Open pathway trough the slow sad sail

Trough wide to the wind the gates to the wandering boat

For my voyage to begin to the end of my wound

(Dylan Thomas)

(Apri un varco nella lenta, nella lugubre vela

Schiudi al vento le porte del vascello vagante

Perché inizi il mio viaggio verso la fine delle mie ferite)

(trad. Ariodante Marianni)

 

La guerra prende piede, cresce giorno dopo giorno, una vera e propria tempesta che non lascia intravedere momenti di tregua. In Ucraina non è solo un conflitto di trincea, uno scontro fra soldati per la conquista di aree territoriali e per la distruzione delle risorse del nemico. Non c’è dubbio che sia anche questo, come non c’è dubbio che al fronte muoiano, accanto ai militari di professione,  migliaia e migliaia di soggetti rastrellati, costretti ad indossare la divisa, o, anche, volontari vittime della propaganda nazionalista. Però non basta. Piovono bombe lanciate dai droni, cadono missili, la strage di civili prosegue senza sosta. I fabbricanti di armi si arricchiscono, godono di scandalose agevolazioni fiscali, vengono lautamente pagati con il denaro sottratto alla sanità, all’istruzione, alle pensioni, ai resti di welfare eroso. L’opposizione alla guerra, anche se proposta senza foga o quasi sottovoce, viene immediatamente equiparata a tradimento, diserzione, crimine contro le istituzioni. La chiamata alle armi è contagiosa. A Gaza ha preso la forma del massacro. Poco importa la qualificazione tecnico-giuridica, se si tratti di genocidio o meno. Rimane una carneficina, con le immagini di soldati felici di uccidere, consuete durante ogni strage della popolazione consumata da un esercito occupante, incitato dai comandanti a rimuovere ogni forma di scrupolo morale. La guerra si è allargata al Mar Rosso per colpire il popolo yemenita, tramite consapevoli provocazioni lambisce le coste cinesi rischiando di aprire un nuovo focolaio, non cessa di mietere cadaveri in molti paesi africani già piegati dalla fame e dagli espropri, cova sotto la cenere in America Latina e nell’area asiatica. La tempesta infuria nel pianeta, indifferente alle crisi energetiche o al disastro ecologico, l’avidità è arrogante, la cupio dissolvi  è accettata o rimossa.

A pochi chilometri dalla tempesta, nei territori dell’occidente europeo e nordamericano, anche in Italia, domina invece la bonaccia. C’è un clima di imperturbabile insensibilità, rotto, ma per brevi periodi, da proteste circoscritte (da ultimo quella di coltivatori e allevatori) che non riescono mai a coinvolgere davvero l’intera comunità e poco a poco inaridiscono, lasciando fra i protagonisti un senso di impotenza e un sentimento di rassegnazione che rafforza il potere e favorisce il dispotismo. Dentro la bonaccia si allarga la forbice fra ricchi e poveri, aumenta il disagio; l’apatia non è speranza nel futuro, ma immotivata illusione di poter essere risparmiati, di sfangarla senza troppi danni. Significativa di questo tempo di bonaccia è l’indifferenza che ha accompagnato l’insabbiamento della rivendicazione di un salario minimo a tutela dei lavoratori adibiti alle prestazioni più pesanti, espropriati del loro diritto ad esistenza dignitosa, inchiodati allo sfruttamento intensivo. Eppure, nonostante l’apatia che si riscontra nella bonaccia, è impossibile non cogliere nella nostra esistenza quotidiana i segnali, dentro le comunità, di un rancore diffuso, di una rabbia repressa ma pronta ad esplodere, di una disponibilità alla prevaricazione, al conflitto con altri sventurati, dimenticando come, storicamente, la solidarietà sia l’unica via d’uscita dalla servitù. In questi ultimi anni è accaduto che i tagli alla sanità abbiano arricchito le c.d. Big Pharma e l’erosione costante del welfare si accompagni all’incremento delle spese militari a vantaggio di chi costruisce armi: grazie alla coerente continuità dei diversi governi emersi dalle elezioni sui punti fondamentali che non prevedono dissenso (e non lo consentono neppure, a costo di usare minaccia, ricatto, perfino la forza bruta). La tempesta in atto, questo tempo di guerra, serve a ricordare a coloro che vivono nella bonaccia quel che li aspetta in caso di ammutinamento o di attacco al profitto. La domanda di pace viene percepita dal potere politico e dalle imprese dominanti come una rivendicazione eversiva, comunque come azione di contrasto alla c.d. economia di mercato.

