatazione dei fallimenti che la pandemia ha messo sotto gli occhi di tutti, suona come un buon proposito di capodanno, che tutti sono disposti a pronunciare perché non impegna nessuno. L’unica cosa che sembra in grado di impegnarci è l’emergenza presente individualizzata, il richiamo alla responsabilità che grava sulle nostre teste. Dei massimi sistemi e di tutto ciò che non si può ridurre a un gesto personale… discuteremo più avanti.

In qualche senso profondo, l’appello alla disciplina individuale è uno dei pochi elementi in grado di far senso nonostante la perdita di punti di riferimento, nonostante lo smottamento (che è anche esistenziale) dovuto alla pandemia. Un richiamo all’ordine social-individuale tanto più efficace perché si traveste da “solidarietà”.

L’emergenza ha depotenziato molte di quelle reti amicali, di prossimità, che sostengono alla base ogni forma di azione politica. Come è possibile in questa situazione riattivare delle etiche non individualiste? Forse il punto è quello di situarsi singolarmente, esprimere un desiderio o un bisogno parziale, di comunità, e quindi rifiutare lo spazio d’azione omnicomprensivo del Sociale e della sua gestione.

Se il Pass sposta il discorso verso la responsabilità del singolo, allora criticarlo è necessario non solo per meglio analizzare la situazione, ma anche per affinare un linguaggio, per spostare la sintassi dal giudizio delle pratiche individuali e riportarla su valutazioni dell’organizzazione collettiva, delle forme di vita. Questa sembra essere la principale posta in gioco anche nei movimenti che prendono piede in Francia (e con molta minor intensità, anche in Italia): in mezzo a scivolamenti in derive complottiste, a torsioni apocalittiche – che dovremmo accettare come aria di quest’epoca, come realtà di contesto in cui si deve imparare a muoversi – si cercano parole per nominare i veri responsabili. Si cerca di uscire dall’organizzazione stringente della totalità in cui siamo intrappolati. Un passaggio ricco di contraddizioni, ma anche una scelta-contro (contro una nuova morale pubblica, contro uno strumento di controllo, contro un certo rapporto tra corpi e Stato) necessaria, per riempire le voragini tra individuo e individuo aperte dalla paura del virus e dalla sua gestione.

 

Immagine in apertura: Zach Blas, Facial Weaponization Communiqué: Fag Face (still), 2012

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