College Humor, un sito comico americano, ha pubblicato un video chiamato The social consequences of everything: un gruppo di ragazze e ragazzi intorno ai trent’anni scopre di avere la giornata libera e discute su cosa potrebbero fare insieme. Qualunque proposta venga fatta, però, presenta dei problemi: dall’andare a vedere una partita di basket (la NCAA costringe i giovani atleti a mettersi in pericolo fisicamente senza essere pagati) all’andare al cinema (che tipo di industria e di personaggi si sosterrebbero?), dal mangiare praticamente qualsiasi cosa (come, dove e da chi è stata prodotta?) all’andare in spiaggia (non solo arrivarci, ma anche soltanto stare in spiaggia significa inquinare). Una proposta sembra poter risolvere tutto: spararsi un colpo, in modo da “finirla una volta per tutte, liberarsi dalla terribile consapevolezza imposta dall’era dell’informazione; ritornare al passato, quando non c’erano video che ti ricordassero che qualunque tuo atto egoista rende orfano un bambino da qualche parte nel mondo”. Ma nemmeno questo si può fare: si aiuterebbe la lobby delle armi, e poi qualunque opzione di sepoltura è altamente inquinante. Alla fine tutti concordano su un’unica opzione, ossia chiudersi in una cantina buia e aspettare che arrivi domani.

Vorrei concentrarmi qui su due tra i numerosi sensi di colpa presentati nel video: quelli che in inglese vengono chiamati western guilt, il senso di colpa che deriva dal fatto di far parte della parte privilegiata del mondo, e green guilt, il senso di colpa causato dall’impatto ecologico della specie umana, e di ciascuno degli individui che la compongono, sugli ecosistemi della Terra. I due sensi di colpa, peraltro, sono strettamente legati, sia perché le nazioni sviluppate hanno avuto (e hanno) un impatto ecologico maggiore, sia perché il cambiamento climatico non colpisce le diverse zone del pianeta allo stesso modo: come dice il proverbio inglese reso celebre da Ken Loach: “quando piove, sui poveri piovono pietre”.

In un libro del 1946 intitolato Die Schuldfrage (La questione della colpa), il filosofo tedesco Karl Jaspers tentò di riflettere sul concetto di colpa per provare a ricostruire la Germania appena uscita dal Nazismo. Per fare questo, isolò quattro diversi tipi di colpa: la colpa criminale, la colpa politica, la colpa morale e la colpa metafisica. Tutti questi tipi di colpa sono coinvolti nella western guilt e nella green guilt. Abbiamo a che fare con colpe criminali, che vengono giudicate nei tribunali (si veda per esempio il processo contro ENI per la corruzione in Nigeria). Soprattutto, poi, abbiamo a che fare con colpe politiche, ossia con le colpe di chi detiene un potere politico e non fa nulla, per esempio, per tentare di contrastare il cambiamento climatico. Ma anche ciascun cittadino ha colpe politiche, che derivano dal fatto di essere coinvolti in tutto ciò che accade nella nostra società e di poter intervenire proprio grazie alle azioni politiche che decidiamo di compiere o di non compiere. Ci sono poi colpe morali, ossia colpe strettamente individuali, che riguardano la consapevolezza della singola persona riguardo alle conseguenze delle proprie azioni, e che solo la stessa persona può giudicare.

L’opposizione tra le colpe politiche e quelle morali è stata al centro del dibattito in seguito alle manifestazioni per il clima del 15 marzo: un’iniziativa politica in cui i partecipanti sono stati poi accusati di non comportarsi, nella vita di tutti i giorni, in maniera coerente con le loro rivendicazioni. Queste accuse, in generale piuttosto banali e strumentali, nascono però da un problema reale, ossia il fatto che, come singolo, mi sento effettivamente in colpa per azioni che compio, delle quali devo rendere conto di fronte alla mia coscienza: usare un’automobile o prendere un aereo; bere con una cannuccia o da una bottiglia di palstica; mangiare carne o prodotti non locali; strappare un pezzo di carta igienica. In teoria potrei non farlo, ma nonostante questo lo faccio, e l’accesso infinito alle informazioni fa sì che io non possa non conoscere le conseguenze di queste scelte. In questo modo, la percezione delle nostre colpe, sia politiche sia morali, si espande enormemente, fino ad arrivare a una scala globale.