Dentro la bonaccia prosegue intanto il processo di transizione, con introduzione di norme che accompagnano la trasformazione del vecchio stato-nazione a carattere socialdemocratico-liberale in un nuovo organismo istituzionale attrezzato per piegare le residue resistenze del precariato, dunque necessariamente e inevitabilmente autoritario. Il meccanismo di governo chiamato pilota automatico (per usare la suggestiva definizione che diede a un tale sistema Mario Draghi, l’amerikano per antonomasia) sembra funzionare anche dopo la vittoria elettorale dei neofascisti e dei loro alleati: Giorgia Meloni non abbandona, laddove opera il vincolo, la via tracciata da chi l’aveva preceduta, proseguendo anzi nella medesima direzione. I titolari dei tre ministeri-chiave (economia, esteri, difesa: Giorgetti, Tajani, Crosetto) hanno mantenuto gli impegni di spesa militare, l’appoggio incondizionato agli Stati Uniti del “democratico” Biden, le politiche di austerità, i tagli alla spesa sociale, la rinuncia a colpire i profitti delle strutture di grande impresa finanziarizzata con l’imposizione fiscale. L’istruzione, la ricerca e l’università, privi di fondi e risorse, sono facile preda delle privatizzazioni,  incoraggiate ora come prima; l’unica differenza, ideologica e spettacolare, consentita alla destra sta in un maggior uso dei gendarmi, dei giudici e delle sanzioni disciplinari contro gli studenti riottosi che occupano o scioperano. Il messaggio trasmesso dal ministro Valditara è che il rigore o l’ordine possano essere il fondamento della scienza e del sapere; una bubbola diffusa a reti unificate e spacciata per verità a suon di botte! La continuità in tema di salute è assicurata da un brillante ordinario e primario, il professor Schillaci: maggioranza e opposizione sono tranquille, la medicina pubblica, con lui al dicastero, non sarà di ostacolo ai progetti di quella privata, farà il possibile anzi per agevolare la conquista del mercato italiano.

Spicchi di autonomia consentita

Ai governi nazionali, siano essi democratici liberali o populisti, viene consentita  una libertà di azione assai limitata, dentro segmenti precisi e all’interno di confini non valicabili. Possono certamente legiferare sul c.d. fine vita, vietando o consentendo il suicidio assistito, varando norme sempre più complicate per regolare l’accanimento terapeutico. Fermo una vaga generica proibizione di operare discriminazioni  possono consentire o meno matrimoni non tradizionali, riconoscimenti di prole, intervenire sugli affetti in occasione di visite ospedaliere, disporre corsi obbligatori di nozioni sulle materie più svariate, ostacolare o meno l’acquisizione della cittadinanza, limitare o meno l’ingresso, il soggiorno, gli studi. Quel che ha in mente la reazionaria bigotta Eugenia Maria Roccella, titolare di un dicastero per la famiglia (qualunque cosa voglia dire oggi), lascia nella totale indifferenza i consigli di amministrazione delle multinazionali e infiamma soltanto associazioni di quartiere ospiti di una qualche redazione televisiva.

