Il recente libro di Angela Balzano, Per farla finita con la famiglia. Dall’aborto alle parentele postumane (Meltemi 2021), è al contempo una contronarrazione, che denuncia la presa sempre più capillare, instituzionalizzata e violenta sui corpi delle donne, e un’originale neonarrazione che, con una struttura a mosaico che fa intersecare molteplici piani espressivi e cortocircuitare cronaca, storia e tecnoutopia transfemminista, esonda oltre i confini dell’umano, in territori altrimenti poco frequentati. Con le parole dell’autrice: «Trameremo le nostre alleanze in zone liminali, ci riconosceremo tra umane per tradirci da postumane e scoprirci compostiste» (p. 14). E, nonostante l’abominevole che va mappando con precisione da tessitrice, Balzano fa tutto ciò – autentico refrain che percorre l’intero volume – agitando senza sosta com/passioni gioiose. Parafrasando Foucault, a cui fa spesso riferimento, è come se Balzano non smettesse di sussurrarci «non credere che occorra essere tristi per essere militanti, per quanto sia abominevole ciò che si combatte». Perché «se così non è», prosegue Federici (altra presenza costante del libro), «c’è qualcosa di sbagliato».

Sintetizzando molto, questo saggio è un organismo. E come tutti gli organismi scambia energia con l’ambiente circostante. L’organismo-Balzano riceve energia nel momento in cui, facendo leva sul femminismo materialista descrive il capitalismo come un sistema, al cui centro sta la famiglia nucleare eteronormata, che mette a lavoro (non salariato) la potenza ri/produttiva dei corpi delle donne per ri/produrre se stesso attraverso la ri/produzione di quella merce speciale che prende il nome di “forza-lavoro”. E restituisce energia nel momento in cui, prendendo slancio dal suo posizionamento – ricercatrice precaria eco/cyborg/femminista impegnata in una lotta corpo a corpo contro la violenza sistemica e pervasiva del biocapitale – eccede l’umano (insieme, tra le altre a Haraway, Braidotti e Barad) in direzione di parentele postumane favolosamente mostruose e irriverenti. Parentele, o grovigli di vita/morte, che permettono a Balzano di non lasciarsi irretire dal privilegio di specie – la più subdola e invisibile tra le gabbie d’acciaio del Capitale – e così di poter riscrivere completamente la nozione di cura, rivoltandola in qualche modo contro se stessa, rendendola un irrinunciabile strumento di rivolta permanente:

Le parentele postumane non hanno il volto rassicurante e l’aura romantica dell’amicizia antropomorfizzante, sono relazioni conflittuali che non riguardano il singolo individuo umano e non-umano, non sono raffigurabili nel quadretto bucolico dell’amore a due, del tipo la bimba e la pecorella, il ragazzo e il cane. No, le parentele postumane somigliano ad assemblee, sono informate da politiche governative e flussi finanziari, vengono intessute da molteplici attor* naturalsociali su scala g/locale, possono essere mostruose: immaginatevi un’apertura coordinata dei cancelli dei macelli! Immaginate quanto ci sconvolgerebbe la fuga di massa di mammiferi che ne seguirebbe! […] Prendersi cura non vuol dire solo nutrire/rigenerare in relazioni di prossimità e dipendenza su base individuale/familiare. Prendersi cura è lasciar andare in relazioni di libertà e intra-azione su base collettiva-cooperativa» (p. 107).

Costruire parentele postumane è, allora, una postura teoricopratica necessaria sia per liberarsi dal giogo coercitivo della famiglia eteropatriarcale (pars destruens) sia per aprirsi una via di fuga dentro il gioco transfemminista e transpecie di ri/generazione dell’intero pianeta e di chi lo abita (pars construens). In tal modo diventa evidente che lo slogan di Haraway Make Kin not Populations è tutt’altro che una sterile provocazione, essendo piuttosto un appello urgente a sottrarsi alle ingiunzioni bio/necro/politiche del Capitale. Solo così è possibile superare l’imperativo edipico di una genitorialità ristretta verso un desiderio demoniaco di rigenerazione generale, vera e propria dépense del desiderio – «nessun obbligo per nessuno, è tutta una questione di desiderio» (p. 121) – che non smette di creare alleanze tra/con sessi, generi, “razze” e specie, alleanze in/umane tra/con farfalle monarca, migranti clandestine e macchine morbide. Alleanze attraverso/oltre qualsiasi tipo di confine proprietario, simbolico o materiale che sia.

