Continuano, sulla scia del contributo di Davide Caselli sul dono, le riflessioni Effimere circa la portata politica dell’apertura all’altro e al mondo. Silvia Fabrizio, dal Laboratorio Lilith, ci parla di vulnerabilità come esposizione.

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Vorrei provare, in queste prossime pagine, a far luce sul concetto di vulnerabilità che sta avendo ritrovata rilevanza nel panorama filosofico e antropologico attuale. Togliendo questo discorso dalla penombra potremo smettere di considerarlo sempre alla luce di e in opposizione a qualcosa di più pieno e integro. Se ancora non ci siamo liberat* dalla dicotomia cartesiana allora possiamo senza dubbio collocare la vulnerabilità nell’emisfero passivo, debole, scomposto, disintegrato, molle, infermo, manchevole. Si tratta, in questo caso, di stanare le mistificazioni che le nostre parole costruiscono attorno alla vulnerabilità per arrivare a ciò che non possiamo fare a meno di vedere e sentire. La vulnerabilità in molti modi coincide con l’esistere, ogni essere vivente nella sua immanenza si scontra con il rischio di non-essere-più o di essere-diversamente.

Capovolgiamo subito questo assetto binario mostrando come Butler (2015) apra la definizione di vulnerabilità:

If we have to have a definition, it will depend, rather, on being able to think vulnerability and agency together.

[…] Perhaps the word “exposure” helps us think vulnerability outside the trap of ontology and foundationalism.

Ci propone (non) molto semplicemente di pensare ad un ‘and-both’. La semplicità nasce dall’accostamento dentro la stessa famiglia concettuale di vulnerabilità e agency, una forma di operatività che si sporge molto verso l’autodeterminazione. Il ‘non’ è dato dal fatto che l’azione e la capacità di agire nel mondo non fanno parte della famiglia di significato della vulnerabilità che viene sistematicamente allontanata da questo ambito linguistico e usata, se non come opposto, sicuramente come condizione di privazione, di sottrazione. Non è assurdo pensare ad un essere vivente che seppur inabile o privo di forze abbia la capacità di agire ma questa forma di vitalità non viene considerata quantitativamente rilevante.

Se l’agire è definito universalmente attraverso uno standard performabile da una porzione ridotta e specifica di individui tutto il resto è esclusione.

La parola esposizione[1]non è altrettanto invischiata ed è per questo che Butler la propone come più utile a visualizzare la condizione di cui parliamo. Non evoca i presupposti che evidenziano l’incontrovertibilità del fatto che esistano soggetti inerentemente vulnerabili.

Portiamo avanti questo ribaltamento che mostra la falsificazione del pendolo attivo/passivo, dentro/fuori insieme a Wittgenstein che sia nelle Ricerche sia in Della Certezza considera la vulnerabilità come postura teorica imprescindibile e non solo come eccezione o come effetto collaterale dell’agire nel mondo.

La vulnerabilità è data dalla percezione del fallimento del linguaggio e della comunicazione, dal sentirsi privi di un contesto vitale che permetta di essere compresi e comprendere. Si tratta del girare a vuoto del linguaggio, la mancanza di attrito che ci fa sentire privi di terreno ruvido sul quale poggiare la nostra vita – è anche il momento nel quale la vita perde la sua forma e rischia di diventare invivibile. Per uscire dalla bottiglia nella quale ci troviamo spesso rinchiusi Wittgenstein ci indica una via: tornare all’uso delle parole, al loro contesto quotidiano, agli esempi che emergono dalle pratiche perché il nostro pensiero è vulnerabile allo smarrimento, il nostro linguaggio non è sempre adeguato allo scopo e le nostre vite così come le nostre certezze riposano su cardini che possono cedere. La frattura che si crea e che mette in crisi il sistema di credenze e certezze che ci permette di agire in modo condiviso rappresenta il passaggio obbligatorio verso l’apertura all’Altro e al mondo. Se invece di prevenire il rischio insito in questa crisi cerchiamo di descriverla e riconoscerla come costitutiva della capacità umana di fare fronte al cambiamento possiamo evitare di indulgere nella credenza di essere indipendenti dagli altri nella costruzione del linguaggio (l’illusione del linguaggio privato). Solo se ci convinciamo di poter vivere in modo assoluto e quindi sciolto da tutto il resto ci ritroveremo sull’orlo di un baratro, il baratro di chi cerca di misurare la propria altezza mettendosi una mano sopra la testa. Da queste forme di solipsismo o potremmo dire in modo più moderno, individualismo, scaturisce l’incapacità di riconoscersi parte di un contesto-mondo che può essere fonte di timore ma anche di riparo.