Autonomia differenziata

Il governo Meloni concentra la propria visibilità e identità sull’attacco radicale a minoranze percepite come tali, disarmate e adatte al ruolo di capro espiatorio. Il varo di norme repressive caratterizzate da una severità spropositata colpisce aggregazioni giovanili in luoghi abbandonati (musica e/o sballo), proteste dimostrative di ecologisti che cercano (purtroppo invano) di attirare l’impegno collettivo, in difesa dell’ambiente, colorando un monumento, immigrati rinchiusi in lager sovraffollati pronti per l’espulsione o per il lavoro irregolare sottopagato. Le morti recenti nel cantiere Esselunga di Firenze confermano ciò che già era noto: il carattere ordinario e istituzionale della manodopera ingaggiata in nero capace di assicurare maggior profitto. La sceneggiata di un lager ulteriore in terra albanese non cambia il quadro: sono (anzi: saranno… e chi sa quando!) poche centinaia di deportati nel gran mare di arrivi. Per quanto la propaganda si impegni è davvero troppo poco, si tratta di qualche centinaio di potenziali condanne per episodi secondari, senza ricadute di effettiva portata nelle comunità territoriali. Occorreva introdurre un cambio di passo, promettere un cambiamento istituzionale capace di aprire la strada verso un futuro migliore. L’elezione diretta del presidente del consiglio risponde ad una prima esigenza, quella di accompagnare la svolta dispotica necessaria alla transizione alla figura dell’uomo forte, nemico della burocrazia, pronto a sistemare ogni cosa. Difficile prevedere l’esito di un simile tentativo che esige non solo una doppia lettura ma con ogni probabilità anche un referendum confermativo che potrebbe trasformarsi in una trappola. Prudentemente Giorgia Meloni si guarda bene dal legare il proprio destino politico al risultato della consultazione, si accontenta di agitare la questione per rafforzare innanzitutto se stessa; non vuole commettere l’errore dell’arrogante Matteo Renzi.  In ogni caso chiunque sia eletto e a prescindere dal metodo di elezione il programma rimane lo stesso. Più gravida di conseguenze concrete appare invece la seconda riforma istituzionale, quella volta a modificare il rapporto fra stato centrale e regione, la c.d. autonomia differenziata. Benché contenga una sostanziale modifica costituzionale, con notevole disinvoltura, la maggioranza ha portato il testo davanti alle due camere in forma di legge ordinaria; nella seduta del 23 gennaio 2024 il Senato (sulla carta il passaggio meno facile) ha approvato l’impianto elaborato (con alcuni significativi ritocchi) in commissione e ora è spianata la definitiva approvazione ad opera dei deputati. Nelle pieghe di una accresciuta (allo stato solo potenziale) signoria nel governo delle singole regioni si cela un meccanismo potente di controllo centralizzato, di dominio sulle comunità territoriali. L’art. 116, terzo comma, della Costituzione consente su alcune importanti materie ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia regionale; qui si viene a disciplinare il come e anche il se ci si possa arrivare, in modo però differenziato a discrezione della maggioranza in carica. L’articolo 2 (testo del Senato) rimette alla singola Regione l’elaborazione, approvazione e presentazione di una richiesta di autonomia che viene rimessa (non al Parlamento ma) al Consiglio dei Ministri, che provvede ad acquisire pareri della Conferenza Stato Regioni e delle Commissioni presso le Camere, conformandosi o meno a detti pareri non vincolanti. Poi (commi 6-8) elabora unilateralmente la proposta di intesa con la regione richiedente, e la trasmette alle due Camere, per approvazione o rigetto: prendere o lasciare. Il C. dei M. si riserva  di limitare l’intesa a una parte soltanto della richiesta di autonomia. Dunque: senza il consenso espresso (non del Parlamento ma) dell’esecutivo incarica nessuna intesa sull’autonomia è possibile. E non basta! Mediante le modifiche al testo “leghista” originario introdotte in commissione il controllo del governo è letteralmente blindato con un trucco del mestiere già utilizzato da Renzi per i Jobs Act del 2015: la legge delega. L’intesa con la singola Regione poggia necessariamente sui c.d. LEP, i Livelli Essenziali delle Prestazioni. L’articolo 3 del testo approvato in Senato conferisce al Governo la delega per definire l’ambito dei LEP con riferimento a lavoro, ambiente, comunicazioni, trasporti, energia, beni culturali, tutto ciò che possa essere oggetto di autonomia, anche differenziando, comunque senza dover passare attraverso il dibattito parlamentare. Non basta ancora! Costi e fabbisogni sono definiti, con cadenza triennale, a mezzo di DPCM, quelli entrati in uso durante la pandemia come eccezione e subito diventati regola costante di governo, come, già allora, facili profeti, avevamo previsto. L’intesa ha una durata massima di dieci anni, ma nulla vieta di porre una scadenza più ravvicinata. La Regione propone, il governo dispone.

Il meccanismo della c.d. autonomia differenziata consente dunque all’esecutivo di punire, negando intese, i territori riottosi; al tempo stesso è lo strumento tecnico-politico per assegnare risorse solo a chi è fedele, sottraendole a chi invece si oppone. Realizza, sotto la veste di un apparente decentramento, il controllo sulla popolazione, accompagnando per via legislativa, la transizione, legittimando privatizzazioni, sottrazione di risorse comuni, precarizzazione, allargamento della forbice ricchi/poveri. Costruire questo passaggio con legge ordinaria abbatte il rischio referendario: a differenza di quello “costituzionale”, che non ha quorum per la validità della consultazione, questo  sull’autonomia differenziata (già di ammissibilità dubbia) impone (in tempi di crescente abbandono delle urne) la partecipazione del 50% dell’intero corpo elettorale, italiano o estero che sia.

Probabilmente le reali conseguenze di questo provvedimento non sono ben chiare neppure a chi le sta varando: FdI le considera strumento di controllo e pressione (o magari di ricatto), la Lega sogna di fare un trampolino per il rilancio dei consensi nel nord Italia. Sono miopi, rischiano entrambi la sorte dell’apprendista stregone, agiscono sereni per via della bonaccia. Ma, dopo la bonaccia, prima o poi, arriva la tempesta. Può passare a volte un tempo infinito, è vero; ma altre volte basta un attimo e arriva, imprevisto, un tifone. Specie durante le guerre e le transizioni.

Immagine in apertura: “Sea in the moonlight” (1827-1828) di Caspar David Friedrich