Tutto questo non-tutto, immaginato e preconizzato dalla fantascienza femminista, è senza dubbio inquietante. Ma lo è in un senso diametralmente opposto a quello sbraitato dalle destre con la bava alla bocca o insinuato dai subdoli microfascismi che ormai sembrano poter parassitare indisturbati qualunque contesto. L’inquietante di questo non-tutto risiede nella sua “natura” squisitamente unheimlich, nella sua capacità di destabilizzare il Sé con l’intimità estranea (o l’estraneità intima) delle trans/alleanze affettive. Ecco, allora, che Balzano ci invita da un lato a riconsiderare il modo in cui sono utilizzati le/gli animali non uman*, smembrat* e ridott* a organi ri/produttivi appropriabili e sfruttabili con ogni mezzo necessario (dall’inseminazione alla crioconservazione di gameti ed embrioni, dall’ovulazione indotta alla clonazione…) e dall’altro a prendere atto che le specie altre (tutte le specie altrimenti che umane, incluse le diatomee, vere e proprie ibride inclassificabili) hanno contribuito – e, tuttora e malgrado tutto, contribuiscono – alla sopravvivenza della specie umana, a ri/produrre Homo sapiens, curandolo e ri/generandolo («Il mio non è un sacrificio, è una consapevolezza: il sacrificio per noi lo sta facendo la Barriera Corallina», p. 109).

Lo prospettiva di Balzano, per usare una terminologia stiegleriana, è sempre farmacologica, dal momento che non pensa che cura e veleno siano naturalmente separati e che, quindi, sia indispensabile, per poterli distinguere, un’attenta disamina politica e coraggiose prese di posizione. Illustrazione di tale prospettiva farmacologica è la lucidità con cui l’autrice analizza i vantaggi di tecnologie e prassi potenzialmente (etero)sovversive senza però dimenticarsi di sottolineare i rischi governamentali e le derive autoritarie a cui possono essere piegate. Si pensi, per esempio, alle tecnologie ectogenetiche «trattenute nel recinto del maschio bianco e del suo desiderio di riprodurre il medesimo» (p. 64). Oppure, si pensi all’appropriazione/familiarizzazione delle prassi di cyborgfare, alla loro trasformazione in sofisticati dispositivi di controllo e di selezione di organi senza corpi:

Sotto la voce cyborgfare ci vedrei le tecniche di microcontrollo, selezione e riproduzione dei corpi che legano il lavoro alla biologia delle specie. Un insieme di bio-infotecnologie che innervano le vite della manodopera del terzo millennio, dipendenti dalle sue capacità di autoinvestimento, non più gestite centralmente dallo Stato-nazione ma organizzate in modo molecolare e diffuso, rispondenti alle esigenze di lobby biofarmaceutiche, agroalimentari e informatiche (p. 88).

Questo posizionamento intrinsecamente ribelle e sfaccettato è magistralmente diffratto dalla struttura del libro, che a sua volta diffrange la vocazione avant-pop di questo volume, la sua esuberanza decuntstruzionista, per usare una felice espressione di Kathy Acker. Non a caso, le citazioni poste in esergo ai vari capitoli e paragrafi che compongono il testo attingono a piene mani alle controculture musicali – che da decenni non cessano di infiammare le periferie delle metropoli globali – in una sorta di celebrazione di quell’iper-ibrido che Simon Reynolds chiamò hardcore continuum. In fondo, a ben guardare (o ascoltare?), il saggio di Balzano è un vero e proprio lavoro musicale, un concept album che va sentito più che letto, un concept album con la sua intro, in cui l’autrice esprime le motivazioni che l’hanno spinta a scrivere; con i suoi brani, composti da convissuti, ritornelli e figurazioni; con la sua outro, che chiude la tracklist e che libera la nostra immaginazione dentro il rizoma delle parentele post-punk e altrimenti-che-umane.

I convissuti radicati ci mettono all’ascolto della sonorità che tracima dalle gole di uno spartito verde – come l’Amazzonia, come il panuelo delle femministe argentine, come la copertina del libro… –, uno spartito che vorrebbe farsi cielo per restituire acqua al deserto che avanza e che, invece, si trova stretto tra un “noi” sempre più smarrito e spossessato e un pianeta sempre più invivibile. Uno s/partito che comunque non smette di incoraggiarci a intraprendere nuove forme di r/esistenza.