Tutto ciò produce un senso di colpa personale, che ricopre tutte le nostre giornate, soffocandole, che sta già iniziando a provocare crisi di ansia e depressione e porta chi scrive, per esempio, a rimanere minuti e minuti bloccato al supermercato a leggere le etichette, sapendo che tutto ciò che potrà fare è limitare i danni sperando che non sia troppo tardi. Ma, in realtà, è già troppo tardi, per esempio per tutte quelle specie animali e vegetali che si sono già estinte e per tutti gli esseri umani che sono già morti a causa di disastri naturali causati dal cambiamento climatico.

Questo non significa che la western guilt e la green guilt non siano questioni soprattutto politiche: lo sono, e ogni giorno vengono pensate e messe in pratica azioni politiche che cercano di combattere le disuguaglianze globali e l’impatto delle attività umane sull’ecosistema. Il problema, però, risiede nell’attuale prospettiva descritta dalla frase resa celebre da Mark Fisher: se davvero “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”, allora è più facile immaginare la fine del mondo che la fine delle disuguaglianze economiche a livello geografico, perché il capitalismo si basa sulla presenza di disuguaglianze economiche e queste non possono cessare di essere geografiche, perché le risorse naturali su cui si basa la produzione industriale non sono distribuite equamente, tanto quanto non sono distribuiti equamente i centri di potere.

Per quanto riguarda la colpa ecologica, poi, il discorso è ancora più semplice, perché è proprio della fine del mondo che si parla, e gli esiti degli ultimi accordi internazionali sul cambiamento climatico dimostrano come sia molto più semplice immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo (a meno che non esista una via d’uscita interna al capitalismo, senza che sia necessario, quindi, immaginarne la fine: per esempio grazie a tecnologie di ingegneria climatica che invertano il processo di riscaldamento globale senza che ci sia bisogno di cambiare totalmente il paradigma culturale. Non è questa la sede per discutere questa posizione, ma al momento non è ancora chiaro se si tratti di una prospettiva reale o di un’utopia).

Tutto ciò ha come conseguenza l’esaurirsi della componente politica di questo senso di colpa in una serie di preziosissime lotte contro gli effetti del presente, che non riescono però a conquistarsi un orizzonte futuro, un piano a lungo termine per uscire dal realismo capitalista. Accogliere i migranti, costruire ospedali in Sudan, diminuire l’uso di plastica, non mangiare carne e muoversi in bicicletta: tutte queste cause salvano vite (umane e non) ogni giorno. Ma attualmente ci troviamo nella sostanziale assenza di un progetto politico globale realistico per costruire un futuro in cui le speranze e le sofferenze siano equamente distribuite sulla superficie del pianeta e in cui, soprattutto, ci sia ancora un pianeta su cui sia possibile vivere (umani e non). Se politicamente sentiamo di poter fare poco contro il senso di colpa dato dalla consapevolezza delle conseguenze dei nostri atti quotidiani, questo si trasforma in senso di colpa morale, e quindi si individualizza.

A livello individuale, quindi, questo significa che è più semplice immaginare la fine di se stessi piuttosto che la fine della nostra colpa, perché è sostanzialmente impossibile per una persona nata e cresciuta in Italia, per esempio, immaginare uno stile di vita totalmente innocente. Già limitarci a consumare “un pianeta a testa” (ossia la quantità massima di risorse che, se consumata da tutti gli esseri umani, sarebbe comunque sostenibile) richiederebbe uno sforzo enorme. Ma nella situazione attuale non sarebbe sufficiente, perché non fermerebbe il riscaldamento globale in atto. Uno stile di vita realmente innocente significherebbe una totale uscita dalla società per come la conosciamo. Ma in ogni caso nemmeno questo stile di vita risolverebbe niente, perché privo di valore politico nel momento in cui non è imitabile, nei fatti o nei desideri, da tutto il resto dell’umanità. E persino se ipoteticamente lo fosse, sarebbe comunque inutile nel momento in cui non lo si comunicasse il più possibile in modo che venga imitato, con tutta l’ansia comunicativa che ne consegue, ma anche con l’impatto ambientale che ne consegue, perché anche la comunicazione inquina. Insomma, più si prova, nei fatti, a ridurre il proprio impatto ambientale e più ci si accorge di quanto poco si stia facendo.

