In occasione della cerimonia funebre per salutare Antonio Negri al Père Lachaise di Parigi, oggi, 3 gennaio 2024, pubblichiamo il capitolo “Chiamiamo comunismo…” (pp. 9-15) tratto dal libro di Félix Guattari e Toni Negri “Nuovi spazi di libertà“, da poco ripubblicato dalla casa editrice Orthotes di Napoli. Ringraziamo l’Editore per la gentile concessione.

 

#omaggio a Toni Negri 25

La parola comunismo è bollata d’infamia. Perché? Benché essa indichi la liberazione dal lavoro come possibilità di creazione collettiva, è stata resa sinonimo dello schiacciamento dell’uomo sotto il peso del collettivismo. Da parte nostra, la concepiamo come la via della liberazione delle singolarità individuali e collettive, cioè il contrario dell’irregimentazione dei pensieri e dei desideri.

I regimi collettivisti che si richiamano al socialismo sono evidentemente falliti. Tuttavia, la questione del capitalismo permane. Le promesse di libertà, di uguaglianza, di progresso, di “lumi” sono state tradite dall’una e dall’altra parte. Le organizzazioni capitalistiche e socialiste sono divenute complici; hanno unito i loro sforzi per dispiegare sul pianeta una immensa macchina per rendere schiava la vita umana sotto tutti i suoi aspetti, il lavoro così come l’infanzia, l’amore, la vita, la ragione così come il sogno e l’arte. L’uomo che, una volta, faceva del suo lavoro e della sua qualificazione una dignità, si trova, qualunque sia la sua posizione, costantemente minacciato dalla degradazione sociale: disoccupato, miserabile, assistito in potenza.

Invece di operare per l’arricchimento dei rapporti tra l’umanità e il suo ambiente naturale, l’uomo lavora senza posa all’esclusione da essa attraverso processi di meccanizzazione.

Il lavoro e la sua organizzazione capitalistica e/o socialista sono diventati la fonte di tutte le irrazionalità, in cui si annodano tutte le costrizioni e tutti i sistemi di riproduzione e di amplificazione di queste costrizioni, che arrivano così a infiltrarsi nelle coscienze, a proliferare in tutti i percorsi della soggettività collettiva. Il primo imperativo di questa gigantesca macchina di assoggettamento capitalistico è la messa in opera di una rete implacabile di sorveglianza collettiva e di autosorveglianza capace di impedire ogni fuga da questo sistema e di arginare ogni tentativo di mettere in discussione la sua legittimità politica, giuridica e “morale”. Nessuno può sottrarsi alla legge capitalistica che è diventata la legge della cecità per eccellenza, la legge delle assurde finalità. Ogni sequenza di lavoro, qualunque sia la sua natura, è sovradeterminata da questo imperativo di riproduzione dei modi di valorizzazione e delle gerarchie capitalistiche.

Perché la parola comunismo è diffamata e perseguitata da quegli stessi che essa pretendeva di liberare dalle loro catene? Perché, forse, si è lasciata contaminare dal “progressismo” del capitale e dagli imperativi della razionalità del lavoro? I dispositivi capitalistici si sono appropriati del discorso comunista per spogliarlo dalla sua capacità di analisi e dalla sua potenza di liberazione. Anche le diverse varietà di socialismo sono andate in cancrena a causa delle epidemie di “recupero”.

All’“etica” della rivoluzione sociale, gli uni e le altre hanno preteso di sostituire una nuova trascendenza dei valori di riferimento, dotata di una logica unicamente strumentale. Il sogno della liberazione è diventato un incubo. Tutte le rivoluzioni sono state tradite e il nostro avvenire sembra gravato da una inerzia storica insormontabile.

Ci fu un tempo in cui la critica attaccava, giustamente, il concetto di mercato. Oggi le anime traumatizzate si sottomettono passivamente al suo giogo, considerato come la condizione meno oppressiva della pianificazione capitalista e/o socialista.

Bisogna reinventare tutto: le finalità del lavoro cosi come la disposizione del socius, i diritti e le libertà. Così noi ricominciamo a chiamare comunismo la lotta collettiva per la liberazione del lavoro, cioè, in primo luogo, per la cessazione dello stato di cose presenti. Gli economisti dalla testa vuota dettano legge su tutti i continenti. Il pianeta è inesorabilmente devastato. Prima di tutto dobbiamo riaffermare che non è vero che ci sia solo una via: quella dell’imperium delle forme capitaliste e socialiste del lavoro. La loro persistenza e la loro vitalità relativa dipendono, in larga parte, dalla nostra incapacità di ridefinire un progetto e delle pratiche di liberazione. Noi chiamiamo comunismo l’insieme delle pratiche sociali di trasformazione delle coscienze e delle realtà a livello politico e sociale, storico e quotidiano, collettivo e individuale, consapevole e inconsapevole. Il discorso è già un atto. Realizzare un altro discorso sull’esistente può innescare la sua distruzione.