I ritornelli speculativi segnano (senza marchiare) il ritmo di canzoni che si riterritorializzano in interminabili deterritorializzazioni, di suoni in cerca di altri spazi da decolonizzare attraverso vibrazioni drum&bass, di melodie immerse nella rete costituita da congiunzioni proliferanti – animale e vegetale e macchina e tecnologia e processi e linguaggio e biologia e letteratura e cinema e musica… «Io percorro tutti i paesaggi melodici in cui posso rinvenire risposte che da sola non so darmi, che una sola disciplina non potrà mai fornirci» (p. 13).

Le figurazioni (meticce) sono la linea di composizione di potenti soggettività non-identitarie, humusrali e compostiste. Ecco, allora, Trotula, medica del secolo XI, «prima donna ad essere ammessa a una scuola di medicina, la Scuola Medica di Salerno, e la prima a essere sparita dalla storia della medicina stessa» (p. 25), che ci parla del tempo in cui i corpi delle donne non erano ancora un corpo medicalizzato, bensì corpi senza organi autodeterminantisi. «Perché l’utero è sempre stato lì, tra la vagina e le tube di Falloppio, ma la popolazione no, quella ce l’hanno messa contro la nostra volontà solo gli imperialismi e i totalitarismi occidentali» (p. 27). Ecco Rosita, «la mucca/balia clonata nel 2011» per nutrire il Bambino con il suo latte enhanced, che ci parla delle vite infami delle «donne (non ricche, non bianche)» e di «molti mammiferi», vite «che possono essere sacrificat[e] per la riproduzione e la rigenerazione della specie sapiens» (p. 73). Che ci informa che, sì anche lei è cyborg, come la pecora Dolly, e che entrambe sono «come noi aggrovigliate in reti di bit e silicio, ormoni e proteine, ma a differenza nostra non hanno scelto di divenire cyborg» (p. 75). Ecco farsi avanti lo spettro di Henrietta Lacks, «una afroamericana senza redditi fissi dalla famiglia numerosa» (p. 77), morta nel 1951, a 31 anni, di cancro alla cervice uterina, che ci parla delle sue cellule neoplastiche che, virtualmente immortali, vennero usate senza alcun consenso, e sono tuttora usate senza alcuna redistribuzione dei profitti, per curare milioni di altre vite «in modi mostruosamente postumani» (p. 80). Ecco, infine, Care-O-bot 3, tecno-caregiver pensat* per gestire la crescente richiesta di cura, che ci parla di «esternalizzazione della riproduzione sociale, privatizzazione dei costi, atomizzazione/isolamento della persona anziana, sfruttamento e invisibilizzazione della manodopera riproduttiva, ma anche scomparsa della malattia dal campo della visibilità pubblica» (pp. 83-84). Che ci chiede, sornion*, se pensiamo davvero «che le innovazioni tecnologiche siano alla portata di tutte» (p. 85), che ribadisce che «non esiste lavoro cognitivo che non sia sempre lavoro corporeo […] lavoro biologico» (p. 67), ma che, al contempo, «ci aiuta a costruire rifugi per il non-umano, forse insegnandoci che la cura dell’alterità non viaggia su sequenze trasmesse per via di un supposto genoma umano puro e incontaminato, ma salta per diffrazione tra le specie» (p. 85).

A questo punto non dovrebbe sorprendere se la domanda che innerva, da cima a fondo, questo saggio sia «chi e come riproduce il bios?» (p. 15). Domanda che diventa assillante nel momento in cui, per esempio, si prende atto che «i rischi per la salute connessi alla pianificazione sessuale e riproduttiva sono riservati al solo secondo sesso, almeno a giudicare dal fatto che ancora oggi in commercio non si trova niente di simile a un pillolo» (p. 34). O che

la riproduzione non è per tutt* […] si impone alle eterosessuali la riproduzione ostacolando l’accesso all’aborto, si nega a gay, lesbiche e persone trans di riprodursi quando ne avvertono il desiderio, ad altre latitudini vengono imposte sterilizzazioni forzate oppure viene interdetto l’accesso alla contraccezione» (p. 11).

