Barcelona en Comú e Ada sono ancora una speranza di città più giusta, sostenibile e femminista
Tanto si è scritto sul governo di Barcelona en comú e della sindaca Ada Colau che la prima cosa che ci si deve chiedere è: serve un altro articolo? La risposta è sì solo se i racconti sul governo della capitale Catalana si perdono per strada un pezzo importante della realtà che intendono descrivere. Di seguito provo ad illustrare che le cose non dette, nei vari articoli proposti su Barcelona en Comú su questo giornale, sono di non poco conto.
Sulle colonne di Monitor si è scritto con un’attitudine attenta e critica del governo movimentista e municipalista di Barcellona già a poco più di un anno dal suo insediamento. Le osservazioni acute e le analisi legittimamente perplesse sui risultati politici ottenuti dai comunssi sono poi intensificate prima e dopo le ultime elezioni. Provare a descrivere i risultati e gli atti mancati che riguardano il governo della città, simbolo internazionale della possibilità di governare con coraggio contro le speculazione del capitale, per una città solidale e che accoglie, ecologista e femminista, è senza dubbio encomiabile. Eppure, sento la necessità di dover dimostrare che la descrizione offerta da queste storie è parziale; non nel senso ovvio che non racconta tutto ciò che si deve, questo è normale per lo spazio che può occupare un articolo di un giornale di inchiesta. La rappresentazione offerta è parziale in un senso non negativo, ma di certo più specifico, in quanto è dettata da una certa fascinazione per il supposto portato rivoluzionario del movimento indipendentista catalano. Il fascino è comprensibile, il rischio di essere sedotti infatti non lo corre solo chi segue i discorsi di Barcelona en comú, come sembra far credere uno degli articoli su citati e a firma di Castagno e Ponzio. Essere attratti e catturati da un’idea è in fondo la base di ogni passione politica, questo tra compagni di sinistra radicale e anticapitalista non ci sarebbe neanche bisogno di dirlo. D’altro canto la passione, attrazione e seduzione non deve essere sottaciuta o lasciata implicita; il racconto, infatti, per trovare la sua massima autorevolezza deve sempre essere situato. Per cui comincio dal posizionarmi: sono un compagno napoletano che da più di un decennio vive a Barcellona e che dal 2015, e sempre di più negli ultimi anni, appoggia il governo della Colau. Sono per il diritto a decidere ma se il referendum si svolgesse voterei no all’indipendentismo. Condivido in larghissima parte le posizioni politiche della CUP (il coordinamento di movimenti anticapitalisti e assemblearisti catalani) eccetto, e sono cosciente che ciò non è di poco conto, la priorità indiscussa che la base cuperaha scelto di dare alla lotta indipendentista. È da qui, con questo sguardo sulle vicende politiche di Barcellona che provo a mostrare cosa i racconti proposti su Monitor in questi anni, circa il governo della capitale catalana, non lasciano intravedere. Lo faccio nella speranza di rilanciare la radicalità a sinistra e sommare le forze, certo non per dividere o rinsecchirne le già magre energie. Per non tediare, mi focalizzerò solo sull’ultimo dei pezzi pubblicati poco dopo l’inaspettata, visti i risultati del 26 Maggio, rielezione a sindaca di Ada Colau. La speranza è rilanciare un dibattito arricchente e che faccia le pulci ai governi amici ma con spirito costruttivo e volontà trasformativa. Dunque, dialogherò per ora solo con i contenuti dell’articolo a firma di Portelli e Serri. Proverò a mostrare che gli autori raccontano del bicchiere pieno dell’indipendentismo quando invece non lo è; del bicchiere mezzo vuoto del progetto di Barcelona en comú senza descrivere cos’è che riempie l’altra metà; infine dirò qualcosa sulla tendenza degli autori a svuotare il bicchiere della trasformazione radicale, equa, sostenibile e femminista di Barcelona, tendenza che contribuisce a distanziare i soggetti insorgenti che aspirano a tale trasformazione. Vale la pena sottolineare che questi soggetti non sono solo appartenenti a Barcelona en comú.
Fatta questa necessaria premessa, passo a spiegare questi tre punti.
Ma il bicchiere indipendentista è davvero così pieno?
Alle elezioni municipali del 26 Maggio il partito più votato è stato Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), un partito social-democratico indipendentista. I dirigenti di ERC hanno candidato a sindaco Ernest Maragall, figura storica del partito socialista catalano (PSC) e fratello di Pasqual Maragall, sindaco di Barcellona per 15 anni e che nel 2003 fu capace di scalzare dal governo della Catalogna Jordi Pujol. Pujol è stato l’indiscusso capo del nazionalismo di destra liberale catalano e presidente del governo della Catalogna dalla fine del franquismo. La sua figura si è eclissata a causa degli scandali di corruzione, riciclaggio e malversazione.
