Mentre, in Italia, assistiamo all’ennesimo tentativo di strumentalizzare la tragedia del Bardo al fine di alimentare il sentimento anti-immigrazione, pubblichiamo un contributo fuor di retorica, che offre uno sguardo e un’analisi non appiattite sull’orientalistica visione del mondo arabo diviso tra Twitter-Illuminismo e terrore.

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La visita del Presidente Mattarella a Tunisi il 18 maggio ha riservato ampio spazio alla commemorazione degli eventi del Bardo di due mesi prima, insistendo sull’inconciliabile dicotomia tra democrazia e terrorismo, ovviamente di matrice islamica. Lo stesso argomento è stato ripreso da Obama durante la visita del Presidente tunisino Beji Caïd Essebsi negli Stati Uniti, durante la quale la Tunisia è stata definita un “importante alleato fuori dalla NATO”, il che implica che aiuti militari saranno presto forniti. Infine, Italia e Tunisia stanno discutendo in questi giorni riguardo all’estradizione del marocchino Abdelmajid Touil, sospettato di essere implicato nell’attacco del Bardo. Terrorismo. Questa è la lente attraverso la quale è filtrata la maggior parte delle analisi della transizione tunisina, dalla caduta del regime di Ben Ali all’attacco del Bardo.

Un popolo insorge contro il tiranno invocando libertà, giustizia e dignità (sull’altra sponda del Mediterraneo si parla di thawrat al-karama, “la rivoluzione della dignità”, non di rivoluzione dei gelsomini, tanto orientalisticamente evocativa e rassicurante quanto risultato di un’interpretazione che “disinnesca” la sofferenza umana e sociale che ha portato alle proteste del 2010-2011), ma che poi delude gli entusiasmi dell’Occidente votando per Ennahda, il partito dell’Islam politico, il quale alle elezioni per l’Assemblea Costituente del 23 ottobre 2011 ottiene il 37% dei voti. Un popolo che viene raccontato come assiduo frequentatore di internet e abile esperto di blog e social network ma che in poco tempo finisce per diventare ostaggio di salafiti e terroristi, alfieri di chi vorrebbe fare della Tunisia uno stato teocratico dalle pratiche barbare e arretrate.

Il 26 ottobre 2014, tuttavia, Ennahda viene sconfitto di larga misura dal partito Nidaa Tounes, guidato da Beji Caïd Essebsi, politico 88enne dell’epoca del Presidente Habib Bourguiba, primo presidente della Tunisia e raccontato come l’uomo che traghettò il Paese verso lo sviluppo e la laicità. Il 21 dicembre 2014 Essebsi si aggiudica al ballottaggio la Presidenza della Repubblica, battendo il candidato appoggiato da Ennahda, Moncef Marzouki, leader del Congrès pour la République, formazione di ispirazione laica che proprio con Ennahda aveva governato nei primi anni della transizione. Dopo mesi di trattative, il 4 febbraio 2015 un governo di coalizione tra Nidaa Tunes, il partito liberale Afek Tounes ed Ennahda (decisamente sottorappresentato in termini di dicasteri assegnati) si insedia. Qualcuno ha visto in questo governo il fallimento di Ennahda di fronte al ritorno in scena della vecchia guarda di uomini del deep state, la rete che dall’indipendenza a Ben Ali ha creato un sistema di potere che la caduta del regime non ha messo da parte; altri ritengono invece che – soprattutto a seguito di quanto avvenuto in Egitto –Nidaa abbia deciso di scendere a compromessi con un Ennahda indebolito (benché rappresenti comunque la seconda forza politica del Paese).

In molti hanno salutato questi risultati elettorali come il trionfo della democrazia tunisina sull’oscurantismo e la violenza di ispirazione religiosa. Fino al 18 marzo e alla tragedia del Bardo. Il terrorismo e la “minaccia islamica” tornano nuovamente al centro del dibattito, sicurezza e stabilità diventano le parole chiave per un’Occidente spaventato dal “nemico alle porte” (o in casa, riallacciandosi ai fatti di Charlie Hebdo) ma anche per quanti in Tunisia si sentono sinceramente minacciati nella loro incolumità.

Al irhab aala barra. “Il terrorismo deve essere mandato via” si urlava alla manifestazione contro il terrorismo organizzata proprio al Bardo il 29 marzo e che ha visto la partecipazione di circa 50.000 persone, da una parte il proseguo di quella dell’11 gennaio a seguito dell’attacco a Charlie Hebdo, dall’altra ultima di una serie di risposte “in strada” di chi da oltre quattro anni cerca di riprendersi lo spazio pubblico perché la transizione tunisina onori le sue promesse.

Al irhab aala barra. Il terrorismo viene letto come un corpo estraneo al tessuto sociale tunisino, un cancro da estirpare chirurgicamente. Diversi studi sono concordi nello stabilire che circa 3.000 tunisini combattano tra in Siria e Iraq tra le fila di ISIS, Jabhat al-Nusra e altre formazioni armate di matrice radicale. Quello dei foreign fighters non è un fenomeno nuovo in Tunisia (tunisini erano gli attentatori del comandante Massoud in Afghanistan nel 2001, così come già nel 2005 molti tunisini combattevano in Iraq contro l’esercito americano), ma la transizione e i diversi processi in corso nella regione hanno indubbiamente allentano le maglie della rete domestica dell’antiterrorismo, rendendo più agevole la circolazione di uomini e armi.

