Mi è difficile scrivere. Difficile usare parole che non feriscano qualcuna o qualcuno, e trovare parole che non siano inutili. In questi giorni si sono contrapposti morti a morti, vite degne a vite meno degne. Mentre scrivo desidero tenere conto – oltre che delle persone che sono morte per il covid 19 – di tutti gli uomini e le donne per i quali il discorso secondo cui la malattia colpisce “solo” chi è anziano o ha altre patologie o è immunodepresso è stato ad ogni passaggio televisivo, ad ogni titolo letto su internet, una coltellata. Sentire di essere un numero dentro una statistica e che quel numero può essere una condanna a morte suona terribile. Sentire che la società in cui vivi può decidere che la tua vita sia sacrificabile rispetto a quella di qualcun altro è orribile. Pensare questo dei propri cari non lo è di meno, anzi.
Né posso certamente contrapporre morti a morti, allora vorrei provare ad “aggiungerli”, non per arrivare ad una somma, ma per allargare la percezione della vulnerabilità, per andare fino in fondo al giusto orrore per la sacrificabilità di alcuni, pochi o molti che siano. Insegno da due anni in un ospedale oncologico e se c’è qualcosa che ho imparato lì è l’importanza di ogni singola persona, di ogni ragazza e di ogni ragazzo, di ogni bambina e di ogni bambino, di ogni singola vita. Sto imparando lì l’importanza di “come” si vive con la malattia, di “come” si può guarire e tornare a vivere, ma anche – ahimè – di “come” si muore. Allora per non contrapporre morti a morti bisogna tenere “conto” della vulnerabilità di ogni singolo cercando di non lasciare fuori nessuno.
Ma appena metto al centro questa vulnerabilità “allargata” in tutte le sue forme, appena ne provo ad ampliare la percezione, mi fa male pensare che questo paese, questa società non si sia fermato di fronte all’aumento di tumori in tutte le fasce d’età, ma soprattutto nelle creature piccole. Da subito il mio primo pensiero è stato: ma allora si poteva fare, si poteva fermare tutto! Perché non si è fatto? Perché le lotte che hanno denunciato la relazione tra “biocidio” e aumento di patologie oncologiche in Campania hanno faticato a venire ascoltate? Perché si finanziano poco quelle ricerche epidemiologiche che consentono di individuare i fattori che incidono sull’incremento dei tumori? Perché non si investe di più sulla prevenzione puntando alla trasformazione della nostra società e del nostro rapporto con l’ambiente per ridurre o eliminare questa patologie? Come mai in quel caso desiderio di salute dal basso e decisioni governative dall’alto non si sono incontrati, ma anzi scontrati anche violentemente? Una risposta – parziale – mi è venuta dall’idea che il tumore non è contagioso. In realtà ogni “sventura” – come la chiama Simone Weil – condanna chi ne è afflitto e in quanto tale viene respinta, dunque evoca sempre il contagio. Ma la “sventura” si può nel caso del tumore recintare, confinare, relegare alle vite di chi incontra questo dramma. Ci si può voltare dall’altra parte.
Invece il contagio diventa un vettore e un acceleratore incredibile di dinamiche di potere, esso produce un doppio effetto immediato, vista l’intensità, la velocità e la diffusione che lo caratterizzano. Da una parte diffonde uniformità nelle persone sulla base della paura (ognuno ha avuto paura di venire contagiato – anche grazie ai media che ci hanno tenuto a diffondere l’idea che non era vero che morissero e si ammalassero “solo” gli anziani, ma anche i giovani e i bambini – oppure di contagiare i propri cari). Dall’altra parte il contagio permette da secoli di creare “stati di eccezione” in cui i governi possono revocare le libertà individuali e sperimentare tecniche di disciplinamento dei corpi. “L’epidemia – come dice Benasayag – è il sogno di ogni tiranno, tutti diventano obbedienti per volontà propria”, “si crea questo godimento di obbedire che lega chi obbedisce al tiranno“, perché il “biopotere” funziona così, si aggancia ad una dimensione interna al soggetto.