Cosa significa quindi immaginare la fine di se stessi? Per chi percepisce queste colpe (tutte o una sola in particolare) come troppo opprimenti, inizia una disperata ricerca di un possibile antidoto, di un sollievo anche solo momentaneo: di un sogno in cui, per un attimo, possiamo essere liberi dal rimorso. Questo sogno può prendere molte forme, per esempio la “cantina buia” di cui si parla nel video di College Humor. Ma anche i testi dei Radiohead parlano spesso di senso di colpa e della ricerca impossibile di una situazione di innocenza. In particolare, in due canzoni dell’album King of Limbs, ossia Codexe Bloom, troviamo due diverse espressioni del raggiungimento di una leggerezza impossibile nel nostro presente. Entrambe le canzoni descrivono con brevi immagini delle immersioni nella natura (King of Limbs, tra l’altro, è stato pubblicato poco più di un anno dopo il fallimentare congresso di Copenhagen del novembre 2009, a cui Thom Yorke aveva partecipato, criticandone l’esito). Ma c’è qualcos’altro in queste due canzoni. In Codex, più dolce e arcadica, ci si tuffa in un lago, soli tra le libellule, e per un attimo si può immaginare di non aver fatto nulla di male: l’acqua è cristallina e innocente. In Bloom, più potente ed estatica, si nuota nell’oceano insieme alle creature che lo popolano, finalmente privi di gravità, ma soprattutto privi, per un attimo, del dovere di farsi domande.

Questi sogni rappresentano due possibili vie di fuga dall’oppressione del senso di colpa. Da una parte troviamo la volontà di rinunciare radicalmente a quegli aspetti dell’umanità percepiti come minacciosi per sé o per il mondo, per essere finalmente innocenti. Questa volontà si basa sull’idea che tutto ciò che non è umano è per sua natura sostenibile e quindi puro e libero da colpe. A livello pratico, per esempio, c’è chi teorizza l’anti-natalismo e l’estinzione volontaria della razza umana. Non fa parte degli scopi di quest’articolo discutere in profondità il senso di questa proposta: ciò che si vuol fare emergere è come questa vada nella direzione di un radicale rifiuto di un’idea che viene considerata, dalle stesse persone che la propongono, come basilare della nostra identità umana. Si vede bene, in questo caso, come ogni proposta di distacco dall’antropocentrismo viva sull’ambiguità del concetto di natura (l’essere umano ne fa parte in quanto animale o no?) e su una dialettica estremamente complessa e affascinante tra riavvicinamento alla naturae, contemporaneamente, allontanamento da comportamenti che sono sempre stati ritenuti naturali. Detto in altre parole, se l’essere umano è un animale e deve smettere di sentirsi superiore, perché al contrario degli altri animali provoca l’antropocene? In generale, se è un animale, perché dovrebbe sentirsi in colpa per atti che gli animali compiono normalmente (come riprodursi, ad esempio)? E se non è un animale, cosa lo renderebbe ontologicamente diverso e quindi superiore? Si vede bene qui come il terreno si sposti fatalmente dalla politica alla metafisica, provocando domande non solo di enorme portata, ma anche prive di una risposta, perlomeno oggi.

Tutto ciò provoca l’altra reazione, il sogno di Bloom: la volontà di smettere finalmente di porsi domande, soprattutto domande così difficili. Questo sogno, che nell’espressione originaria dei Radiohead evoca un senso di empatia olistica con gli esseri viventi, si sta materializzando invece in maniera tragica e farsesca in parte dell’opinione pubblica italiana (e non solo) nei confronti del fenomeno migratorio. Quest’ultimo è il simbolo più evidente del privilegio geografico dei paesi occidentali (privilegio aggravato, come già detto, dai mutamenti climatici). Stiamo assistendo sempre di più a dichiarazioni di esplicito rifiuto dell’identificazione e dell’empatia nei confronti dei migranti, in quanto problema che “non ci riguarda”. A questo proposito, Christian Raimo scriveva su Facebook il 20 gennaio: “La strategia comunicatica di Salvini serve essenzialmente a questo: poter dismettere l’empatia, con una battaglia quotidiana contro questo sentimento, e poter ricavare uno spazio franco per qualunque altra cosa. La sua promessa politica è solo questa: votami, seguimi, sostienimi, e non avrai empatia, con tutte le ansie che ne derivano”. O, come ha commentato qualcuno sotto al post, “con tutte le ansie che non ne derivano”.