Ernest Maragall ha una lunga storia politica nelle file del PSC e al fianco di suo fratello Pasqual. Nel 2018 passa a militare in ERC e nel 2019 ha condotto ERC ad una sonante vittoria a Barcellona. ERC ha più che raddoppiato i voti presi nelle municipali del 2015 e passa da 5 a 10 consiglieri. Lungimirante sembra essere stata anche la decisione dei dirigenti di ERC di offrire la posizione numero 2 della lista per le municipali a Elisenda Alamany, ex portavoce dei comuns al parlamento catalano e leader del gruppo sovranista fuoriuscito da En Comun Podem che rivendica la necessità, in un contesto di repressione crescente dei governi spagnoli, di realizzare il progetto di una repubblica catalana. Maragall quindi vince le elezioni ma non per questo il bicchiere dell’indipendentismo si può presentare come colmo.
Difatti, l’altro grande partito catalanista Junts per Catalunya (JxCat) si ferma a soli 5 consiglieri. JxCat viene fondato nel 2017 ed è un partito di estrazione liberale e democristiana; nasce dalle ceneri della coalizione CiU guidata da Jordi Pujol di cui sopra, in cui confluiscono altri settori di centro-destra del nazionalismo catalano. Nel 2015 sotto la leadership di Trias, già sindaco di Barcellona, l’allora CiU aveva raggiunto 10 seggi, quindi i militanti di JxCat fermandosi a soli 5 consiglieri non possono ritenersi soddisfatti. É comunque innegabile che per JxC è stata una campagna molto difficile, il suo candidato a sindaco Joaquim Forn ha dovuto seguire la campagna elettorale dal carcere. Forn è tra i dirigenti politici catalani arrestati con l’accusa di ribellione e sedizione per aver contributo all’organizzazione del referendum indipendentista del 1º ottobre 2017. Tra le file indipendentista, anche la CUP riceve un brutto colpo. Il partito anticapitalista che si radica nella storia del collettivismo anarchico catalano non riesce ad entrare in consiglio comunale; purtroppo passa dai tre rappresentanti dell’ultima consiliatura a zero in quest’ultima e perde metà dei suoi voti, dai 60.000 del 2015 a poco meno di 30 mila nell’ultima tornata elettorale.
A guardare bene il bicchiere indipendentista, quindi, ci si accorge che tanto pieno non è. Il fronte indipendentista prende sì in assoluto più voti, ma ne prende meno in termini percentuali, vista la grande partecipazione alle ultime elezioni. Nel suo complesso perde 3 seggi e passa dai 18 del 2015 ai 15 del 2019, per di più rimane fuori dal consiglio comunale la forza più dirompente della sinistra catalana, i compagni che sognano non solo una Catalogna repubblicana ma anche socialista. La tattica catalanista ha funzionato solo a metà, i voti indipendentisti si sono prevalentemente mossi da CiU a ERC, con il risultato di svuotare JxCat e specularmente inondare di voti ERC. Questo nuovo riassetto non è servito per conquistare la capitale catalana, la tattica di spostare a sinistra i voti in una città la cui anima si pensa tendenzialmente progressista è stata efficace ma non del tutto. L’ipotesi di una confluenza tattica del voto degli indipendentisti diventa ancora più evidente quando si guardano i risultati alle europee. JxCat, con il leader Puigdemont in esilio, prende quasi 200 mila voti in città, con uno scarto tra europee e municipali di più di 120.000 voti. Il risultato dimostra che anche gli indipendentisti barcellonesi riconoscono Puigdemont come presidente in esilio della Catalogna; ciò a scapito di Oriol Junqueras, leader in carcere di ERC che si ferma a 148 mila. Da notare che se si sommano i voti presi per le europee da ERC e JxCat e li si confrontano con quelli presi da questi stessi partiti alle municipali, gli indipendentisti perdono più di 70 mila voti. Un dato che ci permette di interpretare meglio la parte piena del bicchiere di Barcelona en comú.
E davvero così vuoto il bicchiere di Barcelona en Comú?