Al irhab aala barra. Eppure un fenomeno di questa portata non può essere estirpato unicamente con misure di sicurezza.  Il terreno su cui si sono sviluppate queste forme di opposizione e risentimento armato verso l’imperialismo americano, il colonialismo europeo e le élite domestiche conniventi non può essere ignorato. Nella ricomposizione del complesso mosaico mediterraneo, assume particolare significato il fatto che i sollevamenti nella regione si siano innescati a partire dal suicidio di un giovane di Sidi Bou Zid, città di un entroterra che la politica tunisina ha sostanzialmente trascurato –sin dai tempi di Bourguiba – a favore della capitale Tunisi e delle città della costa, centri del turismo e degli investimenti europei che sfruttano il basso costo della manodopera locale per assemblare prodotti poi ritrasportati in Europa per i mercati internazionali. Non è nemmeno un caso che ad aprire il fuoco al Bardo siano stati un ragazzo di Kasserine, altra città ai margini del sistema socio-economico del Paese, e uno di El Omrane, quartiere popolare di Tunisi. Non si tratta necessariamente di situazioni di povertà estrema, quanto piuttosto di realtà di emarginazione e di mancanza di opportunità che trovano in certe forme violente di adesione religiosa un’identità, un ruolo sociale e un modo di rivendicare vendetta e giustizia.

Senza esaurire nella dimensione economica la complessità del fenomeno, una lettura del terrorismo come “nemico da combattere” in nome di stabilità e sicurezza finisce per oscurare l’urgenza di affrontare la spinosa questione di un’economia che da diversi decenni rincorre capitali e domanda esteri e che così facendo non ha fatto altro che acuire le disparità regionali e alimentare una crescita che alcuni economisti dello sviluppo definiscono “predatoria”, ossia a netto vantaggio di pochi detentori del capitale e di chi opera nel settore dei beni di lusso.

La carta del terrorismo può dunque essere utilmente agitata per rinviare indefinitivamente il momento in cui la politica economica dovrà confrontarsi con questi problemi, più volte evidenziati durante le sollevazioni del 2011. Combattere il terrorismo diventa la priorità, le grandi riforme più volte promesse arriveranno con la stabilità, quando il Paese tornerà a essere sicuro per i turisti stranieri e saprà attirare nuovi investimenti esteri.

Ma il terrorismo serve anche per riprendere saldamente le redini del potere, per ritornare alle pratiche del regime di Ben Ali, quando la caccia ai terroristi serviva da una parte a mantenere una stretta alleanza con gli Stati Uniti e dall’altra a fornire una giustificazione di facciata per qualunque tipo di prevaricazione volta a mantenere l’ordine interno. Proprio il giorno dell’attacco al Bardo il Parlamento tunisino si apprestava a esaminare la nuova legge anti-terrorismo che andrà a sostituire quella del 2003, promulgata sotto Ben Ali. Come diverse organizzazioni internazionali e tunisine hanno evidenziato in diverse sedi, il nuovo progetto di legge finisce però per non modificare pressoché nulla. Oltre a prevedere la pena di morte e fornire una definizione di terrorismo molto vaga e passibile di diverse interpretazioni, viene autorizzato il fermo per 15 giorni di “persone sospette” (senza previa decisione di un giudice) e si richiede agli avvocati di violare il segreto d’ufficio “in caso di questioni riguardanti atti di terrorismo”.

Mentre per anni lo spauracchio del terrorismo di una dittatura retriva a matrice islamica ha occupato gran parte della narrazione degli eventi della regione, altri problemi sono stati dimenticati in nome di una laicità illuminista vista come – a seconda degli approcci –condizione necessaria per la democrazia, lo sviluppo, la rivoluzione. Lo scontro tra le forze politiche, la comparsa di nuovi attori, i problemi socio-economici mai affrontati se non con ricette neoliberali (e spesso rimaste lettera morta), la posizione geopolitica della Tunisia – stretta tra l’Algeria e la Libia e legata a doppio filo all’Europa e per alcuni aspetti agli Stati Uniti – sono stati temi ancillari o appannaggio di ristrette cerchie di esperti.

Da qui invece sarà necessario ripartire per riprendere le istanze delle sollevazioni del 2010-2011 ed elaborare una proposta politica che sappia rispondere ai disoccupati di Sidi Bou Zid e Kasserine, alle periferie, ai lavoratori dei call center delocalizzati dalla Francia e dall’Italia a Tunisi, a chi il 29 marzo ha preso le distanze dal terrorismo. Non ci è riuscito Ennahda, non ci sta riuscendo Nidaa, la sinistra con il Fronte Popolare non ha un ruolo né un seguito significativo con il 3% ottenuto alle elezioni. Tuttavia, il proliferare di associazioni e iniziative di ogni sorta durante la transizione mostra quanta energia si sia liberata dopo la caduta del regime di Ben Ali, inducendo a ben sperare che pressoché ovunque nel Paese tanti tunisini stiano lavorando per delle alternative, dimostrandosi di gran lunga migliori della classe politica che attualmente li rappresenta. Non resta che osservare con maggiore attenzione e contribuire per quanto possibile affinché tale lavoro diventi sistema. Facendo in modo che le geremiadi contro l’Islam, la lettura superficiale del terrorismo e l’uso strumentale di questo non occupino tutto il racconto della regione.

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