Il nostro comunismo non sarà perciò un fantasma che si aggira sulla vecchia Europa. Noi lo vogliamo come una immaginazione che si leva da processi insieme collettivi e individuali, che spazza il mondo con un’onda immensa di rifiuto e di speranza. Il comunismo non è altro che il grido della vita che rompe l’accerchiamento dell’organizzazione capitalista e/o socialista del lavoro, che spinge oggi il mondo, non più soltanto verso un surplus di oppressione e di sfruttamento, ma verso lo sterminio dell’umanità.

Lo sfruttamento si è fatto minaccia di esecuzione capitale sulla base dell’accumulazione nucleare, e del pericolo di distruzione e di guerra che essa genera.

Noi non siamo deterministi. Ma oggi non è necessario esserlo per riconoscere che la catastrofe è presente e vicina, se noi lasciamo il potere all’organizzazione capitalista e/o socialista del lavoro. Sventare la catastrofe è compiere un’azione collettiva di libertà.

La vita quotidiana è percorsa da fremiti di paura. Una paura che non è più quella che descriveva Hobbes – guerra permanente dell’uno contro l’altro, segmentarietà feroce degli interessi e delle volontà di potere – si tratta ora di una paura trascendentale, che infiltra la morte nelle coscienze individuali e polarizza tutta l’umanità attorno ad un punto di catastrofe. Promossa al titolo di divieto fondamentale, la speranza è bandita da questo universo glauco. La vita quotidiana non è altro che tristezza, noia, monotonia, quando non arriva più a organizzarsi per rompere il senso di questa spaventosa palude di assurdità. La parola collettiva – il discorso pretenzioso, festa del logos o complice concertazione – è stata espropriata dal discorso dei massmedia. Le relazioni tra gli uomini sono segnate dall’in-differenza, il misconoscimento simulato della verità dell’altro e, di conseguenza, della propria, che ognuno finisce per detestare. Il che tuttavia non impedisce di soffrirne! La trama dei sentimenti più elementari si disgrega, nella misura in cui non arriva più ad annodarsi a linee di desiderio e di speranza. Una guerra larvata attraversa il mondo da trent’anni, senza che la coscienza collettiva la percepisca come avvenimento chiave della storia, come impresa di distruzione massiccia, tenace, accanita.

Da allora, le coscienze polverizzanti-polverizzate non hanno altra risorsa che abbandonarsi a una individualizzazione della disperazione, ad una implosione personale dell’insieme degli universi di valore. Tutte le forme particolari d’impotenza trovano il loro ancoraggio in questa paura e paralisi massiccia della vita. Solo la barriera del nonsenso sbalordito dell’esistenza ritarda, forse ancora per poco, la trasformazione brutale della disperazione in passione del suicidio collettivo. Lo sfruttamento ha assunto il volto della paura: una paura universale fisica e metafisica delle linee di singolarità del desiderio, così come delle tentazioni di intrecciare per il mondo altre linee di avvenire.

E tuttavia, lo sviluppo delle scienze e della potenza produttiva del lavoro ha raggiunto la soglia di una alternativa (princept) fra lo sterminio e il comunismo, intesa come liberazione del lavoro, riappropriazione non della ricchezza prodotta (questo sterco che non si può utilizzare più neanche come letame), ma valorizzazione delle potenzialità della produzione collettiva.

Il comunismo consiste nel creare le condizioni per l’emergere di un permanente rinnovamento dell’attività umana e della produzione sociale con il dispiegamento di processi di singolarizzazione, di autorganizzazione, autovalorizzazione. Solo un immenso movimento di riappropriazione del lavoro, in quanto attività libera e creatrice, in quanto trasformazione dei rapporti tra soggetti, solo un disvelamento delle singolarità individuali e/o collettive, schiacciate, bloccate, dialettizzate, dai ritmi dell’oppressione, genererà nuovi rapporti di desiderio suscettibili di ribaltare la situazione presente.

Il lavoro può essere liberato, perché è per propria essenza un modo di essere dell’uomo tendenzialmente collettivo, razionale, solidale. Il capitalismo e il socialismo lo sottomettono a una macchina, logocentrica, autoritaria, potenzialmente distruttiva. L’abbassamento dei livelli di sfruttamento diretto e mortale, che i lavoratori sono riusciti a imporre attraverso i loro movimenti progressisti nei paesi ad alto sviluppo industriale, è stato pagato da un’accentuazione e da un cambiamento della natura della dominazione, con la diminuzione dei gradi di libertà, rendendo precaria la pace nelle zone limitrofe, marginali o a sviluppo industriale debole dove lo sfruttamento del lavoro si è, in sovrappiù, intrecciato con lo sterminio per fame. La diminuzione relativa dello sfruttamento nelle zone metropolitane è stato pagato con lo sterminio nel Terzo e Quarto Mondo. Non è un caso se tutti questi fenomeni avvengono nello stesso momento in cui una liberazione del lavoro diventa possibile attraverso la sua riappropriazione da parte dei nuovi proletariati, delle scienze e delle tecniche più evolute. È fondamentalmente in causa, la capacità delle comunità, delle razze, dei gruppi sociali, delle minoranze di ogni tipo, di conquistare un’espressione autonoma. Nessuna causalità storica, nessun destino impone che la potenza liberatrice del lavoro sia condannata, man mano che aumenta, a una crescente manipolazione e oppressione. Come arriva il Capitale a utilizzare la forza collettiva del lavoro nelle sue variazioni infinite come variabile dipendente, mentre essa stessa si presenta, nelle particolarità e nelle variazioni che la costituiscono, come un invariante non delimitabile? È con questa aporia, sotto le sue forme costantemente rinnovate, che i nuovi movimenti della trasformazione sociale dovranno necessariamente confrontarsi.