Ada Colau è stata sconfitta è vero, non è riuscita nell’intento di riconfermare il partito che guida come prima forza a Barcellona. Del resto in Italia, vedi il caso Napoli e recentemente Bari, siamo abituati a secondi mandati plebiscitari. La sera del 26 Maggio, con l’arrivo dei dati definitivi, Colau ammise di aver mancato l’obiettivo: Barcelona en Comú questa volta avrebbe potuto contare solo su 10 seggi, anziché sugli 11 di cui aveva goduto nel mandato precedente. Ma si può definire davvero questa una tragedia dei comuns, come fanno Portelli e Serri? Si può così sommariamente parlare di un sogno politico già infranto? Io sostengo di no e provo a mostrarlo dati alla mano. Barcelona en comú aveva vinto le elezioni nel 2015 sulla scia di fiducia che Podemos ed altre organizzazioni politiche nate dai conflitti sociali del 15M stavano conquistando in tutta Spagna. Oggi, quando quelle confluenze sono in fase discendente, si può affermare senza troppi dubbi che Barcelona en comú resiste. Se si confrontano, infatti, i voti presi da Unidos Podemos (UP) a Barcelona con quelli presi dal suo alter ego municipalista si capisce che Barcelona en Comú gode ancora di grande fiducia dei cittadini barcellonesi. UP raccoglie, infatti, 80 mila voti scarsi alle Europee, mentre icomunsraccolgono quasi il doppio e con più di 156 mila voti si fermano solo a 20.000 voti di distanza da quelli ottenuti nel 2015 quando Ada fu eletta per la prima volta sindaca. Il consenso territoriale viene sì perso in alcune zone della città ma, tutto sommato, i risultati raggiunti dal governo barcellonese negli ultimi 4 anni, per una grandissima fetta di cittadini (più del 20%) può essere considerato positivo.
Larga fetta dell’elettorato che guarda con simpatia al movimento indipendentista ha considerato che le politiche sociali, ecologiche e femministe del governo Colau sono encomiabili e degne di essere sostenute e che in prospettiva altri 4 anni di suo governo non possono che far bene ai cittadini di Barcellona. Tale giudizio è stato espresso dagli elettori anche alla luce della difficile posizione sul tema scottante dell’indipendenza che i componenti del governo municipale hanno mantenuto in questi anni. Una posizione che ha fatto perdere non pochi voti ai comuns nei quartieri proletari di emigrazione spagnola come il quartiere Nou Barris. Qui una parte dell’elettorato ha premiato la posizione anti-indipendentista del PSC ed è tornato a votarlo in massa, come faceva ai tempi di Pasqual Maragall. E molto probabilmente, contrariamente a quanto sostenuto da Portelli e Serri, Barcelona en Comú perde i voti proprio perché i suoi dirigenti e attivisti non si sono accodati alle decisioni nazionali del PSOE che hanno contribuito a criminalizzare gli indipendentisti catalani. Non si può dimenticare che Barcelona en Comú sciolse il patto di governo comunale con i socialisti del PSC proprio perché i deputati socialisti appoggiarono l’applicazione dell’articolo 155 della costituzione Spagnola, che permetteva il commissariamento di un governo autonomico che attentava all’integrità della Spagna. Rompendo quel patto i comunssi sono assunti una responsabilità ancora più grande, governare la città con un numero irrisorio di consiglieri e praticamente avendo contro tutto l’arco politico, quello indipendentista (ERC, CiU/JxCat, CUP) e anti-indipendentista (PSC e Partito Popolare).
A cosa e a chi serve svuotare il bicchiere della trasformazione sociale progressista?
È legittimo pensare che Ada avrebbe dovuto cedere il passo a Ernest Maragall e non farsi rieleggere sindaca con i voti di Valls. Del resto quasi il 30% degli iscritti (circa 1200 persone) di Barcelona en Comú ha votato per questa opzione. Per di più è facile prevedere che arrivare ad essere sindaca semplicemente perché ci sono forze sociali in città fortemente anti-indipendentiste sarà causa di uno scoramento con la propria base elettorale, che poi difficilmente avrà la forza d’animo per venire ad appoggiarti in piazza nel momento, ed infatti non lo ha fatto, della tua presa di posizione. Del resto dall’analisi di voto, che ho proposto nella sezione precedente, si capisce che un folto gruppo di quelli che hanno appoggiato Ada alle municipali preferiscono appoggiare partiti indipendentisti alle europee. Molti di questi si sentiranno traditi, forse anche giustamente. Eppure mi chiedo, basta sapere questo per decidere di screditare i compagni di Barcelona en Comú? A cosa serve far credere che Maragall voleva accordarsi offrendo per due anni la sedia di sindaco a Colau e lei ha preferito essere eletti con i voti dell’ex ministro francese, che ha avuto la mano dura con le minoranze etniche e l’immigrazione illegale? Perché forzare questa interpretazione? Quando, invece, la proposta di Maragall è arrivata a poche ore dall’insediamento e dopo che per giorni i dirigenti di ERC avevano rigettato categoricamente, così come avevano fatto i socialisti di Collboni del resto, di fare un governo di sinistra trasversale che mettese al centro le politiche sociali ed ecologiche su cui i tre partiti di sinistra avevano costruito i loro programmi elettorali. “L’accordo era improbabile come lo è un’amicizia tra il carcerato ed il suo secondino” ci dicono Portelli e Serri, omettendo che accordi di questo genere si sono dati negli ultimi giorni in decine di città della Catalogna (come ad esempio a Sant Cugat, Villafranca del Penedes, Figueres etc…).