Per quanto riguarda la colpa ecologica, poi, stiamo assistendo, soprattutto negli Stati Uniti e in Brasile, a una semplice e totale negazione del problema, o forse sarebbe più corretto dire rimozione: un aggrapparsi a leader che, come Trump e Bolsonaro, non solo affermano “non è un problema nostro” ma molto spesso dichiarano “non è un problema”. Ma la stessa rimozione la mettiamo in atto tutti noi, sia quando cambiamo canale per evitare di vedere un altro documentario catastrofista, sia quando scorriamo più rapidamente la nostra bacheca di Facebook per far scomparire l’ennesimo post sulla plastica negli oceani, sia quando tutte le mattine ricominciamo la nostra normale vita inquinante: cos’altro potremmo fare?

È possibile che ricondurre tutti questi comportamenti, sia privati che pubblici, al senso di colpa, possa sembrare un tentativo di scusare chi sta trascinando il nostro pianeta verso il baratro del totalitarismo e del riscaldamento globale. Qui, ovviamente, non si tratta di scusare nessuno, né di condannare nessuno: a quello ci penseranno, forse, gli storici del futuro (e non è detto che avranno ragione). Tantomeno si tratta di sostenere che tutto ciò che accade al mondo sia riconducibile al senso di colpa: è evidente che pesi anche la voglia egoistica di non perdere i propri privilegi posizionali, tra i quali c’è ovviamente quello di potersi proteggere molto più efficacemente dalle catastrofi ambientali. Così come è evidente che pesi la difficoltà di percepire un pericolo lontano nel tempo e nello spazio e, soprattutto, diffuso (il riscaldamento globale non arriva all’improvviso e, quando lo fa, spesso non arriva sotto forma di riscaldamento, paradosso che Trump non si stanca mai di sottolineare). Ciò che però credo sia importante notare è come questo complesso di reazioni umane di fronte ai grandi problemi del nostro tempo passi attraverso la nuova drammatica consapevolezza dataci dalla connessione ininterrotta e dal costante accesso alle informazioni, e come all’interno di questo complesso di reazioni il senso di colpa sia presente e occupi un posto importante in molte persone, se non in tutte, anche se con risultati diversi.

Questo senso di colpa totale e onnipresente sarebbe, secondo alcuni, soltanto una rielaborazione laica del peccato originale della tradizione cristiana (lo stesso Jaspers, in effetti, costruisce il suo pensiero su una base dichiaratamente religiosa). E c’è chi propone proprio di rifiutare la componente morale di queste colpe per riappropriarci totalmente della loro dimensione politica, in modo da poter reagire. In questa prospettiva, sarebbe inutile e persino controproducente sentirci in colpa ogni volta che facciamo la spesa, perché questo senso di colpa è focalizzato sul singolo, e non è al livello delle scelte individuali che si combattono le battaglie politiche. Concentrarsi sulle colpe politiche, invece, permetterebbe di trasformare il senso di colpa in azione politica, in cambiamento. Il primo, infatti, è molto poco utile, se non in una prima fase di presa di coscienza. Immediatamente dopo ci si dovrebbe rimboccare le maniche per decostruire gli aspetti oppressivi delle nostre società e costruirne una nuova.