Dunque la scelta politica italiana – almeno apparentemente – sarebbe stata quella di farsi carico di tutte le vite, o meglio, di tutte quelle affette da coronavirus. Ma in realtà visti i pochi posti in terapia intensiva, questa scelta lo stato non ha potuto assumerla su di sé e l’ha completamente rovesciata sulla popolazione, nel timore che si vedesse il re nudo, ovvero apparisse evidente quello che ogni italiano sa da tempo per averlo vissuto sulla propria pelle e cioè che un sistema sanitario nazionale di tutto rispetto è stato sottoposto a tagli incredibili negli ultimi venti anni a vantaggio – tra l’altro – del settore privato. Sulle prime è sembrato che i cittadini prendessero sul serio questo compito sviluppando un senso di solidarietà diffuso, ma molto presto si è capito che la strada che stavamo prendendo non era quella della presa in carico della reciproca vulnerabilità, ma quella del “terrore a mezzo stampa”, della contrapposizione reciproca, del sospetto e della paura.
Scaricare sui cittadini la responsabilità di prendere in carico tutte le vite si è rivelata presto – inoltre – un’operazione impossibile, illusoria perché da qualunque lato tu la prendi, restano fuori dal conto gli altri morti, le altre sofferenze, le altre vulnerabilità e dunque il discorso non fila, perché non ci possono essere “morti più morti di altri”. Bisognerebbe allora aggiungere la vulnerabilità di chi non ha potuto più recarsi in ospedale per paura di contrarre il virus e che potrebbe riportarne conseguenze gravi, di chi non ha potuto usufruire degli screening di prevenzione di molte malattie a causa degli ambulatori chiusi, per non parlare del “prezzo” psichico, economico, sociale che molti hanno cominciato a pagare da subito, e ogni giorno che passa sempre più persone pagheranno. Poi, a voler estendere per davvero questa idea di vulnerabilità, a voler allargare l’orizzonte della cura quasi a moltiplicarla all’infinito non ci si può limitare all’umano. Come nota Cristina Morini – riprendendo Haraway – questa pandemia ci pone davanti ad uno scenario di lutto con cui già altri esseri si confrontano da tempo se il Living Planet Index del 2018, principale indice statistico dello stato di biodiversità sulla Terra, ha tracciato una perdita del 60% dei vertebrati tra il 1970 e il 2014. Allora io chiedo: la strada tracciata in questi giorni è quella dell’“empatia, simbiosi, simbiogenesi”? Ci troviamo di fronte ad un’estensione della cura “intesa come responsabilità collettiva che coinvolge tutti i corpi, tutti indistintamente importanti, tutti indistintamente mortali”? Per niente, purtroppo.
Nelle ultime settimane ho visto il nostro paese percorso da un terribile odio, dall’irrazionale disprezzo verso gli altri. Io stessa sono pervasa da un’enorme rabbia, dovuta al fatto che – a fronte di una totale assenza di assunzione di responsabilità da parte di chi ci governa in merito alle politiche sanitarie che ci hanno condotto fin qui – mi/ci è stato chiesto moltissimo, troppo. Rinunciare ai nostri corpi, alla possibilità di muoverci, rinunciare alla possibilità di incontrarci, di riunirci, lavorare, oziare quando lo decidiamo noi, a tratti rinunciare alla possibilità di pensare e parlare. Tutto ciò imposto nella maggior parte dei casi con il più bieco autoritarismo, con una militarizzazione di alcuni territori, metodi polizemergenza, governoieschi e con un inquietante consenso totale nel paese costruito grazie ad un uso criminale dei mezzi di informazione. Si sono utilizzate metafore di guerra che hanno trasformato un “problema di salute pubblica in uno scenario di protezione civile” (Gianni Tognoni), uno scenario in cui i cittadini si sono sentiti arruolati in una lotta senza quartiere contro un nemico invisibile, che proprio perché non è da nessuna parte potrebbe essere dappertutto. “Il nemico può essere chiunque, anzi il nemico è la vita in sé, dal momento che i virus su questo pianeta sono la forma di vita più diffusa” (Angela Balzano).