Riprendendo la citazione di Butler dalla quale sono partita provo a esplorare il concetto di vulnerabilità collegandolo a concetti a questo strettamente imparentati. Cercando di disegnare una rete di somiglianze di famiglia utilizziamo il concetto di esposizione per osservare la condizione di vulnerabilità con sguardo diverso. L’esposizione sottintende uno stare davanti a qualcuno o qualcosa, cioè un modo di muovere e gestire il corpo che lo espone al contatto con altri corpi senza l’utilizzo di protezioni. In questa immagine si configurano due aspetti, da una parte il coraggio e la forza necessari a rendersi vulnerabili e dall’altra il potenziale rischio di essere feriti. La possibilità della ferita e del dolore sono non solo possibili ma reali, tuttavia nell’azione del ‘rimanere esposti’ esiste anche una fermezza e una resistenza che impediscono di connotare questa postura semplicemente come passiva ed inerte.

Per Wittgenstein questa esposizione è il guardare che diventa vedere, uno sporgersi verso l’apparire dell’aspetto che cogliendoci di sorpresa dona una possibilità visiva che prima non esisteva per noi. Anche in questo esempio preso dalle Ricerche c’è un elemento subìto, ma la possibilità di essere colpiti da un nuovo aspetto, di vedere, finalmente, dopo aver guardato a lungo, attiene ad un gesto insistente, ad una decisione. La fermezza dello sguardo rende possibile il palesarsi di quello che prima non si riusciva a vedere, ma accanto alla fermezza troviamo l’apertura – un altro concetto imparentato con la vulnerabilità. Nell’approfondire questo concetto vorrei rendere più chiaro in che modo la vulnerabilità sia una condizione originaria, che quindi non possiamo evitare, e insieme diventi un modo di stare al mondo che assume l’aspetto della scelta o del rifiuto. 

Proprio perché secondo Wittgenstein dobbiamo astenerci dal credere di poter costruire i significati scavando nelle profondità del pensiero possiamo invece rimanere esposti alla luce in modo da lasciare che ci impressioni come una pellicola fotografica si fa impressionare dalla luce. Certo la pellicola ha la peculiare e specifica proprietà di essere impressionabile. La luce raggiunge la pellicola e lascia un segno su di essa. Se il diaframma è aperto e la pellicola è esposta troveremo il segno di questa apertura. Se la forma di vita sta lí e cioè esiste per noi senza la possibilità di essere fondata è anche essa sicuramente precaria e vulnerabile; essa è un sistema mobile, si regge su dei perni che corrispondono a vari gradi di certezza. In Della Certezza viene messa alla prova la consistenza di questi perni che non essendo trascendenti sono vulnerabili al cambiamento ed esposti al deterioramento. Sono proprio deteriorabilità e cambiamento i fattori che assicurano al vivente la possibilità di essere-altrimenti cioè di ri-immaginare e rimettere in forma (una nuova forma) la vita.

Quando nelle Ricerche veniamo spesso incitati ad osservare e guardare invece di pensare (o dire) siamo appunto spronati ad un atteggiamento di attenzione e ricettività al mondo e al linguaggio diverso da quello che caratterizza il pensiero, abituato a risalire la spirale causale alla ricerca di definizioni.

Parlando di vulnerabilità in termini di esposizione e apertura stiamo mettendo in luce un atteggiamento e un modo di agire, quindi una prassi. A questo punto ci sembrano significative due citazioni da Della Certezza:

Non devi dimenticare che il gioco linguistico è, per così dire, qualcosa di imprevedibile. Voglio dire: Non è fondato, non è ragionevole (o irragionevole). Sta lí – come la nostra vita.