Questa posizione di rifiuto del senso di colpa morale ha sicuramente dei punti di forza, il più importante dei quali è quello di liberare l’individuo da quel fardello insopportabile che ho cercato di descrivere in modo da permettergli di concentrarsi su ciò che ancora possiamo fare per migliorare le cose (sgombrando anche il campo da accuse di incoerenza individuale che renderebbero impossibile ogni azione). È interessante, in questo senso, andarsi a rileggere un reportage di John Richardson, pubblicato da Esquire nel 2015. In questo articolo Richardson intervista alcuni climatologi, tra quelli ritenuti più influenti nel campo, e racconta come la loro vita è cambiata nel corso degli anni. Ciò che emerge sono spaccati di vita che presentano una continua oscillazione tra tre poli: la ricerca scientifica “pura”, fatta nel modo più freddo e distaccato possibile; l’attivismo politico, per cercare di cambiare le cose; e, infine, momenti di ansia, disperazione e depressione dovuti alla sensazione che sia già troppo tardi, che non stiamo ancora facendo nulla come specie e che loro stessi potrebbero fare di più come singoli. Queste oscillazioni possono prendere anni, ma anche avvenire nell’arco delle ventiquattro ore (la notte, in quanto tempo privato, è quando i climatologi raccontano di sentirsi più disperati). Nella conversazione finale con Jason Box assistiamo addirittura a cambi repentini di umore e di argomento, in costante spostamento tra le tre condizioni, la terza delle quali (disperazione/senso di colpa) è considerata come pericolosa, proprio perché porterebbe all’inattività e alla semplice contemplazione del disastro.

Ma è davvero possibile cancellare la parte di sé che ha paura e che percepisce il senso di colpa legato alle conseguenze dirette delle proprie azioni? Ignorare le conseguenze dirette dei propri atti individuali non rischia di farci credere ancora una volta, come tante volte in passato, che “il fine giustifica i mezzi”? Anche ammesso che l’efficacia politica delle nostre azioni aumentasse, non rischiamo così di sopprimere una tensione empatica che, invece, andrebbe coltivata, per fare in modo di rendere i nostri passi futuri più consapevoli della rete di relazioni, umane e non, che ci circondano, e degli effetti dei nostri atti? Mi piacerebbe qui iniziare una rivendicazione della western e della green guilt: mi piacerebbe proporre di abbracciarle e andarne orgogliosi. Ma la verità è che non credo sia questo il punto. Il punto è che, sia che questi sensi di colpa servano, sia che non servano, rimane il fatto che esistono e che cercare di sradicarli avrebbe, probabilmente, come unico effetto quello di farci sentire in colpa per il fatto di sentirci in colpa.

Forse una risposta la si può trovare nel quarto e ultimo tipo di colpa descritto da Jaspers: la colpa metafisica, definita come la violazione di quell’impulso che lega le persone le une alle altre e che impone “che si viva insieme o che non si viva affatto”. Questa colpa è evidentemente legata in maniera profonda con la colpa politica e con quella morale. Tuttavia, si distingue dalla prima per il suo essere comunque concentrata sull’individuo, ma si distingue anche dalla seconda, per il fatto di non essere legata alle conseguenze delle azioni personali dell’individuo, bensì alla pura consapevolezza generale dell’esistenza della sofferenza, anche al di fuori dei confini della propria società.

L’accesso infinito alle informazioni che caratterizza la vita contemporanea, quindi, allarga anche questo tipo di consapevolezza, fino a permettergli di abbracciare persone distantissime da noi e, nel caso della colpa ecologica, di spostare ancora più in là i confini della colpa metafisica di Jaspers, arrivando ad abbracciare non solo tutti gli esseri umani, ma anche tutti gli esseri viventi, presi singolarmente, come specie o persino come sistemi. Qui, secondo me, sta il cuore della questione, ossia tutto ciò che di utile possiamo ricavarne: la possibilità di un’empatia che non solo non conosce confini nazionali e spaziali, ma nemmeno di specie o di regno biologico. Forse la vera domanda è, quindi: è umanamente possibile mantenere questa empatia estesa a livello planetario e oltreumano, sostenendone gli inevitabili (almeno per ora) sensi di colpa e, contemporaneamente, cercando di evitare che questi blocchino la nostra azione politica?

 

Fonti bibliografiche:

Alessiato, Elena, Karl Jaspers e la politica. Dalle origini alla questione della colpa, Napoli, Orthotes, 2012.

Jaspers, Karl, La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania, trad. di A. Pinotti, Milano, Raffaello Cortina, 1996.

Print Friendly, PDF & Email