Il re è nudo, dunque: viviamo in una società neoliberale che ha smantellato i sistemi sanitari pubblici nei nostri paesi. È questo che mette in pericolo la nostra salute, perché anche se è vero che le risorse di uno stato non sono mai infinite è anche vero che la quantità maggiore di ospedali, medici, posti in terapia intensiva permette di non trovarsi davanti a scelte terribili. Oggi chi ci governa e ci ha condotto verso questo baratro ci chiede di rinunciare alle nostre libertà individuali e alle forme democratiche senza un chiaro limite temporale, senza un piano minimamente trasparente di come verrà gestita una situazione che – pur nella sua drammaticità – va avanti oramai da parecchio tempo (dunque l’alibi dell’effetto sorpresa lo possiamo ritenere scaduto, se mai ha avuto valore a fronte di una pandemia prevista e immaginata da tempo). Ci viene chiesto di entrare in una crisi economica senza precedenti per questo danno commesso non da noi. Se accettiamo di addossarci per intero questa responsabilità senza reclamare da chi ci governa che si assuma le proprie fino in fondo, domani ci verrà chiesto allo stesso modo di pagare noi – uno per uno – i costi della sospensione di questi mesi. Allora mi piacerebbe che invece di urlare a chi cammina in strada di stare a casa dirigessimo quella rabbia verso chi ha causato questa situazione e prendessimo nota di ogni cosa per il futuro, ma un futuro che cominci da domani.
Non possiamo assolutamente rassegnarci al fatto che bisogna scegliere tra uguaglianza e libertà, tra salute e libertà, tra salute e democrazia. Che cos’è questa democrazia, mi si dirà? Non l’abbiamo sempre decostruita, contrastata, non ne abbiamo sempre evidenziato i limiti? La democrazia è quello spazio che mi permette di scrivere adesso, quello spazio di attrito tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, che mi permette oggi di coltivare la nostalgia per la libertà, gli incontri, le relazioni. In quest’ultimo mese questo spazio si è ridotto in certi momenti fino a farsi sottilissimo, fino quasi a togliermi il respiro. Per fortuna ho scoperto che la rabbia e la preoccupazione non era soltanto mia, ho potuto condividerla con altre e con altri. “Proprio di fronte a crisi di questo tipo è necessario pensare a come socializzare la rabbia e renderla politica. La rabbia verso uno stato che doveva tutelare la salute pubblica e invece ci sta portando verso una crisi economica dalle dimensioni imprevedibili” (Sara Gandini). La democrazia è lo spazio entro cui giocare il desiderio che si apra un orizzonte di vita anche in un momento così cupo. Quello spazio che permette di rivendicare libertà e vita per quelli che stanno perdendo il lavoro, per i lavoratori e le lavoratrici in “smart working”, per i detenuti, per i senza fissa dimora, per i bambini chiusi in casa da un mese senza un motivo razionale se non quello di presupporre ormai l’incapacità degli italiani di autoregolarsi, per gli immigrati, per una società ecosostenibile che provi a “tenere conto” di tutti i viventi…
Uno spazio in cui reclamare una stampa responsabile non votata al terrore, in cui esigere un piano coerente e trasparente di gestione di un problema sanitario, in cui guardare con maturità agli scienziati ed esperti, non come a delle figure ieratiche che debbano darci prescrizioni per il nostro futuro, ma come a persone che lavorano per scienze non esatte avvolte in nessi di sapere-potere. Ma la battaglia più importante adesso consiste nel rivitalizzare i nostri corpi, uscire prima possibile, radunarsi – pur con le dovute precauzioni – perché la “fase due”, così come tutte le successive, non può essere scritta solo dal manovratore, ma deve nascere dal confronto con le nostre pratiche politiche, e le pratiche politiche non emergono dalle tastiere dei computer. Non ha senso attendere un tempo senza virus, un tempo puro, sano, dobbiamo negoziare da subito le condizioni e le forme delle nostre vite “con il problema” (Haraway).
RIFERIMENTI
http://effimera.org/elogio-del-mostro-e-dellamore-in-un-pianeta-infetto-di-cristina-morini/
https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/04/coronavirus-nell-aria/
Immagine in apertura: Betty Tompkins, What Is She Thinking #2 , 2015
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