In vista del seminario Valore, biosfera, conflitto: La crisi ecologica e l’accumulazione, che si terrà sabato prossimo, 1 febbraio 2020 presso la Casa delle Donne a Milano, pubblichiamo la Prefazione di Michele Carducci al libro di Sergio Messina “Eco-democrazia: per una fondazione ecologica del diritto e della politica” (2019, Orthotes Editrice) – ringraziando autore ed editore per la condivisione.

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Se dovessi sintetizzare il contenuto del bel libro di Sergio Messina, userei la parola “rinuncia”.

Il suo percorso introduce alla scoperta delle virtù della rinuncia; non tanto in termini morali o materiali, quanto esistenziali, sociali e istituzionali.

Le sfide della sostenibilità, infatti, ci impongono di rinunciare al riduzionismo dei saperi e della conoscenza, aprendoci al confronto con tutte le esperienze e competenze acquisite nella osservazione della realtà. Ma ci impongono pure di rinunciare alla indefettibilità di metodi deliberativi, esclusivamente fondati sull’opinione individuale e sulla separazione artificiosa dei contesti di vita, al fine di ritrovare dimensioni unitarie di compatibilità.

L’eco-democrazia, in fine dei conti, è un metodo per imparare a rinunciare ai “difetti” della convivenza umana moderna. Lo stesso interrogativo del rapporto tra democrazia e natura serve allo scopo.

Il libro sollecita molte domande, tutte difficili e complesse. Cito solo le più eclatanti: la democrazia è un meccanismo utile a tutelare la natura? E quale dei metodi democratici sarebbe il più efficace in tale prospettiva? Ma la natura detiene specifici meccanismi di funzionamento, di cui le forme di governo umane dovrebbero tener conto? In tal caso, sarebbero necessarie forme di governo per la natura o forme di governo con la natura? Ma governare conla natura, non significa anche riconoscere diritti alla natura?

Sergio Messina non ha la pretesa di fornire risposte risolutive. Ha però il merito di offrire al lettore un inventario degli itinerari sperimentati o teorizzati per conciliare convivenza umana e natura, attraverso metodi che a quelle domande non si sottraggono.

Ne emerge un panorama molto interessante e variegato, che presenta almeno due costanti, di cui tener conto soprattutto oggi, di fronte all’urgenza della lotta ai cambiamenti climatici e alla catastrofe ecologica del sistema Terra.

La prima costante riguarda il ruolo marginale e quasi assente del diritto pubblico e dei giuristi costituzionalisti nel dibattito su democrazia e natura. La storia costituzionale ha offerto spunti importanti su questo tema, ma il diritto costituzionale non li ha mai valorizzati. Si pensi alla “Carta della Foresta” del 1217, a quella africana di “Kouroukanfouga” del 1222-1239, al dibattito nella seconda Convenzione francese del 1792 su diritti individuali e autosussistenza della specie, alla Costituzione di Haiti del 1805, la prima a codificare i diritti della natura [1]: di queste esperienze, la cultura giuridica egemone non tiene conto; la sua narrazione continua a insistere su una rappresentazione esclusivamente volontaristica della convivenza, come se la natura non esistesse o fosse comunque indifferente al diritto.

Invece, di istituzioni, democrazia e natura si sono occupati gli economisti istituzionalisti, a partire da K. William Kapp, con il suo The Social Costs of Private Enterprises del 1950 [2]. Grazie a lui, si è compreso che il funzionamento delle istituzioni, anche democratiche, infligge comunque danni “alla ricchezza naturale”, di cui tener conto. Questi danni, però, non coincidono con le semplici “esternalità negative”, derivanti dalla distinzione marshallianatra “economie interne” ed “economie esterne”. Infatti, la causa delle “esternalità negative” è fatta risiedere sempre nell’assenza di un mercato per determinati beni, come appunto le risorse naturali, cui attribuire valore di scambio e connessa definizione dei costi per la sua conservazione o perdita. Il “locus naturalis“, nella rappresentazione delle “esternalità negative”, coincide dunque con il mercato, caratterizzato da scambi contrattuali di cui gli individui o gruppi fissano le condizioni con regole giuridiche. Al contrario, il “locus naturalis” dei danni di Kapp è proprio nella natura e nei suoi funzionamenti, ignorati dalle istituzioni umane e dalle loro regole giuridiche.

Ecco allora che il controllo dei danni alla natura dovrebbe essere garantito non dalla regolazione dello scambio di interessi per mezzo del mercato e dei contratti, come sarà invece ammesso dalla traduzione del concetto di “costi sociali” in termini di transazione da parte di Ronald F. Coase[3], bensì dall’adeguamento delle istituzioni giuridiche alle dinamiche della natura, cui subordinare anche il mercato.

In assenza di tale subordinazione, nessuna istituzione potrà risultare “ecosistemicamente” efficiente.

Ma come e da chi far valere questa pretesa di efficienza ecosistemica?

Qui entriamo nella seconda costante, sollecitata dal libro.

Discutere di democrazia e natura significa immaginare quest’ultima titolare di pretese attivabili dentro i meccanismi giuridici. In una parola, significa parlare di “diritti della natura”[4].