Il rifiuto del lavoro, come prospettiva di lotta e come pratica spontanea, tende alla distruzione delle strutture tradizionali, ostacolo di una vera liberazione del lavoro. Si tratta, ora e subito, di accumulare un altro capitale, quello di una intelligenza collettiva della libertà, capace di pilotare le singolarità fuori dall’ordine di serialità e di unidimensionalità del capitalismo. Si tratta di sostenere i processi di emergenza e di amplificazione dei progetti di liberazione, in altri termini, di una riconquista del controllo sul tempo della produzione, che è l’essenziale del tempo della vita. La produzione di nuove forme di soggettività collettiva, capaci di gestire secondo finalità non capitalistiche la rivoluzione informatica e delle comunicazioni, della robotica e della produzione diffusa, non rientra affatto nel campo dell’utopia. Si inscrive all’attuale crocevia della storia come una delle sue poste fondamentali. Ne va della capacità dell’umanità di decollare dai suoi antichi campi d’inerzia per superare “il muro” dei saperi e dei poteri legati alle vecchie stratificazioni sociali.

Considerato da questo punto di vista, il comunismo è fondazione e riconoscimento di vite comunitarie e di liberazione di singolarità. Comunità e singolarità non si oppongono. L’edificazione del nuovo mondo non oppone il processo di singolarizzazione e l’arricchimento delle potenzialità collettive. Queste due dimensioni sono parte integrante della liberazione del lavoro. Lo sfruttamento del lavoro, in quanto essenza generale, produce la generalità; ma in quanto processo liberatorio e creativo, il lavoro genera modi d’essere singolari, una proliferazione di nuovi possibili. Il rizoma di processi autonomi e singolari che esso può costituire si arricchirà infinitamente di più sul terreno di una nuova collettività che sotto il giogo di una codificazione capitalistica sovradeterminata. Il comunismo non è collettivismo cieco, riduttore, repressivo. È l’espressione singolare del divenire produttivo di collettività che non sono riducibili, “rapportabili” le une alle altre. E questo divenire stesso implica una rimessa in azione continua, una difesa, un rafforzamento, una amplificazione, una riaffermazione permanente di questo carattere di singolarità. È anche a questo titolo che qualificheremo il comunismo come processo di singolarizzazione. Il comunismo non potrebbe essere, in nessun modo, ridotto a una adesione ideologica, a un semplice contratto giuridico, o a un egualitarismo astratto. Poiché vi si trovano messe in discussione le finalità collettive del lavoro, si inscrive nel prolungato confronto che attraversa la storia lungo linee sempre nuove.

Su questo terreno sono già mature numerose alleanze di nuovo tipo. Hanno cominciato a cercarsi a tentoni fin dalla fase spontaneista e creativa che si è sviluppata parallelamente alla grande disaggregazione-riaggregazione che abbiamo conosciuto negli ultimi tre decenni. Per meglio individuarle e comprendere la loro importanza, si possono distinguere:

gli antagonismi molari che si esprimono sul piano delle lotte contro lo sfruttamento; attraverso la critica dell’organizzazione del lavoro; attraverso la prospettiva della sua liberazione;

– e la proliferazione molecolare dei processi singolari che trasforma irreversibilmente i rapporti degli individui e delle collettività con il mondo materiale e il mondo dei segni.

Andare avanti sul terreno degli antagonismi molari contro le formazioni di potere capitaliste e/o socialiste può contribuire, in modo decisivo alla maturazione dei mutamenti relativi ai dispositivi produttivi e viceversa! Ma la posta in gioco che la strutturazione e i modi di soggettivizzazione della forza collettiva del lavoro costituiscono resta fondamentale: è il terreno sul quale si registrano, in ultima istanza, la distruzione del capitalismo e/o del socialismo e l’instaurazione di una società finalizzata alla liberazione delle nuove singolarità che sono così nella condizione d’essere contemporaneamente il contenuto e il mezzo della rivoluzione. Strappiamo il sogno glorioso del comunismo alle mistificazioni giacobine e agli incubi staliniani; rendiamogli la sua potenzialità di articolazione e di alleanza tra la liberazione del lavoro e la generazione di nuovi modi di soggettività.

Singolarità, autonomia e libertà sono le tre linee di alleanze che verranno ad annodarsi sul nuovo pugno levato contro l’ordine capitalista e/o socialista. A partire da esse potranno essere, fin dal presente, inventate forme adeguate d’organizzazione per l’emancipazione del lavoro e della libertà.

 

 

 

 

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