Da certi eventi potrei essere messo in una situazione tale da non essere più in grado di continuare il vecchio gioco. In cui sarei strappato via dalla sicurezza del gioco. […] (617)

In questi due passaggi Wittgenstein riesce a mostrare in modo molto vivido la vulnerabilità delle nostre vite, del linguaggio che usiamo e del mondo nel quale viviamo. Lo fa usando, in particolare due parole, prima un aggettivo imprevedibile e poi un verbo strappato. In entrambi i casi viene rimarcata la mancanza di controllo e di fondamento (esiste invece un ‘fondamento infondato’) che caratterizza la vita umana. Se non è possibile prevedere lo sviluppo di un gioco linguistico e se la sicurezza del gioco è minacciata dagli eventi allora siamo tutti passibili di essere strappati dall’agio della nostra condizione (conoscitiva e materiale). Ma da questa consapevolezza non deve necessariamente scaturire una chiusura o un paranoia che ci porta alla paralisi, al non agire o al silenzio. Al contrario, per Wittgenstein, questa mutabilità, questa precarietà del sistema non equivale al caos ma serve invece ad avere ben chiaro che il vivente, agisce e comunica nel mezzo di questo vuoto di certezze assolute. Nel mezzo di questa indeterminatezza produce e riproduce linguaggi e pratiche che si ancorano al contesto, nel quale assumono senso, e all’uso – dei segni e del corpo inteso già come agglomerato di posture e gesti significativi.

Non esiste un riparo filosofico o fisico che possa proteggere da questa condizione, esiste solo un agire e un comunicare che si intersecano in modo interdipendente con tutti gli elementi che costituiscono le forme di vita.

La negazione e rimozione della vulnerabilità dalle nostre vite implica la rinuncia ad abitare il contesto-mondo in modo aperto ed esplicito. Ma visto che, come fa notare Butler, nessun corpo può sottrarsi alla dipendenza dagli altri corpi e da un mondo che li sostiene tutti, la conseguenza di questo non-vedere è la ricerca di sicurezza altrove. Un altrove che si può delineare come separazione forzata da alcuni altri, come privilegio (creare le condizioni materiali tali per cui alcuni corpi siano sistematicamente resi più vulnerabili di altri) e in ultima istanza come paura o terrore nei confronti della continua modificazione del contesto. Una lotta disperata e disperante contro la possibilità come orizzonte vitale.

La condizione di vulnerabilità suscita spesso un certo rifiuto perché mette in primo piano la dimensione ricettiva e inerme del vivere. Quando veniamo al mondo siamo inseriti in un contesto del quale impariamo a far parte grazie all’apertura e alla plasmabilità che caratterizza la nostra forma di vita. Il linguaggio, ci dice Wittgenstein, si manifesta come una serie di tecniche e giochi che ci vengono mostrati e che dobbiamo essere in grado di replicare. Immagazziniamo una quantità enorme di informazioni e tutto questo avviene in un periodo delle nostre vite nel quale l’interdipendenza dagli altri è estrema mentre la nostra capacità di stare al mondo è in fieri.

Esiste un elemento di ricettività passiva in questo periodo della vita, ricettività che non si esaurisce (e non può esaurirsi) mai del tutto. Ma insita in questa apertura opera una attività febbrile che non si può ridurre a catalogazione di nomi e che lascia intravedere un gran numero di attività che permettono alla persona di diventare inter-dipendente.

È una capacità che riguarda la possibilità di comunicare con gli altri prima ancora che con se stessi. Il pensare tra sé e sé è un gioco linguistico complesso che presuppone una maestria e una esperienza del linguaggio che fa parte del contesto condiviso e dei giochi che ci sono stati insegnati e ai quali abbiamo imparato a giocare. Questi insegnamenti devono essere assimilati e riprodotti e l’apertura conoscitiva che dobbiamo manifestare per poter sopravvivere è allo stesso tempo il nostro riparo dal mondo e la dimostrazione del fatto che non potremo mai essere completamente impermeabili a esso.

Questa apertura o vulnerabilità è una caratteristica della forma di vita umana[2]– e Butler suggerisce, anche di tutte le altre.