Quali siano i metodi per concretizzare tali “diritti” non risulta ancora del tutto convergente nel panorama mondiale. “Diritti della natura” sembra significare: legittimazione ad agire in giudizio per rappresentare e tutelare interessi di sopravvivenza non solo umana ma di altri componenti viventi o vitali (la c.d. “azione di protezione” costituzionalizzata in alcuni Stati); istituzione di autorità indipendenti dalla politica e dagli interessi corporativi, composte da rappresentanti della società, della scienza, delle culture (lì dove esiste il pluralismo giuridico), con poteri di vigilanza e proposta nei confronti degli organi politici (c.d. “Agenzie di difesa della terra”); istituzionalizzazione dei rapporti tra università, organizzazioni non governative, associazioni territoriali e poteri locali, al fine di creare circoli virtuosi di conoscenza, discussione e condivisione di problemi e ricerca di soluzioni sul c.d. “sviluppo sostenibile” (per es. con le “Consulte”); recupero dei saperi contadini, coniugandoli con (non sacrificandoli a) le acquisizioni della scienza e della tecnica; pratica della c.d. “demodiversità” (la democrazia non è solo elezione e legittimazione alla decisione, ma condivisione di metodi in diversi ambiti riguardanti i bisogni vitali del bere, mangiare e respirare).

È quest’ultimo il profilo più rilevante di tutti: il tema dei “diritti della natura” può abilitare nuove sperimentazioni democratiche eco-compatibili.

Il termine “demodiversità”, del resto, nasce proprio a seguito della insorgenza di bisogni connessi alla natura in un triplice significato [5]: come tutela prioritaria e non negoziabile della salute di qualsiasi forma di vita rispetto soprattutto agli interessi economicidi estrazione e sfruttamento del suolo; come criterio di distribuzione delle competenze tra Stato ed enti territoriali, alternativoa, o integrativodi,quello del ritaglio per materie (si parla di “politiche integrate di sistema” con i viventi dei territori, prima ancora che con gli enti); come fonte di legittimazione del coinvolgimento diretto delle popolazioni locali in tutte le decisioni pubblichesul futuro.

Esso, in altri termini, nasce non come semplice ulteriore forma di partecipazione sussidiaria, bensì come condivisione diretta di due problemi specifici: la salute di tutto il vivente (diritto alla salute come interesse dell’ecosistema e non solo della collettività umana); la tematizzazione dei “diritti delle generazioni future” in termini di riduzione del “deficit ecologico” del Pianeta.

In tal senso, le pratiche di “demodiversità” vanno oltre anche le tecniche delle”valutazionidi impatto”per la tutela ambientale, almeno per due ragioni: perché queste ultime continuano a fondarsi sulla differenziazione tra interessi umani e biodiversità (intesa quest’ultima solo come flora e fauna), funzionalizzando agli interessi economici la discussione sui bisogni vitali; perché esse, proprio per la suddetta separazione, presuppongono e accettano le “esternalità negative” degli interessi economici, traducendole in compensazione di costi e benefici di qualsiasi contenuto (in questo, ignorando del tutto le acquisizioni consegnateci da Kapp).

Quindi, per come impostata, la “demodiversità”, in quanto metodo dei “diritti della natura”, definisce una nuova frontiera metodologica del consenso informato per i trattamenti sulla salute. Se si condivide l’ecosistema come un insieme di soggetti viventi, in quanto tali titolari di diritti (appunto i “diritti della natura”), qualsiasi intervento su di esso equivale di fatto a una sorta di “trattamento”, che, incidendo sulla salute ecosistemica, richiede necessariamente un consenso informato dei soggetti viventi, secondo una logica di educazione-promozione-prevenzione per e su tutti i viventi.

Insomma, la “demodiversità” altro non rappresenta che il risvolto giuridico-costituzionale del c.d. “approccio ecosistemico” per la gestione delle biodiversità, inaugurato dalla Conferenza di Trondheim del 1999 e fondato su quel nesso di educazione-informazione-promozione-prevenzione[6], dagli ecologi reputato indispensabile per liberarsi dalla “tirannia delle piccole decisioni” [7].

In alcuni Stati extraeuropei, questo “approccio” è stato persino costituzionalizzato per garantirne una effettività preponderante su altri metodi di governo (in particolare in Ecuador e Bolivia, pur tra non poche difficoltà). In Europa, esso non ha ancora preso piede in modo particolarmente evidente sul piano costituzionale. Documenti, come il “Green Paper on Citizen Science for Europe” del 2014, ne assumono le premesse, ma non ne spiegano ancora le conseguenze sul comeprocedere rispetto alle forme di democrazia degli Stati membri(complice la clausola di “identità costituzionale” dell’art. 4.2 del Trattato UE). Anche in Italia se ne riscontrano meri cenni nella “Strategia nazionale della Biodiversità” del 2010 e nella c.d. “Carta di Siracusa” (Clima, economia, servizi ecosistemici, scienza e politica).