Facendo sua la denuncia di Rivolta Femminile («Non dimentichiamo che è del fascismo questo slogan: famiglia e sicurezza») e incrociandola con le acquisizioni del femminismo post-operaista italiano e del pensiero di Foucault sui dispositivi disciplinari di soggettivazione, Balzano ci mostra che la fabbrica diffusa del capitalismo contemporaneo è costantemente all’opera nella ri/produzione di corpi funzionali al sistema stesso. In un disciplinamento che non si esercita solo nell’addestramento di “mamma, papà e bambino”, ma anche in una selezione eusociale che inizia già prima del concepimento. Ecco perché la ri/produzione segue una distribuzione violentemente asimmetrica lungo linee di colore, di sesso, di genere e, aggiunge ancora una volta l’autrice, di specie («Non è detto che la ri/produzione dell’umano non arrechi danni a terze parti: ad altri generi, razze e specie», p. 11).

Per Balzano, quindi, la sottrazione dei corpi alla presa del biocapitale richiede non solo di uscire dalle cucine e dalle camere da letto, ma anche dall’oikos famigliare (quello del maschio, bianco, etero, cis, proprietario…) che già da sempre ha deciso chi è degno e chi è indegn* di essere ri/prodotto. In breve, la famiglia è il carburante che fa girare gli ingranaggi (concepiti e resi) docili di quella fabbrica diffusa che, negli anni, si è fatta globale e oltreumana («il biocontrollo si accompagna allo zoecidio», p. 18). Per questo, farla finita con la famiglia è leggibile sia per quello che letteralmente significa sia come metonimia di per farla finita con il/la… giudizio di Dio, patria, biocapitalismo, movimento pro-life, fascismo in tutte le sue varianti, mansplaining, distruzione della Terra, sesso/genere/classe/razza/specie, allevamenti intensivi, sfruttamento, oppressione, industria delle carceri, medicina bianca, necro/bio/politica… tutto l’abominevole in cui siamo immers*.

E Balzano non ha dubbi che per iniziare a materializzare la fine di tutto questo sia indispensabile rimettere «il piacere» al centro della «nostra biologia», dalla quale «è stato espunto […] perché tutto lo spazio fosse occupabile dal fine ultimo del dispositivo “differenza sessuale”» (p. 28), che sia urgente tornare ad assaporare i piaceri della disfunzionalità, riassunti dal ritornello, gioioso e sovversivo, Gambe chiuse, porti aperti!, che sia indispensabile tornare a cantare, insieme ai Sex Pistols, «No future… We’re the future!», smarcandosi dai discorsi e dalle narrazioni demoralizzanti sulla fine della storia, che siano dettati da rivendicazioni trasformative o da politiche reazionarie. «Il no future vale solo per il “futuro normativo e riproduttivo bianco”. Il we are the future ci riguarda nella misura in cui ci decentra», «il nostro decentramento in quanto uman* occidental* non corrisponde all’assenza di futuro» (p. 128).

La traccia (o la treccia?) finale di Balzano è scandita dal fraseggio rap di Lettera dal coronavirus all’umanità di Jack Makkia, la cui retorica antropomorfizzante diventa lo strumento per mettere in scacco la postura ieratica di Homo sapiens oeconomicus e per spostare l’attenzione dal privilegio (auto)immunizzante umano alla rigenerazione del pianeta e de* su* innumerevoli abitanti: per «amare l’humus oltre l’umano» (p. 172), per poter affermare «non più “la mia famiglia è composta da…”, ma “la mia parentela è compost di…”» (p. 166).

La nostra outro, pertanto, non può che intrecciarsi con quella dell’autrice. Balzano ha scritto questo libro in piena pandemia Covid-19; noi scriviamo sulle sue note, un anno dopo, mentre questa pandemia naturalculturale continua a imperversare, mostrando con inusitata chiarezza – anche se ci si ostina a invisibilizzarli – i differenziali di vulnerabilità dei dispositivi capitalisti di ri/produzione della vita/morte. Alla retorica bellica contro il nemico invisibile, agli appelli che intendono unire gli Stati-nazione al grido “Bisogna difendere e bisogna curare la società!”, alla chiusura dentro i confini di una responsabilità spacciata per individuale tramite un’ininterrotta «iniezione di autocontrollo biomedico» (p.160), ci piace rispondere facendo da cassa di risonanza al coraggioso appello di Balzano a stringere un’alleanza (anche) con il virus perché «allearci al virus vuol dire […] interrompere il ciclo schizofrenico della riproduzione capitalista» (p. 163). Perché «quando invito a tessere parentele postumane virali non intendo evocare la morte dell’umanità, bensì la sopravvivenza intra-specie, meglio ancora la vita in comune» (p.162). Perché, oggi più che mai, è necessario «com/pensare, nel duplice senso di pensare con e di rimediare» (p. 158).

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