Cercare di eliminare questa vicinanza, questa condivisione originaria – la condivisione della precarietà e della vulnerabilità – ci spinge a pensare ad un rifugio che rischia di essere più pericoloso della vulnerabilità stessa. Un rifugio che vede nella sicurezza delle barriere (non solo materiali) e nell’agio della separazione l’unico modo per far fronte all’indeterminatezza. Mettendo in atto tali dispositivi però l’apertura originaria verso l’esterno si potrebbe davvero palesare solo come limitazione e chiusura da una parte e paranoia dall’altra. La vulnerabilità come condizione parziale, temporanea ed evitabile si somministra in modo controllato e specifico. Viene impressa su quei corpi che esprimono una potenzialità di sovversione di paradigmi ontologici immutabili e universali. Ma il corpo vulnerabilizzato è anche il corpo pericoloso, che necessita quindi di essere rinchiuso e invisibilizzato o mostrato solo in funzione di un ruolo che non ha scelto.  

Quando Wittgenstein parla di accettazione della forma di vita sta indirizzando il nostro sguardo verso la limitatezza dei nostri corpi, del nostro linguaggio e del nostro mondo. La limitatezza, invece, non è sinonimo di povertà concettuale e non risulta in una infelicità costitutiva. All’interno dei confini che il nostro linguaggio lambisce continuamente e soprattutto avvicinandoci a questi limiti possiamo percepire la densità e la complessità di tutte le forme di vita.

Ma proprio a questo crocevia mettiamo a fuoco la vulnerabilità del vivente che può comunicare e immaginare, modificare il proprio ambiente ma né controllarlo né  riconoscerlo, una volta per tutte,  come rifugio.

La costruzione di un ambiente sicuro è una necessità che viene continuamente frustrata e tuttavia rimane obiettivo primario di ogni forma di vita. Ma proprio perché non possiamo sfuggire alla vulnerabilità della nostra condizione non esiste un rifugio definitivo e totale.

Lo spazio del linguaggio assomiglia, secondo Wittgenstein, ad una antica città che nel tempo si è sviluppata per stratificazione di vicoli e palazzi di epoche diverse e con utilizzi diversi. Questo spazio che esiste per eccesso e che sfida la coerenza e l’ordine o l’essenzialità è sempre uno spazio condiviso, uno spazio comune.

Riprendiamo questo famoso passaggio di Wittgenstein perché pensiamo che questa immagine mostri la complessità come l’esito di una giustapposizione di scopi, stili e contenuti, non come una purificazione. Questo luogo fitto e intricato che è il linguaggio e che è il mondo non può essere ridimensionato o ridotto in modo da minimizzare il rischio di perderne il senso e l’orientamento. Entrambi, infatti, scaturiscono dall’esplorazione e dall’osservazione della molteplicità non ancora semplificata.

Non si può distruggere e ricostruire con criteri più chiari e distinti; una accettazione è richiesta e poi una mappatura per rendersi conto di come muoversi nel linguaggio-città e soprattutto di come non perdersi. Mappatura e accettazione indicano chiaramente una possibilità di trovare il senso e di trovare la strada pur rimanendo all’interno di un contesto che eccede la nostra capacità di controllo e che può rivelarsi minaccioso.

Anche Butler descrive uno spazio condiviso – reale – e cittadino nel quale i corpi si incontrano e abitano. È uno spazio non purificato ma nuovo, costruito in movimento e comunque rischioso.

La capacità e lo sforzo di conoscere e abitare lo spazio pubblico in modo condiviso è, a  mio parere, da collocare tra i tentativi pratici di costruire un rifugio e un agio senza nascondere la vulnerabilità ma invece rendendola esplicita.

 

Silvia Fabrizio

Laboratorio Lilith

Note

[1] […] vulnerability cannot be associated exclusively with injurability. All responsiveness to what happens is a function and effect of vulnerability [] Vulnerability may be a function of openness, that is, of being open to a world that is not fully known or predictable. Part of what a body does (to use the phrase of Deleuze, derived from his reading of Spinoza) is to open onto the body of another, or a set of others, and for this reason bodies are not self-enclosed kinds of entities. Judith Butler, Notes Towards a Performative Theory of Assembly, 2015, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts – London, England, p.149.

[2] “I ‘molti’ sono effettivamente tali in quanto condividono l’esperienza del <<non-sentirsi-a-casa-propria>>”. Paolo Virno, L’idea di mondo, 2015, Quodlibet, Macerata, p. 83.

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