#omaggio a Toni Negri 15

Il mio primo contatto con Toni Negri fu attraverso un libro che mi prestò un compagno a fine anni Ottanta, quando avevo circa vent’anni e muovevo i primi passi nella militanza. Era un Feltrinelli del 1980, quando la Feltrinelli era ancora quella Feltrinelli nota per dare voce soprattutto al movimento operaio, e si intitolava Il Comunismo e la guerra, con una bellissima copertina in cui c’era un soldataccio tedesco che credo fosse dipinto da Otto Dix o Max Beckmann, ma potrei sbagliarmi. Provai a leggerlo ma mi fermai alla prima pagina perché non ci capivo assolutamente niente.

Questa non comprensione era il segno non solo della mia ignoranza, ma soprattutto di una cesura netta tra i movimenti degli anni Settanta e la mia generazione, quella successiva, cesura dovuta alla repressione costruita su teoremi giudiziari infami e infamanti, leggi eccezionali e carcerazioni preventive, pagina nerissima della storia italiana e di quella sinistra che l’ossessione di andare al governo aveva reso più reazionaria del re.

In definitiva, noi eravamo orfani, avevamo vissuto in anni in cui oltre alla repressione effettiva c’era stato il repulisti ideologico e culturale, la politica era demodé e chi provava indignazione, rabbia, era costretto quasi sempre a coltivarle individualmente, in forma nichilista o autodistruttiva, oppure a trovare forme di aggregazione giovanili che ne erano il surrogato, come lo stadio, che però avevano il merito di mantenere viva quella irriducibilità al perbenismo borghese.

Proprio quella sensazione di avere avuto qualcosa di grande alle spalle che però il sistema cercava di rimuovere per restituirci un nulla, ci portò negli anni successivi, sull’onda di movimenti come la Pantera, a ricercare il contatto con quelli venuti prima di noi.

E lì trovammo Toni e tutti gli altri.

I collettivi che si erano creati nelle università italiane tra 1989 e 1990 cominciarono a frequentare i seminari di Parigi, dove i fuoriusciti italiani ormai da anni lavoravano e pensavano collettivamente su temi come quello degli intermittenti, ovvero i precari, ovvero la nuova composizione del lavoro che in Italia a quei tempi era stata affrontata solo da autori come Sergio Bologna e pochissimi altri. Erano delle vere e proprie scuole di formazione politica che capitavano a fagiolo negli anni della fine della prima repubblica e del primo berlusconismo. Anche il Cavaliere non sfuggiva al pensiero post-operaista: era visto come “imprenditore politico”, capace cioè di organizzare le diverse componenti della società per estrarre valore attraverso la macchina spettacolare che aveva messo in piedi; poi era stato costretto a farsi anche politico in senso stretto per continuare a imporre il comando. Quante intuizioni che non vennero mai recepite dalla sinistra tradizionale, tutta impegnata a combattere il Berlusca su un piano esclusivamente morale, ma forse soprattutto moralista.

E che eccitazione intellettuale, per noi, quei giorni dei seminari di Parigi in cui incontravamo interessantissimi tipi bizzarri che non erano più tornati in Italia da 15 anni e parlavano oramai l’italiano come Hercule Poirot, ognuno con la sua storia particolare di persecuzione giudiziaria, sofferenza, talvolta patologia, ma con la sacra fiamma della rivoluzione ben accesa. E poi facevamo i flaneur per Parigi, come i transfughi degli anni Trenta. Lì ci nutrivamo, dunque, e poi avremmo costituito quelle reti e quella militanza che arrivò fino a Genova 2001.

Poi andai in Cina e mi è sempre stato molto chiaro che per me il giornalismo era lo strumento per fare ricerca sul campo con la scusa del lavoro, collocarmi in un punto di vista privilegiato sui processi di globalizzazione, trovare – con Toni e gli altri compagni – la piega divergente rispetto all’ordine delle cose: sia nelle contraddizioni interne alla Cina, sia nella Cina stessa come alter ego o opponente o elemento parzialmente deviante all’ordine neoliberale concepito ed esportato a Occidente.

Quello che ci aveva sparato addosso a Genova.

Ovviamente, il tutto andava fatto divertendosi e trovando nuovi compagni, perché il comunismo è gioia.

Dopo scambio epistolare, tornai a trovare Toni a Venezia nel 2013. Parlammo dell’irruzione della Cina sul mondo, della contraddizioni di quel modello di sviluppo, di eventuali forme di soggettivizzazione emergenti. C’era una caratteristica in lui che in questi giorni tutti coloro che l’hanno conosciuto hanno sottolineato: era dannatamente curioso, di tutto, sempre, febbrilmente eccitato. A volte ti metteva quasi in soggezione perché ti aspettavi che fosse lui a raccontare o spiegare qualcosa e invece no, chiedeva a te. E tu restavi spesso spiazzato. In quell’occasione, Toni mi disse che a breve sarebbe tornato in Francia.

Quando venne a Pechino, nel 2014, invitato per un ciclo di conferenze all’università Tsinghua da Wang Hui – che possiamo definire “il Toni Negri Cinese” e che conoscevo per la mia attività di giornalista – lo stesso Wang mi contattò e mi offrì il privilegio di portare un po’ in giro Toni, un modo molto gentile e molto cinese per comunicarmi che lui aveva altro da fare e che gli serviva una specie di guida turistica per l’illustre invitato. Le conferenze furono affollatissime, Toni era per gli studenti cinesi una pop-star e ricordo il suo imbarazzo quando doveva sottoporsi al rito del selfie ripetuto all’infinito. La prima sera, gli chiesi dove volesse essere portato a cena, domanda che si fa sempre a chi arriva a Pechino: vuoi mangiare cinese o occidentale? Toni mi rispose che voleva una pizza, lo portai nella pizzeria che ai tempi aveva la fama di essere la migliore di Pechino e quando fummo là, mi confessò di esserci già stato la sera prima con il comitato d’accoglienza della Tsinghua. Toni era curiosissimo, ma sul cibo forse anche no (resto con il dubbio).

La seconda, sera gli feci conoscere un po’ di amici italiani residenti a Pechino, quasi tutti giovani, professionisti in diversi settori, cervelli in fuga. Erano molto emozionati e si aspettavano probabilmente pensieri e illuminazioni, ma il professore, secondo canovaccio già visto, li incalzò uno a uno, chiedendo loro in forma molto diretta e quasi brutale: “Insomma, in definitiva, tu qui che cosa fai?” Toni acquisiva informazioni da ogni cosa, ecco la proverbiale curiosità.

Un giorno mi chiese di andare al Tempio del Cielo e ho ancora una sua foto con lo sfondo del tempio e di una coppia di sposi cinesi che – lei in abito bianco lungo e lui in completo nero da pinguino, tutto all’occidentale – posano per l’album del matrimonio. Mi era piaciuto mettere Toni in posa di fronte a uno sfondo che racchiudeva il frullatore culturale, simbolico, stralunato e accelerato della Cina di oggi. Lì, il nostro Toni aveva tanto materiale a cui attingere; ma trovare una sintesi non sarebbe stato facilissimo neanche per lui.

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