Mi chiedo anche perché si arrivi ad associare i dirigenti di Barcelona en Comú con gli speculatori e gli immobiliaristi del capitale spagnolo e internazionale? Sì, che Valls sia appoggiato da queste forze dell’economia predatoria è un fatto, ma è anche un fatto che a tre anni dall’approvazione del piano turistico della città, che pur delle pecche ha, nessun grande albergatore può e vuole investire nella capitale Catalana. La moratoria contro i grandi investimenti, fortemente voluta dal governo Colau, ha reso non redditizi gli investimenti in città, dove l’arrivo dei grandi capitali diminuisce di quasi il 50% quando nel resto di Spagna gli investimenti aumentano di più del 20%. Certo, questo non significa che si è risolta la questione abitativa a Barcellona, ci sono ancora troppi sfratti ed una pressione enorme che sta facendo alzare i prezzi d’affitto e di compra, ma contenere la forza centripeta del grande capitale non è una cosa che si può minimizzare. Il fatto che non si sono raggiunti tutti gli obiettivi prefissati non significa che non c’è mai stato un governo del cambiamento.
Ci sono tante interpretazioni che si potrebbero contestare a Portelli e Serri ma sarebbe inutile e controproducente star a ribattere punto su punto. Lo faccio però per alcuni, perché non si può accusare che non si sia realizzata la municipalizzazione dell’acqua senza dire che sia i consiglieri di ERC che di CUP si sono opposti ad un referendum municipale che avrebbe per l’appunto dato l’avvio a tale progetto. Del resto, si potrebbero anche evidenziare cose fatte che non erano nel programma, come obbligare la fondazione della Sagrada Familiaa compensare i cittadini con 36 milioni di investimenti nel quartiere, a modo di compensazione per il mancato pagamento degli oneri di urbanizzazione che per 133 anni nessun governo cittadino si ero preso la briga di pretendere. Ed anche, la costituzione di un’impresa pubblica per promuovere la commercializzazione dell’energia rinnovabile in città, facendo diminuire la spesa pubblica per la fornitura di elettricità e garantire ad un prezzo più conveniente l’accesso all’elettricità a chi è in sofferenza, contribuendo così a combattere la povertà energetica.
Ripeto e non solo per retorica, questo articolo non l’ho scritto per difendere “senza se e senza ma” un governo amico, ma per difendere un’idea più generale: non possiamo abbandonare la speranza di irrompere nelle istituzioni per poter trasformare la società in cui viviamo. Certo dobbiamo continuare a riflettere sui rapporti tra movimenti sociali e potere, e fare autocritica quando gli obiettivi prefissati non si raggiungono, ma non svuotare il bicchiere che si va riempiendo di politiche alternative rovesciandolo. La città ribelle non è stata ancora persa. Nei momenti duri bisogna rilanciare; in fondo, in questi anni altri sensi comuni per costruire una contro-egemonia sono stati costruiti. La campagna elettorale si voleva fosse tutta incentrata sull’insicurezza di Barcellona, invece le politiche realizzate, anche se in alcuni casi non hanno completamente raggiunto i loro obiettivi, hanno costretto la maggior parte degli attori politici a discutere di diritto alla casa e speculazione edilizia, riduzione di contaminazione ed ecologia, conciliazione e politiche femministe. Barcellona città ribelle è in cammino; si tratta di continuare a costruire cultura contro-egemonica, di retroalimentare movimenti per la trasformazione socio-ecologica e politiche istituzionali, di lottare per una Barcellona più giusta, sostenibile e femminista. Di ritrovare possibili alleanze sul terreno della lotta sociale, anche e soprattutto con quegli attori della CUP che oggi si ritrovano senza rappresentanza nel governo della città, perché senza dubbio anche noi compagni comuns non vogliamo solo vivere in una repubblica, ma la vogliamo ecologista, femminista, decoloniale e socialista.