Del resto, se l’ “approccio” non si è concretizzato in innovazione istituzionale adeguata appunto ai problemi della biodiversità e del “deficit ecologico”, è soprattutto per due ragioni:

– perché il concetto di biodiversità trova ancora declinazione come attributo del vivente non umano (ne offre un esempio, in Italia, la recente istituzione del “Registro degli alberi monumentali“, in cui il vivente vegetale non assurge a soggetto coprotagonista del governo dei territori);

– perché la democrazia partecipata è concepita pur sempre come “Governance” di “interessi umani” orienti al mercato (gli “Stakeholder“) e non di soggettività viventi, accomunate dai bisogni di sopravvivenza.

Le esperienze di “demodiversità” provengono da realtà dove le logiche di mercato e degli “Stakeholder” hanno inflitto i peggiori danni alla biodiversità non solo ecosistemica ma anche culturale e sociale del genere umano. Esse, di conseguenza, realizzano arene di “contro-pubblico subalterno” [8], in quanto alternative alla “sfera pubblica” della “democrazia partecipata” degli interessi e composte da soggettività sociali (indigeni, donne, poveri di consumi ma bisognosi di sopravvivenza) occultate dal discorso normativo ufficiale della volontà umana tarata sugli interessi orientati al mercato.

Pongono quindi in discussione proprio quella razionalità del mercato, già denunciata da Kapp per la sua “contro-naturalità”.

Alla fine, la razionalità che simili prassi partecipative consentono di far emergere è tanto semplice quanto disarmante, scansionabile in quattro passaggi:

– invece di concentrarsi sulla garanzia che, attraverso la partecipazione, siano soddisfatti interessi di qualsiasi tipo e provenienza dei soggetti partecipanti (dal consumo al profitto alla vita), l’ordine del giorno di qualsiasi decisione deve riguardare la discussione sui danni vitali che qualsiasi deliberazione umana infligge alla natura intera, e quindi all’essere umano stesso, assumendo così i soggetti, partecipanti alla deliberazione, quali portatori di bisogni incommensurabili di sopravvivenza, propria e di qualsiasi altro essere vivente;

– in quanto incommensurabili, tali bisogni non possono non essere razionalmente classificati come non negoziabili o scarsamente negoziabili [9];

questo però non porta allo stallo, come invece avverrebbe nella logica individualistico-competitiva degli “Stakeholder“, la cui unica via di uscita consisterebbe nel soddisfacimento “flat” di tutti gli interessi in gioco (l’et-et del bilanciamento), senza alcuna scala di valore riferita alla vita come denominatore comune tra essere umano e natura;

– conduce piuttosto alla presa d’atto dell’esistenza dei danni, tematizzato da Kapp, e alla mobilitazione responsabile sulle rinunce condivise, ai fini della salvaguardia della natura e quindi dello stesso essere umano.

Decidere per rinunciare insieme a favore della vita dell’intera natura, invece che decidere per avere ciascuno a prescindere della natura, è il discrimine che legittima la discussione sulla eco-democrazia.

Quali e quanto impervie siano le vie per instaurarla, lo si apprende dal libro.

 

Note

[1]Rinvio a M. Carducci, È (im)possibile la repubblica dei beni comuni? Da Kouroukanfouga alle autogestioni locali e ritorno, in H-ermes. Journal of Communication, 11, 2018, pp. 41-62.

[2]T. Luzzati, Leggere Karl William Kapp (1910-1976). Per una visione unitaria di economia, società e ambiente, Discussion Papers n. 56, Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università di Pisa, Pisa 2005.

[3]Sulle diversità di collocazione dei “costi sociali” nel confronto Kapp-Coase, cfr. G. Niglia, M. Vatiero, K. William Kapp e Ronald H. Coase: un tentativo di riconciliazione, in Studi e Note di Economia, n. 3, 2007, pp. 369-383.

[4]Amplius in M. Carducci, Natura (diritti della), in Digesto delle discipline pubblicistiche. VII Appendice, Utet, Torino 2017, pp. 486-521.

[5]Mi permetto di rinviare ancora a M. Carducci, «Demodiversità» e futuro ecologico, in S. Bagni (a cura di), How to govern the Ecosystem? A Multidisciplinary Approach, Dipartimento di Scienze giuridiche Università di Bologna, Bologna 2018, pp. 62-91.

[6]Si v. i principi 2, 7 e 12 dell’ “approccio” nel documento ENEA “Biodiversità. Risorse per lo sviluppo“, Roma 2009.

[7]La formula si deve a William E. Odum, per denunciare come la somma globale di tante piccole decisioni istituzionali, divise per materie, competenze e sussidiarietà, ancorché garantire dal metodo democratico, non comporti di per sé la riduzione del “deficit ecologico” del Pianeta: E.W. Odum, Environmental Degradation and the Tyranny of Small Decisions, in 32 BioScience, 9, 1982, pp. 728-729.

[8]N. Fraser, Rethinking the Public Sphere: A Contribution to the Critique of Actually Existing Democracy, in Social Text, n. 25-26, 1990, pp. 56-80.

[9]D. Schön, M. Rein, Frame Reflection: Toward the Resolution of Intractable Policy Controversies, Basic Books, New York 1994.

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